DA BERLUSCONI A DINI: LA POLITICA D'ATTACCO DELLA BORGHESIA NON MUTA.
E' IL PROLETARIATO CHE DEVE MUTARE
LA PROPRIA POLITICA DI DIFESA!

Indice


Nella lotta contro i tagli alle pensioni la classe operaia ha dimostrato una grande capacità di mobilitazione. Ma, fino alla metà di novembre Berlusconi era rimasto fermo nei suoi propositi: tosatura delle pensioni e rifiuto di dialogo coi sindacati. Poi, all’improvviso, il crollo, l’accordo del 1 dicembre, lo "stralcio". Perchè?

Dalla sua il governo aveva uno schieramento di forze sociali e politiche cui difettava la necessaria coesione e determinazione. Intendiamoci, borghesia e mezze-classi sono completamente convinte di dover imporre pesanti arretramenti al proletariato, ma sono, tuttora, riluttanti a ricorrere ai mezzi decisivi per affrontarne le lotte (impiego della forza organizzata dello Stato e sostegno di piazza a essa). Berlusconi poteva, però, beneficiare della debolezza politica dell’avversario, auto-limitatosi alla lotta per bloccare i tagli, senza mettere in questione il governo. E, ancor più, della debolezza politica della "sinistra", impegnata a evitare le dimissioni di Berlusconi sull’onda delle lotte, per non essere costretta a un governo "troppo" condizionato dall’iniziativa proletaria.

La prima fiducia sulla finanziaria alla Camera fu vista, però, dall’avanguardia della classe operaia come una vera sfida. I giorni seguenti le piazze si sono riempite di nuovo. Meno piazze di prima, meno partecipanti e solo operai. Ma, questa volta, decisi: dimissioni del governo! Era il prodromo di una radicalizzazione dello scontro. La promessa di nuovi scioperi, dell’estensione del blocco degli straordinari, e, soprattutto, di non decampare più dal cuore del problema: non lotta contro qualche singola misura, ma contro il governo.

Una nuova estensione del fronte di lotta agli altri lavoratori era ancora possibile. Ma anche se lo scontro fosse stato continuato dalla sola classe operaia, i termini della questione non sarebbero mutati: come governare avendo di contro la lotta aperta dell’unica classe produttrice di profitto? O la si disciplina con la forza, o, in mancanza di questa, si riprende il gioco del "compromesso" puntando a un suo logoramento politico e organizzativo prima di tornare all’assalto.

Nel momento in cui la borghesia avrebbe avuto bisogno di tutta la sua unità, questa le è venuta a mancare persino sul piano parlamentare, con la defezione della Lega. Per Berlusconi, che pure stava iniziando a sollecitare i suoi a mostrarsi in piazza (l’esperienza d’autunno ha insegnato a lui più che alla "sinistra" quanto poco decisive siano per prevalere nello scontro di classe le maggioranze elettorali e i tele-consensi...) la via era obbligata: concedere un temporaneo compromesso per salvare il governo e riprendere a tessere la trama del consolidamento dello schieramento borghese.

Alla fine ha dovuto, per il "tradimento" di Bossi e le iniziative dei giudici, rinunciare anche a quello.

La caduta di Berlusconi vuol, forse, significare la sconfitta del processo di centralizzazione borghese e della aggressione borghese al proletariato?

La sinistra va a destra

I progressisti pensano che la "batosta" al Cavaliere e il "governo di tregua" possano riportare la lotta politica a condizioni "di normalità", espellendo dalla scena l’"aggressività" introdotta dalla nuova destra. La "normalità" invocata include che si miri a una politica di risanamento economico col contributo di "tutti", che, dal lato dei lavoratori, vuol dire: riforma delle pensioni, tasse e imposte per la "manovrina" del '95 e per la finanziaria del '96, maggiore flessibilità nel mercato del lavoro e nell’organizzazione del lavoro. La quantità del contributo dei lavoratori al risanamento sarà pure inferiore ai propositi destrorsi, ma quanto a qualità la distanza non è molta...

A buon titolo Berlusconi poteva dire nell’autunno, e ripetere oggi, di non vedere a "sinistra" un programma veramente alternativo al suo. E ciò costituisce un suo indubbio successo politico, al di là della (momentanea, giudici permettendo) caduta.

Sia chiaro, non siamo alla identificazione della "sinistra" con la "politica borghese" in generale, che, peraltro, come dato univoco neppure esiste. Tra le due permane, e permarrà, la diversità del rapporto col proletariato, dovendo la prima cercare, in qualche modo, di assumerne le difese dagli attacchi della seconda. Il fatto è che la "linea di difesa" viene collocata sempre più in basso. Così, per esempio, alle lotte d’autunno non consegue, a "sinistra", un "irrigidimento" a difesa, almeno, delle attuali pensioni, ma proposte di riforma peggiorative (meno di quelle governative? Sia concesso...Per quel che vale!).

Non è stato Berlusconi a costringere la "sinistra" a iniziare a genuflettersi alle esigenze del capitale nazionale -ci mancherebbe!-, ma il contributo a una ulteriore inclinazione l’ha sicuramente dato.

E’, insomma, "caduto", ma la politica di cui è stato ed è alfiere non è affatto sconfitta. Anzi, egli incassa il successo di aver indotto la "sinistra" a introiettare ancora di più il "dovere sociale" della destra: la subordinazione dell'intera società al bene supremo del capitale nazionale.

Dalla genuflessione non è certo esente Rifondazione, da sempre preoccupata delle "sorti del paese". Ma esente non è neanche da questa ulteriore inclinazione. Altrimenti perchè Garavini e altri sarebbero stati disposti a votare la fiducia a Dini in versione "blocco democratico contro la destra"? Ma, anche, perchè Bertinotti si dichiara disponibile al blocco elettorale coi popolari, e si impegna tanto a sfumare il suo no al candidato premier Prodi?

Dini: fiducia da sinistra a un programma di destra

Questo successo berlusconiano nei confronti della "sinistra" ha i suoi riscontri pratici immediati. Il governo Dini nasce, infatti, coi voti delle opposizioni, ma col programma della vecchia maggioranza. Mutano (momentaneamente) il linguaggio, reso meno aggressivo, e la forma dei rapporti con i sindacati, non mutano i contenuti. E’ probabile che Dini non possa sferrare contro la classe operaia un attacco dell’intensità di quello berlusconiano. Il recente movimento di lotta ha, comunque, un suo peso nel consigliare la tattica all’avversario. Ma il suo governo non costituisce alcun cambio di registro quanto a obiettivi e programma: si riparte dai sacrifici dei lavoratori per il "risanamento" del bilancio statale. A loro non si promette alcuna "restituzione", ma neanche di lasciarli "in pace" dedicandosi a colpire altri strati sociali. E’ la cruda realtà di un bilancio di due mesi di lotta lasciati alla gestione di questa "sinistra", sempre più prona agli interessi del capitale.

Se anche Dini trovasse il coraggio di tentare affondi più intensi contro il proletariato (e le necessità capitalistiche, interne e internazionali, potrebbero spingerlo a tanto) è ben certo che la "sinistra" si opporrà a essi, ma discendendo ulteriormente la china, senza alcuna parvenza di ritorno all’indietro, al recupero di presunte "radici di classe".

Numeri elettorali e organizzazione delle forze

Le dimissioni di Berlusconi non possono, quindi, considerarsi una definitiva sconfitta del personaggio, né, tanto meno, della tendenza che la sua "scesa in campo" ha raccolto, quella alla centralizzazione e al disciplinamento di tutta la società alle necessità del capitale.

Confermano, tuttavia, che nel campo borghese permangono pesanti elementi di incertezza e contraddizione (ciò sarebbe un’ottima cosa se il movimento operaio fosse in grado di profittarne con una forza autonoma e antagonista. Ma questo non è.)

Il polo berlusconiano era già nato fragile nell’assemblare pezzi diversi e divergenti (all’interno di una "comune" natura borghese ferocemente antiproletaria).

Nessuno dei tre partners ha dimostrato di saper tenere -nei momenti di difficoltà- dritta la barra verso l’avvenire. Si è distinta sola la testardaggine di Berlusconi, sicuramente in crescita come leader potenziale, ma ancora troppo incline a una riedizione del vecchio "centro". Per quanto "riveduto e corretto" quel "centro" sarebbe inservibile alla nuova bisogna di attacco al proletariato e di disciplinamento sociale. Berlusconi è sospinto a riesumarlo per l’assenza di un suo vero partito politico in grado di pesare nella società e sulle piazze oltre che nelle urne. Indubbiamente al fantasma di Forza Italia di passi avanti gliene ha fatti fare molti. Ma ancor più numerosi e difficili sono quelli da farsi per un reale intruppamento di forze sociali e politiche, militanti e coese, al servizio del capitale nazionale.

Chi dovrebbe, dato il lascito testamentario del fascismo, essere, in teoria, in grado di risolverli quei problemi, si è, al contrario, rivelato finora meno coerente e incisivo del Cavaliere. I crescenti successi elettorali e di "opinione" di Fini e di AN fanno, infatti, al momento, più da freno che da molla verso una piena assunzione dei compiti di leadership borghese all’altezza dei tempi (cfr. articolo sul congresso di AN).

La Lega...si slega

Caso a parte la Lega. Il suo disegno ultraliberista nell’ambito di una riforma federalista (tendenzialmente secessionista) dello Stato aveva alcuni punti di forza: capacità di mobilitazione di massa di precisi strati sociali borghesi e di coinvolgimento di fette consistenti di proletariato su base micro-socialsciovinista. A ciò si era unita una strategia capace di mandare avanti il polo e di catturare, contemporaneamente, consensi a sinistra, marcando le proprie diversità dai presupposti politici ed economico-sociali del berlusconismo. Diversità reali in quanto rappresentano il bisogno del piccolo capitalista di difendersi dal grande capitale (anti-trust) e dalla sua tendenza alla centralizzazione ("antifascismo" e federalismo) e in quanto interpretano la riluttanza di settori borghesi e piccolo-borghesi a disciplinarsi (con le relative proprie rinunce) per rilanciare tutto intero il capitale nazionale italiano.

Bossi avrebbe potuto condizionare con un gioco accorto polo e opposizioni, cuocendo a fuoco lento alleati e avversari, costringendo gli uni e gli altri a contendersi la Lega con offerte crescenti di federalismo, e nel corso delle lotte d’autunno ha svolto bene fino in fondo questo ruolo. Alla fine si è gettato, invece, in una vera e propria avventura. Il governo Dini non darà soddisfazione ad alcuna delle fondamentali opzioni bossiane e le forze leghiste tendono a scomporsi oggi in direzione di altri centri di gravità in una situazione di delusione, smarrimento, attesa.

Un tanto di federalismo col governo Dini è, intanto, passato, ma non è la Lega a capitalizzarlo. Di sicuro l’indebolimento della Lega fa perdere peso, nel breve periodo, ai disegni più estremi di federalismo spinto sino alla secessione. Tutto sta a vedere se la borghesia riuscirà a frenare le tendenze spontanee già operanti in questa direzione, assecondate dalle prime misure di federalismo fiscale o si adatterà "naturalmente" a esse. Anche la Jugoslavia varò nel 74 "innocue" misure di federalismo fiscale...

In ogni caso al rinculo della Lega non corrisponde affatto il rinculo del leghismo profondo che, se pure, al momento, orfano di una forte direzione, permane e avanza.

Appetiti particolari

All'iniziativa di Berlusconi manca tutt’oggi il pieno appoggio dei maggiori "circoli" economici e finanziari nazionali, del grande capitale. Le ragioni vanno ricercate, in certa misura, nell’illusione di quest’ultimo di poter ancora combinare politiche "nuove" -di attacco aperto al proletariato- e vecchio "consociativismo". In altra misura nella diffidenza verso le capacità del "Polo".

Ma il peso maggiore nel mancato sostegno a Berlusconi da parte del grande capitale risiede nella divaricazione o competizione di interessi tra i vari settori della borghesia nostrana. Questi variano sia nella loro struttura che nella loro realizzabilità a seconda dei diversi rapporti che i grandi gruppi monopolistici intrattengono con lo Stato e con la controparte sociale.

De Benedetti è un tipico esempio di imprenditore ingranditosi grazie alle garanzie fornite dalla manovra dello Stato, dalla drogatura economica operata coi bilanci pubblici e dall’accordo col sindacato. Non è il solo, né questo avviene solo in Italia, ma dappertutto. In Italia, però, date le condizioni di partenze già deboli del capitale -in rapporto ai concorrenti-, questo sistema si è affermato in modo particolare e produce difficoltà supplettive per il disciplinamento delle varie forze borghesi in un fascio unico capace di proteggere l’interesse generale, ma anche -qui il problema- di tenere a freno gli appetiti particolari.

Lo "zampino" estero

Un altro punto essenziale per comprendere le difficoltà della borghesia italiana va individuato nell'intervento delle grandi potenze nelle cose italiane per indebolire uno dei concorrenti nella competizione imperialista.

Questo gioco "esterno", naturalmente, non può "spiegare" tutto, nel senso che non agisce su un terreno che altrimenti sarebbe vergine e tranquillo. La stessa distinzione tra "esterno" e "interno" va fatta tenendo conto del complesso unitario dei rapporti capitalistici mondiali, per definizione senza frontiere. E’ all’interno di quell’ambito unitario che si sviluppa una concorrenza vieppiù profonda tra singoli capitali e tra Stati. Il paese capitalista Italia non è isolato, né isolabile, dall’insieme dei rapporti capitalistici mondiali. E, all’interno di quei rapporti, subisce l’iniziativa di entità organizzate "esterne", o, a sua volta, ne esercita.

Ora, lo "zampino" esterno potrebbe esserci stato fin dall’inizio della "delegittimazione" del vecchio sistema politico. Certo è che verso l’Italia non sono mancate le "particolari" attenzioni né di USA-Israele per una certa qual dose di autonomizzazione della politica estera italiana (da Sigonella al Medio oriente) con Craxi e Andreotti artefici, né della Germania per i tentativi di gioco "autonomo" italiano agli inizi della crisi jugoslava.

Interessi diversi e giochi diversi, ma entrambi diretti a indebolire un partner-concorrente che è, allo stato delle cose, effettivamente indebolito al punto che non presenta, nella crisi attuale, alcuna velleità autonoma, anzi si divide di più all’interno della borghesia tra partito americano e partito tedesco e altre frattaglie (tipo partito "europeista" ma non pro-germanico).

Il nodo di riconquistare una propria presenza autonoma nella politica internazionale e di far muro alle ingerenze altrui non era sciolto da Berlusconi, tantomeno è sciolto oggi; il campo di battaglia resta aperto agli "altri", anche se nulla esclude in assoluto un ritorno di fiamma italiano, qualora la borghesia riuscisse a ricostruire la sua unità, condurre in porto il disciplinamento sociale ai suoi fini, e -condizione fondamentale per l’una e l’altra- assoggettare completamente il proletariato, estirpandone ogni parvenza di organizzazione "autonoma" (o suscettibile di diventarlo) e incrementandone oltre misura lo sfruttamento.

Difficoltà e oggettività

Il percorso della borghesia nostrana per realizzare il suo rilancio all’"interno" e all’"esterno" è ancora insufficiente e denso di contraddizioni. Limiti del personale politico fin qui reclutato, incoerenza delle forze politiche messe in campo, illusioni del grande capitale, "zampini esteri", rischio di tenuta persino degli assetti nazionali unitari. Ma esso è reso obbligatorio e pre-disegnato dalla tendenza oggettiva dettata dalla crisi generale del capitalismo. E, intanto, la borghesia qualche passo innanzi ha cominciato a farlo.

Anche l’antesignano storico, il fascismo, stentò ad affermarsi e a definirsi, e subì innumeri trasformazioni -dal suo sorgere (1915) al suo completo affermarsi (1924)- prima di essere riconosciuto dalla borghesia (la forza sociale al cui servizio si poneva) come proprio indiscutibile rappresentante.

Questo non vuol dire che la borghesia risolverà "di sicuro" i suoi problemi, ma, semplicemente, che anche le più grandi avversità possono essere superate quando l’oggettività delle dinamiche storiche pone all’ordine del giorno problemi determinati e correlate soluzioni.

Proletariato e "sinistra"

Se nel campo borghese le difficoltà non mancano, anzi, in certa misura, crescono, la situazione è ancora più preoccupante per il campo nostro, il proletariato.

Col movimento di lotta d’autunno la classe operaia ha mostrato di avere ancora la capacità -dinanzi ad attacchi di una certa portata- di dispiegare il suo potenziale di lotta e di raccogliere attorno a sé la mobilitazione di altri strati sociali colpiti dall’aggressività capitalista. La forza del proletariato, grazie anche alle contraddizioni nel fronte avverso, è stata in grado di bloccare l’offensiva in atto. Ma, raggiunto lo scopo e provocata la crisi di governo, si è fatta da parte, consentendo a Buttiglione e Bossi di gestire i risultati delle sue lotte e imbastire un governo "di tregua" diretto da quel Dini, alto funzionario del capitale finanziario, che è stato uno dei maggiori dirigenti dell’offensiva borghese precedente.

Il contributo determinante a questa soluzione è stato dato dai progressisti e dal Pds, ma anche Rifondazione vi ha avuto la sua parte. Nessuna forza di "sinistra" si è battuta su un programma di classe che raccogliesse la spinta delle lotte. Non stiamo parlando del programma della rivoluzione, ben inteso, ma un semplice programma di coerente difesa degli interessi del proletariato, basato su alcuni punti fermi, quali, per esempio: nessuna altra rinuncia dei lavoratori, nessun altro loro contributo al risanamento di un debito non creato da loro e di cui loro non beneficiano affatto, nessuna altra modifica peggiorativa di mercato e organizzazione del lavoro.

Per un tale programma minimo s’erano viste esistere forze più che sufficienti. Il rifiuto di assumerlo non è, dunque, dovuto alla mancanza di adeguati rapporti di forza, ma unicamente all’inclinazione della "sinistra" politica e sindacale ad assumere in modo sempre più profondo le necessità capitalistiche. In questa perversa logica, le rivendicazioni operaie devono subordinarsi a quelle e devono limitarsi a contrattare la quantità e qualità di arretramenti e cedimenti, senza mai rifiutarli del tutto. La riforma delle pensioni che si va cucinando in casa sindacale, progressista e rifondazionista è un esempio di come quella logica si concreti.

E’ anche la dimostrazione, però, che pure la più grande determinazione delle masse non può costringere le forze di matrice e origine operaia incamminatesi verso l’accettazione e la difesa del capitalismo a recedere dai loro passi.

Un tale "ritorno" si potrebbe dare, in modo del tutto fittizio, solo in situazioni di più acuto marasma politico e sociale, ma sarebbe solo nel senso di un radicalismo social-sciovinista, di un tendere, cioè, a sostituire le forze borghesi alla testa del potere politico con forze di matrice operaia per la causa suprema del capitale, di cui i lavoratori dovrebbero farsi carico e beneficiari, ma senza contrapporgli il proprio autonomo programma di classe. La causa per cui i "sinistri" Noske e Scheidemann non esitarono a passare per le armi i comunisti tedeschi negli anni '20.

Il riscatto del proletariato dall'attuale stato di nullità politica passerà necessariamente non per la impossibile rigenerazione classista del riformismo, ma per la espulsione dal corpo della classe della ideologia, della politica e degli apparati riformisti, di una classe finalmente ritornata ad avere fiducia in se stessa e nel proprio programma e compito storico anticapitalista.

Il protagonismo delle masse non ha, dunque, prodotto alcuna ri-dislocazione "più a sinistra" del "riformismo", ma questo ha, anzi, accelerato la sua trasformazione in senso "liberal-democratico". Il Pds dibatte sempre più di auto-scioglimento in un "partito democratico", persegue un dialogo col "centro" che porta un D’Alema a dialettizzarsi finanche con figuri del calibro degli anti-abortisti cattolici, accoglie la candidatura Prodi come la soluzione per una stabile alleanza tra centro e sinistra. Rifondazione, da parte sua, cerca di distinguersi dalla deriva pidiessina, riproponendo ai "progressisti" un’unità d’azione per il "cambiamento", ammettendo, a sua volta, l’utilità della ricorsa del "centro", ma sottoponendola a "verifica" su fantomatiche "cose concrete" (come se D’Alema mancasse di "concretismo"!).

L’inseguimento del "centro" presuppone, naturalmente, un’ulteriore moderazione delle rivendicazioni -già ultra-moderate- della "sinistra" a favore dei lavoratori. Prodi l’ha immediatamente precisato chiedendo al Pds di rinunciare in anticipo a ricercare l’egemonia nello schieramento che aspira a costruire. Su quali temi questa egemonia possa esercitarsi non v’è dubbio alcuno, provenendo la richiesta da un rappresentate di imprenditoria e ceti medi, che si definisce senza esitazione "un borghese".

Questo processo continuo e inarrestabile di trasformazione del "riformismo" ha una pesante ricaduta sul proletariato, perchè finisce con l’intaccarne la fiducia nelle proprie forze, le potenzialità di tenuta organizzata, nonché, di conseguenza, quelle di attrarre a sé altre forze sociali.

Con queste condizioni rischia di divenire difficile nel futuro anche immediato riproporre movimenti di difesa dell'ampiezza e determinazione di quello degli ultimi mesi.