PENSIONI: UNA RIFORMA DA RESPINGERE IN BLOCCO

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Dopo mesi di trattativa, CGIL-CISL-UIL hanno sottoscritto col governo Dini un’intesa per la riforma delle pensioni. Per i sindacati l’intesa rappresenta la realizzazione degli obiettivi delle lotte d’autunno. Non si può negare che, per quanto li riguarda, avevano espresso fin dall’inizio dello scontro che miravano a respingere le misure del governo non per difendere il sistema pensionistico vigente, bensì per poter contrattare una "vera" riforma della previdenza. Da parte sua Dini ha manifestato soddisfazione per il risultato raggiunto, riconoscendo che è al di sotto delle speranze coltivate da Ministro del Tesoro del governo Berlusconi, ma avvertendo che è meglio una riforma che garantisce risparmi più ridotti ma certi, rispetto a un’altra che promette risparmi maggiori ma è irrealizzabile per l’opposizione dei sindacati.

L’intesa dovrà ora essere sottoposta alla approvazione del Parlamento, su cui sperano di riuscire a esercitare pressioni tanto la Confindustria, per aumentare i tagli a spese dei lavoratori, quanto alcuni settori sindacali per ottenere modifiche migliorative per i lavoratori.

La riforma comporta delle sostanziali modifiche al regime pensionistico precedente. Produrrà un elevamento dell’età pensionabile e una diminuzione dei rendimenti per i lavoratori assunti dal 96 e per quelli che hanno, al gennaio 96, meno di 18 anni di contributi. Produrrà "solo" un elevamento dell’età pensionabile (da 1 a 5 anni) per quelli con 18 anni di contributi. Realizza definitivamente la separazione tra assistenza e previdenza, per i sindacati questione solo di trasparenza, ma che si rivelerà un grimaldello per ridurre le spese per assistenza, comprese quelle per cassa integrazione.

Il Cavaliere sorride

Paragonare con metodo ragionieristico questa riforma a quella tentata da Berlusconi non ha, ovviamente, senso; i tagli, all’immediato e in prospettiva, programmati da questa sono di gran lunga inferiori a quelli berlusconiani. Ciò non toglie, però, che essa rappresenti una vittoria per il Cavaliere, per il semplice fatto che, al di là della contabilità, molti dei suoi principi sono stati assimilati dai sindacati. Vediamoli brevemente:

1.per risanare i bilanci dell’INPS bisogna ridurre le pensioni. I sindacati l’hanno accettato invece di porre i problemi della produttività del lavoro e del mercato del lavoro (più si "liberalizza", più diminuisce la massa dei contributi) e sfumando persino quello del recupero dell’evasione contributiva;

2.non basta risanare l’INPS, ma i risparmi sulle pensioni debbono essere finalizzati anche a risanare il debito pubblico. L’intesa prevede risparmi che vanno bel al di là del deficit INPS;

3.trasformazione del sistema "a ripartizione" in uno a "capitalizzazione", in cui ogni lavoratore si preoccupa solo dei suoi contributi. L’introduzione del sistema di calcolo contributivo fa un significativo passo in questa direzione;

4.uso di parte del salario per creare fondi di investimento finanziario utili a realizzare le privatizzazioni, a ricapitalizzare le aziende, a fornire risorse alla speculazione finanziaria. Questo concetto è recepito del tutto nell’impostazione sindacale sotto la improbabile e illusoria versione di una "democratizzazione" del capitalismo delle grandi famiglie.

Pur se il risultato contabile è inferiore agli obiettivi originari, Berlusconi, Dini, e tutta la borghesia, sanno di aver ottenuto, comunque, un successo politico che si rivelerà quanto mai utile per ottenere risultati, contabili e politici, maggiori alla prossima tornata.

Deficit dell’INPS o problema di classe

I sindacati sostengono che la riforma peggiorativa è necessaria per contrastare lo squilibrio dei conti dell’INPS, causato dal decrescere del rapporto tra occupati e pensionati, negli anni 60 pari a 2,5 lavoratori per pensionato, oggi di 1,2. Per continuare a erogare le pensioni col regime attuale si rischierebbe, secondo loro, di gravare sul bilancio dello Stato, a sua volta in deficit pauroso. I lavoratori dovrebbero, dunque, farsi carico della riduzione del debito pubblico, sia accettando a ogni finanziaria nuove tasse e imposte, che rinunciando ad attingervi per le proprie pensioni.

E’ questo il vero problema?

Innanzitutto nel rapporto tra occupati e pensionati non si tiene conto dell’enorme aumento della produttività del lavoro in tutti questi anni. Per fare un esempio un operaio Fiat produceva negli anni 60 in media 8,2 auto all’anno. Oggi ne produce 44 a Mirafiori, e a Melfi, a pieno regime, ne produrrà 76. Grazie anche alla politica rinunciataria dei sindacati l’incremento di produttività è finito tutto nelle tasche di padroni, aziende, banche, speculatori finanziari, ceti accumulativi del terziario più o meno avanzato.

In second’ordine, a fronte del "deficit" dell’INPS continua a esistere una cospicua evasione contributiva, che se risanata porterebbe i bilanci dell’ente previdenziale in attivo.

Il problema non è, dunque, il deficit dell’INPS, ma evidentemente un altro. Il fatto che in tutti i paesi europei, anche in quelli che non hanno deficit "all’italiana", sono in atto politiche tese a "contro-riformare" i regimi pensionistici conferma che lo scopo di tutta la campagna contro le pensioni è che padroni, aziende, ceti accumulativi, tutta la classe dei possessori di capitale, nella speranza di liberarsi di una crisi senza fine, ingaggia contro la classe operaia una dura battaglia per indurla a lasciarsi sfruttare di più in nome del "bene comune" del rilancio dell’economia nazionale e aziendale.

A queste pretese i vertici sindacali non reagiscono rinviandole al mittente, ma ne assumono buona parte delle motivazioni, cercano di mediarle con gli interessi operai, e invitano questi ad accettare degli arretramenti per preservare le "comuni" sorti nazionali.

Vita breve

CGIL-CISL-UIL sostengono che, seppure c’è un peggioramento del regime pensionistico, è garantito, però, un quadro di certezza per un lungo tempo evitando le modifiche annue del governo di turno. Le reazioni provenienti da destra e Confindustria fanno presagire tutt’altro panorama. La borghesia non è affatto soddisfatta da questa riforma, perchè:

1. non garantisce i risparmi grandi e immediati sulla "spesa pubblica" che essa desidera per "liberare" risorse dalle "spese sociali" e destinarle al rilancio dei profitti;

2. non costringe sufficientemente ad aderire ai "fondi pensioni", e impone a questi troppi "vincoli". Non realizza, insomma, appieno la trasformazione di quote di salario in "capitale di rischio", mentre essa abbisogna di capitali da bruciare per rilanciare alcune imprese o settori, lasciando fallire qualche fondo e lasciando all’asciutto i suoi sottoscrittori;

3. il mantenimento di un sistema pensionistico pubblico, seppure ridimensionato, e la persistenza di criteri comuni, seppure diversificati rispetto a prima, lascia in piedi un vincolo unitario tra tutti i lavoratori, sospingendoli a conservare anche una loro organizzazione di lotta, che essa punta invece a demolire per andare oltre nello sfruttamento operaio.

Tutto ciò spingerà la borghesia a tornare alla carica anche contro il sistema pensionistico prodotto dall’attuale riforma. Per smantellare la scala mobile la borghesia ha impiegato 8 anni. Per smantellare le pensioni conta di impiegarci un tempo molto inferiore.

Ci sarà la forza per fermare la nuova carica?

Per farlo ci sarà bisogno di un movimento analogo, anzi più forte e determinato di quello d’autunno. Questa riforma non ci aiuterà certo a rimetterlo in piedi. Innanzitutto essa consolida le differenze tra lavoratori giovani e anziani. A un prossimo attacco contro le residue possibilità di pensioni di anzianità, ben difficilmente i lavoratori giovani risponderanno con la lotta. Il diritto non gli appartiene più e lo stesso sindacato ha concordato di escluderlo per loro. Ma, soprattutto, rischia di introdurre molti elementi di sfiducia nell’utilità della lotta stessa, nonchè dell’organizzazione generale per sostenerla. Se le lotte d’autunno hanno dato come risultato questa riforma, chi garantirà che una lotta a sua difesa contro nuovi attacchi non si concluda con ulteriori peggioramenti?

Questa riforma non sarà, dunque, accettata dall’avversario se non per il breve tempo necessario a organizzare meglio le sue forze. Esso non è, in ogni caso, disposto a conservarla a lungo. Non produrrà alcuna attenuazione delle pretese del padronato e delle destre, anzi le rilancia, perchè la logica di ogni scontro sociale risiede nei rapporti di forza, e la disponibilità ai cedimenti indebolisce il nostro fronte di lotta, non quello avverso che, di converso, nonostante le attuali difficoltà, si rafforza.

Riforma in cambio di governo

Per far accettare agli operai la riforma, i sindacati battono sugli argomenti suddetti: le rinunce sono inevitabili per risanare i conti dell’INPS e per non aggravare la situazione dei conti statali. Lasciano sullo sfondo, un altro argomento che, invece, il Pds esplicita con maggiore chiarezza: quello del "quadro politico" e del governo.

D’Alema (l’Unità del 12.5) è andato a illustrare le ragioni della riforma agli operai del Petrolchimico di Marghera sostenendo che se pure vi sono "aspetti sgradevoli" bisogna valutare il "significato che assume nella sfida politica aperta dalla sinistra". La battaglia contro Berlusconi ha cambiato, secondo lui, il panorama politico e aperto una "grande occasione" per la sinistra di andare al governo entro pochi mesi a condizione che non si arresti il processo di alleanza con il centro. Domanda: se gli operai dovessero respingere la riforma e radicalizzarsi su una difesa pura e semplice del loro attuale regime pensionistico, cosa accadrebbe? La parola a D’Alema: "se cade questa riforma è probabile che si vada ancora più dietro e, soprattutto, che si perda la "grande occasione".

Perchè? Perchè salterebbe ogni possibilità di alleanza con il centro. Perchè un Prodi, critico del Berlusconi soccombente in dicembre alla richiesta sindacale di stralcio, e sostenitore, trattativa in corso, della "quota 90" (35 anni di contributi e 55 di età) subito, non potrebbe che opporsi decisamente, perdendo molte possibilità di raccogliere i voti operai e, quindi, di mantenere in vita la sua coalizione di centro-sinistra.

Ma anche perchè quei ceti medi non ancora transitati su posizioni apertamente aggressive nei confronti del proletariato, avvertono, per istinto di classe, la necessità di salvare l’economia nazionale (o regionale...), ma non vogliono, per lo stesso istinto, rimetterci alcunché di proprio e sono, per questo, sempre più decisi ad aumentare la pressione contro i salariati, le loro resistenze "corporative", i loro "privilegi", le loro organizzazioni. Ne hanno dato prova anche di recente con la difesa delle "proprie" pensioni fatta da professionisti e giornalisti, quegli stessi che, magari, criticano il berlusconismo e la destra e che ammanniscono agli operai lezioni sulla necessità dei sacrifici per ripianare il debito pubblico e rilanciare l’economia nazionale.

Il ragionamento di D’Alema agli operai è, dunque, il seguente: se volete davvero mettere mano alle grandi questioni, come fisco, salari, costo del lavoro, occupazione non potete fare altro che puntare al governo. Al governo, però, possiamo andarci solo con una coalizione con il "centro", con i ceti "moderati". Per costruirla e conservarla non dovete fare nulla che possa urtare la loro suscettibilità, anche se questo vuol dire rinunciare a qualche vostro diritto o rivendicazione, come, appunto, sulla riforma delle pensioni.

Prc tra incudine e martello

Il segretario del Pds non esita a chiedere con chiarezza agli operai delle rinunce come unico modo per andare al governo, e trova una disponibilità operaia a concordare con lui sulla necessità di puntare al governo. Un po’ meno sulla quantità di rinunce, considerato, per di più, quelle già fatte. Il Pds tenterà di superare queste riluttanze con una battaglia parlamentare per introdurre qualche miglioramento parziale della riforma, senza, tuttavia, stravolgerla.

Più difficile è la posizione in cui si trova Rifondazione comunista. Questo partito dichiara la sua completa opposizione alla riforma, annuncia un duro ostruzionismo parlamentare, invoca un movimento di lotta contro di essa. Ma anche la prospettiva politica di Bertinotti è quella di un accordo con il "centro". Il suo desiderio è di un accordo solo "politico-elettorale" in cui il centro-sinistra fa il programma di governo e il Prc mantiene il suo proprio programma, unificando voti e candidati.

Un accordo di quel tipo presuppone, però, un certo livello di mediazione, e gli obiettivi su cui si chiederebbe a Rifondazione di moderarsi sarebbero quelli "eccessivamente" operai. Inoltre, Prodi, "centro" e Pds hanno già esplicitato al Prc quanto siano determinati a non subire alcun condizionamento da parte sua. Insomma o il Prc rinuncia a ogni "irrigidimento" che puzzi anche da lontano di "classismo", oppure può rimanersene nel suo isolamento, mettendo nel conto anche un sicuro insuccesso elettorale. Tra " voto utile" a un governo di centro-sinistra, senza del quale governerebbe la destra, e voto, più "colorato", ma destinato a non pesare per una prospettiva di governo, -o, addirittura, pesare in negativo, lasciando la maggioranza alla destra- sicuramente la maggioranza degli elettori potenziali del Prc opterebbe per il "voto utile".

Insomma per il Prc sarà difficile portare fino in fondo la sua opposizione alla riforma. Se lo facesse le ipotesi di associarsi al centro-sinistra, pur in versione di "fratello minore", sparirebbero del tutto. Di conseguenza non potrà che puntare, a sua volta, a qualche miglioramento in sede parlamentare, invocando, tuttalpiù, un sostegno della piazza.

Questa via per il Prc è obbligata non solo per motivi tattici contingenti, ma perchè tutta la sua strategia politica è fondata su presupposti in tutto analoghi a quelli del Pds. Non a caso anche per il Prc l’unico modo per combattere l’aggressività delle destre è quello di far emergere un quadro politico di maggiore "moderazione" nei confronti del proletariato, prospettando, per battere la destra, un accordo col "centro". Posta la premessa, quel che consegue -al di là di inevitabili contorcimenti- è d’obbligo: moderazione anche da parte della classe.

Il mito della moderazione strangola il proletariato

Quella linea era presente fin dall’inizio nella gestione delle lotte d’autunno dei vertici sindacali e politici.

Il movimento non doveva, per loro, puntare a licenziare Berlusconi sotto la spinta della piazza, tantomeno impostare su autonome basi una difesa di classe dall’attacco capitalistico in corso e a venire, ma serviva a favorire un cambio di governo fondato sull’intesa parlamentare con Buttiglione e Bossi, con cui rilanciare anche la rincorsa elettorale al centro.

Su quel terreno il proletariato avrebbe potuto, secondo loro, difendere le sue postazioni e riequilibrare i rapporti di forza sbilanciati da anni a favore del padronato. Per indurre il padronato a una minore aggressività verso i lavoratori invitano questi a essere moderati e ad andare incontro alle esigenze di padroni e ceti medi.

Un primo risultato di questa politica si è già visto: nonostante la sconfitta sul campo, la destra ha riacquistato fiato, riproponendo un suo esponente alla guida del governo, pigiando sempre più l’acceleratore sulle richieste del padronato con la manovra finanziaria e le misure sul mercato del lavoro, fino a questa riforma delle pensioni, che non la soddisfa appieno, ma che, intanto, fa un significativo passo verso le sue posizioni.

La questione del governo

Tra gli operai è diffusa la convinzione che non sia possibile risolvere davvero alcuno dei problemi che hanno innanzi come classe se non si riesce a conquistare il governo. Giustamente, aggiungiamo noi. Questa percezione dimostra che siamo in un epoca in cui ogni singola questione che riguarda i rapporti di classe rimanda inevitabilmente alla questione di chi detiene il governo e, quindi, il potere. Il problema è come arrivarci.

La prospettiva di Pds e Prc si fonda sulla ricerca di alleanze con altre classi o ceti sociali costruita sulla base della rinuncia del proletariato a qualunque sua autonomia di classe. Il Pds la sostiene apertamente e, in un certo senso, coerentemente; Rifondazione ci si trova impantanata dentro in modo contraddittorio. Essa subisce una spinta ad attestarsi più saldamente su una difesa della condizione della classe operaia, ma la completa (e, ormai, assolutamente irreversibile) assenza di un programma politico minimamente alternativo al sistema capitalistico, non le consente di inserire quella difesa in un quadro politico coerente, e, così, finisce, sul piano politico, con l’accettare la politica del "meno peggio" (Prodi rispetto a Berlusconi) e, su quello sindacale, roboanti dichiarazioni di "lotta dura" che puntualmente si risolvono in nulla di fatto o in misere battaglie correttive, come, per esempio, è accaduto sulla "manovra Dini", e come, molto probabilmente, accadrà con la riforma delle pensioni.

In un altro articolo di questo numero spieghiamo quanto sia improbabile che la prospettiva di alleanza col centro porti al governo le "sinistre" e come, se anche ciò accadesse, la classe operaia si troverebbe difronte un governo non suo, ma che, pure, le chiederebbe in virtù del pericolo della destra, sostegno attivo e correlate ulteriori rinunce. Il risultato di quella politica, tanto nel caso di successo quanto di insuccesso elettorale, è di rinvenire sempre nuovi motivi per "consigliare" una moderazione delle rivendicazioni di classe e un appannamento dell’organizzazione operaia (meno questa è visible, più i "ceti moderati" sono disposti a colloquiare con la "sinistra"). Conduce, insomma, a una pericolosa situazione di auto-castrazione, sul piano politico e organizzativo, della forza proletaria.

Ma, ci si potrebbe dire: anche voi riconoscete che quella del governo è un esigenza irrinviabile, l’unico modo per sperare di accedervi è quello di allearsi con il "centro", dunque, prendere o lasciare. L’errore consiste, rispondiamo noi, nel ritenere che l’unica strada sia quella di allearsi col centro e, su questa base, tendere a espungere sempre più qualunque autonoma rivendicazione di classe. Al contrario il proletariato per dare realizzazione ai suoi interessi, anche quelli immediati di difesa delle sue condizioni di vita e di lavoro, deve puntare a un governo tutto suo e, aggiungiamo, può realizzarlo a misura che non rinuncia, ma anzi rafforza, l’autonomia di classe del suo programma.

L’esperienza del movimento di autunno conferma, nel suo piccolo, come questa prospettiva non sia affatto impossibile, ma del tutto realizzabile. Allora il proletariato ha affrontato la lotta sostenendo senza mediazioni le sue posizioni e contrapponendole decisamente a quelle del governo, che pure era un governo sostenuto da una larga maggioranza elettorale e parlamentare. Su quelle posizioni si è via via aggregato un vasto movimento, estesosi a tutto il lavoro dipendente, ai settori più precari del lavoro autonomo, ai disoccupati, a buona parte degli studenti. La forza dimostrata -diretta conseguenza della fermezza con cui la lotta era sostenuta- è riuscita, inoltre, anche a neutralizzare i ceti sociali più ostili e, in una certa misura, a isolare il padronato e la destra.

E’ stata una singola battaglia, su un singolo punto, ma è stata vinta perchè la classe operaia l’ha affrontata battendosi per autonome rivendicazioni di classe e dispiegando tutta la sua capacità di organizzazione e centralizzazione. Sono stati questi due elementi ad attrarre in un unico fronte lo schieramento suddetto. Di converso, non appena la classe operaia ha iniziato -sotto la spinta delle sue direzioni sindacali e politiche- a moderare le sue rivendicazioni, andando incontro a quelle dell’avversario, a rimettere nel congelatore la sua forza e organizzazione, quel fronte ha ricominciato a sfaldarsi, si sono rilanciate le possibilità per destra e padronato di riprendere fiato, riorganizzarsi a loro volta, puntare a carpire consenso politico ed elettorale fin dentro quei ceti che, pure, in autunno si erano schierati dal lato proletario. E, quel che è ancora più grave, questa politica di "moderazione" non solo riallontana i settori sociali prima attirati, ma produce, inevitabilmente, un logoramento delle stesse forze operaie, diffondendo in buona parte di esse una sensazione di sfiducia e di impotenza, che renderà problematica, alla lunga, la stessa tenuta intorno all’organizzazione sindacale e politica esistente.

Programma di classe, condizione, non ostacolo, per il governo della classe operaia

Un programma autonomo di classe (ben altra cosa dalla semplice rivendicazione di autonomi obiettivi di classe sul terreno immediato, ma che si pone in linea diretta di sviluppo dell’esperienza di lotta che il proletariato fa su di essi) non solo, quindi, non sarebbe di impedimento alla conquista del governo, ma è, esso sì, l’unico modo per consentire che la classe operaia ponga con fondamento e possibilità di successo la sua candidatura al governo, cui, è ovvio, la borghesia non consentirà mai di accedere pacificamente, tanto meno elettoralmente.

La situazione attuale della classe è, al momento, molto distante dal far apparire un programma autonomo di classe. Ne siamo consapevoli, e proprio per questo ci battiamo contro chi lavora a negarne l’utilità. D’altra parte anche quei pochi e sparsi elementi che emergono, qui e là, e che potrebbero servire, se non a costituire un programma di classe, almeno un percorso di autonomia di classe, vengono da quelli stessi che li propongono svuotati di ogni significato.

E’ il caso, per esempio, di quelle misure (imposta patrimoniale, tasse sulle rendite finanziarie, prelievo sul valore aggiunto, riduzione dell’orario di lavoro) proposte da -non tutto- il Prc. In teoria esse potrebbero aiutare il movimento di lotta a sviluppare la sua autonomia di classe rifiutando ulteriori sacrifici e per scaricare il risanamento del debito sulle spalle delle classi ricche (che si arricchiscano, diciamo noi, appropriandosi della ricchezza sociale prodotta dal lavoro salariato).

Per l’affermazione di tali soluzioni si prefigura, però, un itinerario di democratico confronto parlamentare e televisivo al fine di raggiungere accordi di governo o politico-elettorali con le forze di "centro".

L’illusione di fondo è quella di poter trovare delle soluzioni che abbiano il pregio di essere buone per "tutta" la società e di potere, conseguentemente, farle accettare all’avversario, in un civile confronto. E questo mentre l’avversario dimostra di aver imboccato la via, al di là dei momentanei intoppi elettorali, di infrangere ogni regola di "civile confronto" e di "convivenza sociale" pur di affermare i suoi propri interessi di classe di aumento dello sfruttamento operaio e dei profitti.

In tal modo quelle soluzioni sono assolutamente irraggiungibili, essendo inevitabile una mediazione con forze politiche che rappresentano ceti sociali cui misure di quel tipo potranno essere imposte solo con la forza.

E la forza della classe operaia è enorme solo se viene esercitata con le armi della lotta e dell’organizzazione e della centralizzazione.

La prospettiva del governo della classe operaia non è, quindi, affatto a portata di mano. Quel che appare (...soltanto) come realizzabile è un governo di coalizione che chiederà al proletariato nuovi arretramenti. Anche se la classe operaia dovesse dare credibilità a questa prospettiva, è indispensabile che rimanga all’erta, non rinunci a difendere le sue condizioni di vita e di lavoro, miri a conservare e rinforzare la sua organizzazione politica e di lotta. Il rafforzamento della sua organizzazione passa, però, attraverso una battaglia aperta contro chi punta a sottomettere sempre più le esigenze della classe operaia a quelle delle altre classi. Una battaglia, quindi, per l’autonomia si classe, che è condizione e non negazione, della prospettiva di governo della classe operaia.

Respingerla in blocco

La riforma delle pensioni è un momento di questa battaglia. Essa peggiora la condizione operaia da pensionandi, intacca la condizione salariale attuale e, soprattutto, procede lungo una linea continua di cedimenti, in cui ogni singolo cedimento prepara il terreno a quello successivo.

E’ quanto mai necessario respingerla. Non è un obiettivo illusorio. Il movimento d’autunno ha dimostrato che la classe operaia ha forze sufficienti a sostenere una tale reale difesa delle pensioni.

La vera illusione è quella di sinistra e sindacati che per difendere le condizioni di vita e di lavoro gli operai debbano, prima di tutto, difendere la competitività delle aziende e dell’economia nazionale. Da venti anni il proletariato persegue una tale politica. I suoi bilanci sono tutti negativi: scomparsa della scala mobile, riduzione dello stato sociale, aumento inarrestabile di tasse e imposte, peggioramento delle condizioni in fabbrica, demolizione progressiva delle regole del mercato del lavoro. Ognuna di queste rinunce è stata fatta dagli operai nella convinzione che fosse l’ultima e servisse a favorire una nuova epoca di sviluppo e di redistribuzione del benessere. Secondo tempo mai arrivato...e sempre più distante. Né, d’altra parte, quelle rinunce sono servite a placare l’appetito del padronato e dell’intera borghesia. Al contrario, li hanno resi sempre più famelici.

Questa riforma va respinta in blocco. Le iniziative di lotte su questo o quel punto, da parte dei lavoratori più immediatamente interessati creerebbe divisioni tra i lavoratori spianando la strada all’offensiva borghese.

E’ tutta l’impostazione della riforma che deve essere respinta, ristabilendo per tutti, anziani e giovani, in attività o non ancora in attività, il diritto alla pensione dopo 35 anni di lavoro con rendimenti pari al 2% del salario. Solo in questo modo si potrà fondare su basi concrete, e non su petizioni di principio, l’unità di tutti i lavoratori, un’unità indispensabile per difendere davvero le pensioni e per attrezzarsi a difendersi dagli attacchi che continueranno ad arrivare su tutti i piani.

Per respingere la riforma non sarà sufficiente il no nell’urna o nelle assemblee. Una maggioranza di no sarebbe indubbiamente un segnale forte a sindacati e governo, ma non darebbe alcuna certezza di bloccare la riforma. L’unico modo per farlo è di mettere in atto contro di essa una iniziativa di scioperi, di lotte, di manifestazioni che riproduca l’ampiezza e la forza del movimento d’autunno. Se una parte significativa di classe operaia riuscirà a rendere evidente in questo modo il suo dissenso potrà attirare dietro di sé anche quei settori di lavoratori che non vedendo un’alternativa credibile in campo si orienterebbero ad approvarla, sia pure "turandosi il naso".

Bisogno di partito

Contro la riforma il "movimento delle RSU" ha indetto la manifestazione del 13 maggio a Milano. Al corteo hanno partecipato in 40-50.000. La stragrande maggioranza di questi era presente con gli striscioni e le bandiere di Rifondazione. Ciò da un lato dimostra l’evanescenza del "movimento delle RSU" (al cui confronto erano più numerosi, persino, i sindacatini "alternativi"), ma dall’altro conferma un dato per noi oggettivamente positivo, ossia che gli stessi singoli lavoratori per manifestare la loro protesta preferiscono farlo sotto le bandiere di partito, a testimonianza di quanto il bisogno di partito (inteso sia come programma generale per la soluzione dei singoli problemi, che come organizzazione decisamente e saldamente di "parte") promani dal sottosuolo operaio, al di là e contro le tendenze propugnate, dalle direzioni del Pds e anche del Prc, a sfumare sempre più i propri caratteri "di classe" e a negare lo stesso bisogno in generale di un’organizzazione politica distinta della classe operaia.

Non è un caso che il bisogno di partito emerga in modo più visibile oggi. Questa maggiore "visibilità" è il frutto diretto dello scontro d’autunno. E’ in quello scontro che una parte di operai ha fatto un passo avanti verso la consapevolezza che non è sufficiente esprimere dei no, ma che bisogna inserirli in una visione, in una prospettiva, in un programma generale, che solo un partito può approntare, e verso la consapevolezza che l’organizzazione-partito è quanto mai necessaria se si vuole vincere anche in un scontro limitato.

Né è un caso che queste consapevolezze siano apparse tra gli operai di Rifondazione, che in piazza attorno al partito ci sono scesi, e non tra quel milieu intellettualoide che ha gonfiato altre manifestazioni del Prc, ma che ha disertato questa del 13 maggio. Si trattava, allora, di manifestare su generici programmi di opposizione a la Legambiente, ben distanti, e ben distinti, da qualsiasi questione operaia.

Sono queste altrettante conferme di come sia solo lo scontro tra le classi a poter fare emergere da parte proletaria la necessità di schierarsi in un senso apertamente di classe, di organizzarsi e centralizzarsi. Queste sedimentazioni lasciate dallo scontro d’autunno potranno, all’immediato, anche essere disperse dal Prc -per la contraddizione di fondo di cui si è detto-, ma non mancheranno di riemergere nelle future -e altrettanto certe- riacutizzazioni della lotta, rendendo possibile, infine, l’affermazione di un partito coerentemente di classe e, perciò, programmaticamente rivoluzionario.

Contro la riforma: ripresa della lotta e della battaglia per l'autonomia di classe.

La manifestazione di Milano ha reso evidente, al di là -si potrebbe dire- delle intenzioni democratoidi degli stessi organizzatori, preoccupati a rivendicare "regole certe" per il referendum consultivo, che esiste una parte dell’avanguardia della classe operaia disposta a tramutare il suo malcontento verso la riforma in iniziative di lotta per respingerla in blocco. Le condizioni in cui questo settore di classe si trova ad agire non sono le più agevoli. Da un lato, infatti, ci sono altri settori che, pur essendo insoddisfatti, perseguono un’iniziativa limitata a ottenere qualche miglioramento parziale, sono disposti a sostenerla anche con lo sciopero, ma non sono disposti a un movimento generale contro tutta la riforma. Il Pds e il sindacato cercano di canalizzare e soddisfare questo malcontento.

Dall’altro lato questa istanza a respingere in blocco la riforma rischia fortemente di essere vanificata a causa delle contraddizioni del Prc, e risolversi, a sua volta e suo malgrado, in una mera pressione per miglioramenti parziali. Ciò è reso probabile anche dalla fragilità dell’impianto politico di cui quella stessa avanguardia è dotata.

Difficoltà e rischi non possono, però, comportare, in alcun modo, una rinuncia a battersi contro la riforma, per dare continuità a questa prima risposta, per tendere a unificare lo scontento emerso in altri vasti settori operai, per cercare di recuperare a una dimensione di lotta e di organizzazione quegli operai che, grazie anche ai risultati deludenti della riforma, potrebbero cadere nella passività e nella sfiducia. Solo tramite questa iniziativa si può dare impulso a una critica di massa non a questo o quel vertice traditore, ma ai presupposti politici di sottomissione al capitalismo che sono contenuti nella politica sindacale (e anche di tanti che inveiscono contro i "traditori"). Solo tramite essa si può tendere a conservare un grado di tenuta organizzativa indispensabile ad affrontare i prossimi attacchi della borghesia.

E’ parimenti indispensabile che la classe operaia non smetta di esercitare la sua forza organizzata, anche tenendola pronta a rintuzzare i probabili affondi che la Confindutria e la destra tenteranno già all’immediato per peggiorare la riforma. Una risposta di lotta di massa sarebbe l’unica a poter fermare quegli attacchi, ma anche a poter rilanciare una battaglia più generale contro l’impostazione della riforma e contro chi propone come inevitabile la sottomissione al capitalismo e la rinuncia a ogni autonomia di classe.