CON LA LOTTA OPERAIA SI E' RIAPERTA LA QUESTIONE GIOVANILE

Indice

La selezione di classe


Se la classe operaia è il bersaglio centrale dell'attacco dei padroni e del governo, tale attacco non colpisce solo la classe operaia. L'offensiva è a tutto campo: contro i pensionati, contro i lavoratori dei servizi e del pubblico impiego, contro i disoccupati, contro la maggioranza degli studenti. Non solo: i capitalisti e il loro comitato di affari cercano di colpire in modo diverso i vari settori del mondo del lavoro salariato, così da scavare delle linee di frattura nella massa degli sfruttati e ostacolarne la risposta unitaria. Un esempio per tutti. Con i provvedimenti sulle pensioni e con quelli sul mercato del lavoro il governo e il padronato non vanno solo a peggiorare le già precarie ed incerte condizioni di esistenza della massa dei giovani "senza riserva": con questi provvedimenti essi cercano di costringerla a mettersi in concorrenza con la classe operaia occupata.

Proprio per questo è della massima importanza che la poderosa risposta degli operai contro la finanziaria sia riuscita a trascinare nel movimento di lotta gli altri settori del proletariato e, in particolare, le masse giovanili (studenti, disoccupati e lavoratori): finora sotterranee, la rabbia e l'insofferenza dei giovani (e dei giovani proletari innanzitutto) hanno trovato modo di esprimersi e di manifestarsi. Sull'onda di questa mobilitazione nei cortei e nelle assemblee delle scorse settimane è risuonata la preoccupazione di "costruire un nuovo patto generazionale". Giustissimo: la ritrovata unità di lotta tra le diverse generazioni va consolidata e cementata fino in fondo. Per sventare il tentativo di divisione della borghesia. Per aumentare la forza d'urto complessiva del proletariato. Ma in cosa deve consistere e come può essere costruito questo "patto"? Per meglio rispondere a queste domande non è male cominciare con la liquidazione di quella falsa patina di sorrisi da karaoke con cui è stata avvolta per troppo tempo la condizione giovanile.

I sogni degli anni ottanta

Gli anni ottanta avevano promesso ai giovani mari e monti: non solo lavoro per tutti, ma lavoro soddisfacente e creativo; non solo un reddito decente per tutti, ma un'esistenza emozionante e divertente. Bastava mettersi a studiare seriamente oppure bastava accettare le sfide lanciate dalle leggi di mercato e, prima o poi, ci si sarebbe ritrovati a vivere tutti come a Beverly Hills.

Ad uno sguardo superficiale, poteva sembrare che nella seconda metà degli anni ottanta queste promesse cominciassero a realizzarsi. Nel nord del paese i giovani usciti dalla scuola dell'obbligo trovavano immediatamente lavoro: è vero, inizialmente era duro e precario, ma esso veniva presentato come il primo gradino di una scala ascendente. Un numero crescente di quattordicenni, però, circa il 10% in più che nel passato, preferiva continuare a studiare per qualificarsi ed essere in grado di ricoprire una delle nuove "magnifiche" mansioni dell'era dell'informatica e dell'automazione.

Nelle regioni settentrionali, quindi, in una congiuntura di quasi piena occupazione, si realizzava un balzo nella scolarizzazione secondaria dietro il mito della conquista di un lavoro pulito, responsabile e soddisfacente. E' vero che nel mezzogiorno la realtà era ben diversa, ma gli apologeti del capitale garantivano che il nuovo eldorado si sarebbe diffuso dal paradiso padano al resto del paese: la FIAT non aveva forse messo in cantiere la costruzione di un futuristico stabilimento automobilistico a Melfi?

Arrivati gli anni novanta, i sogni sono andati in frantumi.

Il brusco risveglio degli anni novanta: la scuola,...

Innanzitutto il ritorno ad una scuola "seria" e senza "facili promozioni" si è trasformata in uno dei mezzi per ridimensionare la scolarizzazione di massa. Le stesse indagini ufficiali indicano che a farne le spese sono stati gli studenti provenienti dalle famiglie di "basso livello socio-culturale", cioè dalle famiglie proletarie. Ma non si tratta solo di ripetenze, abbandoni e provvedimenti disciplinari. Nell'istituzione scolastica si è rafforzata un'organizzazione che mira a inculcare nei giovani atteggiamenti vili, rassegnati e individualistici. Come in fabbrica e in caserma, l'insegnamento essenziale dispensato nella scuola seria e qualificata degli anni ottanta è stato questo: impara ad essere oggetto nelle mani di chi detiene il potere per perpetuare il potere stesso.

Anzichè essere fattore di promozione sociale, la scuola si è rivelata per quello che non poteva non essere: strumento di riproduzione e di rafforzamento delle disuguaglianze di partenza; mezzo in mano pubblica per perseguire il fine privato di orientare e addestrare la forza lavoro del futuro secondo le necessità della classe dominante. Saranno poi la caserma, la giungla del mercato del lavoro e (per chi vi entrerà) la fabbrica a completare l'opera.

Tutto ciò, però, sarebbe ancora poco se, passando attraverso le forche caudine di una scuola più dura e più severa, si riuscisse a conquistare un lavoro e un futuro. Cosa è invece successo? Dopo anni di studio, di sacrifici e di speranze la massa dei giovani che è uscita dalla secondaria superiore nei primi anni novanta si è ritrovata nelle sabbie mobili della disoccupazione. Perfino oggi che le esportazioni ricominciano a tirare, la stessa voce del padrone invita a non farsi troppe illusioni per il futuro. Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale la nuova generazione deve rassegnarsi a vivere meno bene di quella precedente.

Se queste sono le prospettive di coloro che hanno un "pezzo di carta", figuriamoci quelle dei giovani disoccupati che hanno abbandonato la scuola durante le superiori o all'uscita dalla media inferiore o anche prima, durante la scuola dell'obbligo. Ma la vita è tutt'altro che rosea anche per quel 42.7% di giovani d'età compresa tra i 14 e i 29 anni che sono inseriti nel mondo del lavoro.

...il lavoro,...

Già durante la seconda metà degli anni ottanta, cioè durante gli anni ruggenti dell'"Italia da bere", è aumentata la percentuale dei giovani lavoratori impiegati da piccole imprese e in occupazioni saltuarie e precarie. Non è difficile immaginare cosa significhi tutto ciò in termini di orario, condizioni di lavoro, salario, diritti sindacali... Un solo dato: il Consiglio Nazionale dei Minori, istituito dalla presidenza del consiglio dei ministri, riferisce nel suo Secondo rapporto sulla condizione dei minori in Italia che i lavoratori di età compresa tra i 14 e i 18 anni subivano infortuni in percentuale doppia rispetto ai loro compagni adulti.

Molti giovani accettavano queste condizioni di lavoro senza ribellarsi poiché consideravano queste esperienze come provvisorio prezzo da pagare per passare a qualche cosa di migliore. Il vangelo di economisti e sociologi era del resto lì a profetizzare che, prima o poi, tutti avrebbero trovato un lavoro capace di permettere l'autorealizzazione personale; era lì a garantire che la flessibilità del rapporto di lavoro non era una disgrazia ma un'opportunità, giacché avrebbe permesso ai giovani di non rimanere inchiodati in eterno agli stessi ritmi di vita e di sperimentare varie e ricche opportunità professionali, di alternare periodi di lavoro a periodi di studio e vacanza... Insomma: un futuro radioso poteva far ben ingoiare un presente "monotono" e "frustrante"...

La realtà si è rivelata ben diversa: la fine di un rapporto di lavoro apriva la strada ad un lavoro con caratteristiche analoghe e, a partire dall'estate del '92, alla disoccupazione. Anziché disporre di una crescente autonomia personale, i giovani si sono ritrovati a dipendere ancor più che nel passato dal sostegno delle proprie famiglie; anziché diventare adulti "completi", sono regrediti nella condizione di fanciulli dal viso sfiorito; anziché coltivare i sogni della promozione sociale, hanno cominciato a pregare per conservare quello "sporco" lavoro che avevano avuto la fortuna di trovare.

...la "qualità della vita"

L'esperienza quotidiana dei primi anni novanta ha, dunque, cominciato a mostrare che la flessibilità apriva le porte non alla "vita spericolata" cantata da Vasco Rossi, ma a quella fatta di ozio forzato, di ricatti permanenti, di superlavoro, di disperata lotta per la sopravvivenza e, in un futuro che i rumori di guerra alle porte di casa ci annunciano sempre più vicino, di spari e di carneficine sui campi di battaglia...

E cosa si offre fuori dalla scuola e fuori dal lavoro alla generazione che ha visto sgonfiarsi il mito di diventare il soggetto ricco-bello-interessante di Beautiful? Nel degrado delle periferie urbane si ingoia l'amarezza di ritrovarsi soli e impotenti davanti ad un mondo "cattivo" e "incomprensivo". Il bum bum delle discoteche, i brividi dei giochi spericolati, la vita randagia dei fine settimana diventano le "tane" in cui ripararsi da un disagio sempre più profondo e nello stesso tempo i muri che lo riflettono amplificato e disperato... E' sorprendente che la droga e l'alcool si diffondano come una nuova peste con micidiali effetti distruttivi sul corpo dei giovani, sul loro spirito e sulla loro stessa capacità di lottare contro i mali che li tormentano? Ce la dobbiamo prendere con le canzoni di Masini, se a partire dal 1987 è in costante aumento il numero dei suicidi e dei tentati suicidi nella fascia di età fino a 24 anni?

A fronte di un 16% di giovani che condivide le "magnifiche e progressive sorti" dell'Italia dei lussi, c'è una massa di ragazzi e ragazze ben diversa dai teen-agers soddisfatti, sorridenti e levigati che si vedono nelle pubblicità, c'è una massa di ragazzi e ragazze animati non dall'entusiasmo, dalla fede nel futuro e in se stessi che dovrebbero essere connaturati alla loro età, ma (miracolo del capitalismo!) dalla paura di vivere...

La scommessa della borghesia

La classe capitalistica si è resa conto da tempo che questo malessere è, in potenza, una bomba ad orologeria per il suo ordine sociale. Le rivolte inglesi degli anni ottanta, l'esplosione sociale che ha acceso nel 1992 la città statunitense di Los Angeles, la mobilitazione delle masse giovanili francesi (bianche e colorate) dello scorso inverno: queste esperienze "straniere" hanno insegnato alla razza padrona italiana che è meglio correre ai ripari per tempo, prima che sia troppo tardi.

Da un lato essa ha cominciato ad usare il bastone non appena i giovani hanno tentato di affrontare collettivamente i loro problemi, come è successo il 12 settembre a Milano nella manifestazione in difesa del Leoncavallo. Dall'altro lato ha cercato di deviare la rabbia giovanile su falsi bersagli e di trasformarla così da potenziale minaccia per il proprio ordine sociale in corazza per la conservazione di esso. Dallo scorso anno il governo e le forze di destra stanno ripetendo ai giovani questo ragionamento: "se non trovate lavoro e se non avrete una pensione, la colpa è degli operai e dei loro sindacati, perchè essi si oppongono alla deregolamentazione che il governo vorrebbe introdurre nel mercato del lavoro e nella previdenza; se volete un futuro, non avete che una possibilità: dovete trasformarvi in teste d'uovo contro le ultime eredità del "socialismo reale"...".

I militanti proletari più coscienti sanno bene che si tratta della vecchia tattica di usare l'esercito industriale di riserva come arma di ricatto per smembrare il movimento operaio organizzato e sottoporre tutti gli oppressi a nuove catene e nuovi bavagli; sanno bene che, dietro l'angolo della deregolamentazione selvaggia, i giovani proletari troveranno (quando andrà bene) lavoro precario (in sostituzione di quello stabile!) e un'esistenza "senza orizzonti"; sanno bene, insomma, che i "rilanci" del governo nascondono un colossale bluff. Ma se nella società non c'è un punto di riferimento di classe che le raccolga, la disillusione e la rabbia dei giovani avranno difficoltà a trasformarsi in protesta attiva contro i reali affossatori del loro futuro. Di più: può esserci il rischio che l'"energia vitale" che caratterizza la loro età possa essere messa a frutto da costoro per i loro fini reazionari. Non sarebbe la prima volta nella storia che accade una cosa del genere. Nei mesi scorsi, del resto, questa vera e propria maledizione non si era cominciata a realizzare? Il "polo delle libertà" non aveva mietuto un mare di consensi tra i giovani lavoratori, i giovani disoccupati e gli studenti? E ciò non era forse accaduto perchè il movimento operaio, a furia di subordinare i suoi interessi a quelli dell'economia nazionale e di rincorrere il "centro", si era indebolito a tal punto da lasciare che i giovani venissero ammaliati dalle sirene di Bossi, Fini e Berlusconi?

Appena è partita la lotta operaia, invece, questi stessi giovani si sono ritrovati in piazza a fianco dei lavoratori, a lottare, insieme con essi, contro la finanziaria. Da quando è partita la lotta operaia, questi stessi giovani stanno cercando di cambiare la propria condizione attraverso l'arma della mobilitazione e non attraverso l'invocazione di un qualche miracolo da parte del Dio Mercato. Anche questa volta, come sempre accade nella storia, lo sviluppo del movimento di lotta è innanzitutto servito per trasformare i suoi stessi protagonisti.

Il vero "miracolo"

In primo luogo una generazione è ritornata sulla scena politica, smentendo i luoghi comuni (spesso interessati) che la volevano eternamente dedita al divertimento, all'ecstasy e alla cura di sé. Non che fossero mancati i segnali di un lento risveglio. Perfino il Terzo rapporto Iard sulla condizione giovanile in Italia rileva che nei primi anni novanta una quota crescente (seppur ancora nettamente minoritaria) di giovani ha cominciato a scuotersi dall'apatia politica che sembrava paralizzare i rispettivi coetanei. Solo ai ciechi, infine, poteva "sfuggire" l'ultimo brontolio di un vulcano tutt'altro che spento: la partecipazione di oltre diecimila giovani e giovanissimi, per lo più estranei alle posizioni politiche del Leoncavallo, alla manifestazione del 12 settembre in difesa del centro sociale milanese; "è diventato un simbolo per tutti noi" ci ha detto un quindicenne autodefinitosi veltroniano... E' un caso che il governo abbia fatto di tutto per caricare la piazza?

I "giovani anni 90" non sono però solo tornati sulla scena politica: lo hanno fatto con una novità rispetto agli estemporanei stormir di fronde degli anni ottanta. Si sono ritrovati nelle piazze a fianco dei lavoratori e dei pensionati: hanno manifestato in mezzo a loro e contro il governo. Questo schieramento fisico delle forze in campo è stato una spinta formidabile per iniziare a riconoscersi non più in quanto giovani o studenti ma in quanto parte di un esercito, di una classe. E' indicativa al proposito la spaccatura che si è verificata in seno agli studenti: i cortei delle scorse settimane non hanno visto la partecipazione degli istituti in quanto istituti, ma quella di gruppi e collettivi di studenti o semplicemente di singoli; sono scesi in piazza quanti, pur se sotterraneamente, hanno sentito di condividere il destino di quella parte della società che si stava riversando nelle strade; i figli degli imprenditori e delle classi sfruttatrici hanno a ragione disertato i cortei, hanno vomitato odio contro lo sciopero e invocato la rapida attuazione della riforma in senso ancor più classista della scuola annunciata da D'Onofrio.

Questa novità ne ha portata con sè un'altra: i giovani si sono lasciati alle spalle quell'ostilità verso la politica che avevano nutrito negli anni scorsi. Scontratisi con gli effetti di una certa politica, essi hanno accettato di occuparsi di politica: su questa strada hanno individuato nella finanziaria il loro bersaglio e, come hanno fatto nella manifestazione di Napoli del 22 ottobre, sono giunti a rivolgere un appello ai lavoratori per un nuovo patto generazionale. Quest'appello esprime la percezione, certo primitiva e financo reversibile, che come giovani proletari e "senza riserva" si può avere una prospettiva solo se ci si lega alla classe operaia, cioè a chi regge le sorti di questa società e ne produce tutta la ricchezza.

La classe operaia deve raccogliere quest'appello e farsi carico fino in fondo della questione giovanile. L'esperienza degli ultimi anni e delle settimane scorse ci dà preziose indicazioni su come ciò possa essere fatto.

Quale "patto generazionale"

Essa ci insegna innanzitutto che vana è la speranza di poter offrire ai giovani più possibilità di lavoro attraverso una scuola più funzionante e più qualificata. Come è già accaduto negli anni scorsi, un altro passo sulla via della razionalizzazione della scuola su basi efficientiste e meritocratiche potrebbe al più tornare a vantaggio di un pugno di fortunati ammessi a salire su un gradino più alto della gerarchia sociale, ma solo al prezzo di aver contribuito a scaraventare ancora più in basso la massa dei loro coetanei.

Altrettanto vana è la speranza di poter offrire ai giovani qualche chance in più con altre riduzioni (sotto qualunque forma) dei loro diritti salariali e normativi: anziché togliere i ragazzi dalle tentazioni della strada, come sperano molti genitori proletari, queste "eccezioni" avrebbero l'unico effetto di consegnare la nuova generazione nelle fauci dei lupi che la vogliono sbranare: dopo 15 anni di thatcherismo e di deregolamentazione selvaggia, in Gran Bretagna un bambino su tre è povero e ben due milioni di fanciulle inglesi sono costrette a battere il marciapiede...

La massa dei giovani può cominciare a conquistare il diritto al futuro solo se verrà inquadrata in uno schieramento di classe che le permetta di battere il vero soggetto che oggi ne attacca e ne degrada la condizione (nella scuola, nei quartieri, nelle caserme, nei posti di lavoro). Questo soggetto è il governo Berlusconi e le forze del capitale che sono dietro di esso. Questo soggetto e il suo progetto possono essere battuti solo se tutti gli sfruttati fanno confluire la propria forza in un'unico fronte di classe. La gioventù proletaria (e non solo) ha in sé una potenza formidabile da mettere a disposizione della battaglia contro la borghesia: ma questa potenza diventa operante solo se i giovani sono raccolti e centralizzati in organismi specifici che li inquadrino e li schierino al fianco e alla testa della restante parte dell'esercito proletario.

Dalla lotta all'organizzazione

Proprio per questo la classe operaia deve usare la sua organizzazione per aiutare la massa dei giovani ad organizzarsi, nei quartieri, nei posti di lavoro, nelle scuole, nelle caserme. Molti operai hanno incoraggiato i propri figli a partecipare alle manifestazioni contro la finanziaria. Lo stesso ha fatto la CGIL con apposite assemblee a Milano e in altre città. Ma non ci si può fermare qui. Si deve passare ad un'azione sistematica di organizzazione dello scontento e dei bisogni di lotta dei giovani.

Finora quest'esigenza è stata rappresentata dai centri sociali, i quali, però, l'hanno incanalata verso una prospettiva impotente: invece di raccordare la questione giovanile alla questione di classe generale di cui è parte e da cui dipende, i centri sociali (più o meno radicali) l'hanno tenuta separata da essa, come se la soluzione del problema fosse quella di costruire "isole felici" in cui consolarsi dell'inferno che i giovani subiscono fuori di esse, nella società. No, i giovani "senza riserva" non hanno bisogno di erigere nuovi muri, ma di unirsi per abbattere quelli che li separano dal resto della loro classe; hanno bisogno di rompere le gabbie (ma per davvero!) che li circondano per confluire nelle lotte dell'esercito cui appartengono e a cui possono dare, soli, quell'energia e quell'audacia senza le quali il proletariato non può portare avanti in modo conseguente la sua battaglia contro il governo, i padroni e il capitalismo.

Ci rendiamo perfettamente conto che il risveglio della gioventù proletaria è solo all'inizio e che essa continua a nutrire molte illusioni sulla possibilità di dare una svolta alla propria vita senza condurre una lotta irriducibile contro l'attuale sistema sociale. I primi passi però sono stati fatti. Uno prima di tutto: la partecipazione con la propria lotta alla lotta dell'intero proletariato contro la finanziaria. Questa partecipazione è la migliore scuola per l'ulteriore maturazione politica della gioventù, a condizione naturalmente che l'avanguardia del proletariato, la classe operaia, sappia esercitare fino in fondo la sua funzione di guida della lotta degli sfruttati. Ed essa può svolgere realmente questo compito solo se, sull'onda della magnifica protesta di questi mesi, saprà svincolarsi da quella politica delle compatibilità che finora ne ha castrato la forza e la capacità di battersi per i suoi interessi di classe: la difesa intransigente delle proprie condizioni di vita e di lavoro, delle rigidità conquistate sulle pensioni e sul mercato del lavoro, della propria capacità di resistenza organizzata è dunque una condizione essenziale affinché la classe operaia sia in grado di cementare intorno a sé un forte schieramento sociale che includa anche le masse giovanili.

Una delle poste in gioco della partita che s'è aperta tra la borghesia e la classe operaia è chi conquisterà il controllo della gioventù. Una sfida di vitale importanza perchè: "chi ha la gioventù, ha il futuro". Alla classe operaia fare di tutto per non mancare la presa.


La selezione di classe

"Il progetto degli anni Ottanta di una razionalizzazione interna alla scuola, capace di elevare la qualità dell'istruzione e di trasformare l'azione didattica in variabile indipendente dal processo di apprendimento, risulta così essersi rivelato impotente rispetto al determinismo educativo esterno connesso all'influenza culturale della famiglia. Tale progetto, sposandosi in realtà a forme consuete di tradizionalismo didattico, ha ottenuto, se mai, l'effetto di rendere la scuola ancora più arbitrariamente selettiva" (pp.18-19)

"Le cifre parlano davvero da sole a questo proposito, e indicano con chiarezza non l'attenuazione ma il rafforzamento delle determinazioni socio-economiche e socio-culturali proprio a livello di scuola secondaria superiore" (p.25)

Vediamo le cifre che parlano da sole:

"Si passa dal 24.7% di ragazzi di ceto operaio che hanno concluso le superiori, e dal 32.5% di quello costituito da piccoli lavoratori autonomi, al 47.2% del ceto impiegatizio e al 51.2% di quello superiore. Parimenti marcate le differenze relative al titolo universitario (dall'1.3% e dall'1.4% al 5.1% e al 7.5%" (p.18)

Da Giovani anni 90. Terzo rapporto Iard sulla condizione giovanile in Italia, Il Mulino, 1993.

"In relazione alla modifica di tasse e contributi per l'anno accademico in corso, l'Università di Venezia ha chiesto agli studenti di presentare un'autocertificazione dei redditi e del patrimonio immobiliare. (..). Il reddito (imponibile IRPEF) medio delle famiglie degli studenti di Ca' Foscari è risultato pari a 60.300.000 lire. Questo dato va confrontato con il valore medio a livello italiano, pari a 30 milioni circa, e veneto, pari a 36 milioni. Il patrimonio è risultato pari a 1.3 abitazioni in media per famiglia, pari a 155 mq in media. (...) Nel valutare i risultati riportati bisogna tener presente che le famiglie con figli all'università non sono famiglie medie. I valori medi regionali e nazionali comprendono, ad esempio, nuclei familiari con uno o due componenti anziani e pensionati che non sono ovviamente rappresentati nel campione degli studenti. Questi dati confermano, comunque, la convinzione che gli studenti universitari appartengano a famiglie mediamente più ricche del resto della popolazione"

Dal bollettino d'informazione dell'Università di Venezia Cafoscarinotizie, n.17, settembre 1994, p.3.