DALLA PARTE DELLA DONNA

Pubblichiamo, con piccoli tagli dovuti a motivi di spazio, il testo del volantino distribuito dalla nostra Organizzazione alla manifestazione di Roma del 3 giugno indetta da alcuni collettivi di donne contro i progetti di revisione della legge 194 e per respingere l’attacco al diritto all’aborto ed alla quale hanno aderito un vasto arco di forze politiche e sindacali.

Il marxismo rivoluzionario denuncia da sempre l’oppressione della donna ed il suo ruolo sociale dimezzato e subordinato come un’aberrante conseguenza dispensata e ribattuta con forza dalle leggi capitalistiche del mercato. Oggi, la crisi in cui si dibatte il capitale va riacutizzando (e sempre più riacutizzerà) il centrale conflitto tra capitale e lavoro e, con esso, tutte le contraddizioni irrisolte del capitalismo, riproponendo in primo piano la questione dell’oppressione della donna e -in primo luogo- della doppia oppressione della donna proletaria e lavoratrice. In questo quadro si inscrivono gli attacchi contro le donne che negli ultimi anni si sono andati intensificando e che hanno costituito la spinta materiale all’organizzazione della manifestazione nazionale. Al tempo stesso, considerato il deprimente quadro politico generale (con il riformismo impegnato -in vario modo- a cercar convergenze con la destra su famiglia, aborto e violenza sessuale e, viceversa, a negare in premessa ogni sia pur ipotetico apparentamento tra oppressione della donna e oppressione di classe), siamo intervenuti alla manifestazione senza farci illusioni sulla possibilità di un'immediato ricezione in essa della nostra critica anti-borghese, per chiamare comunque i nostri interlocutori e interlocutrici a ragionare nei necessari termini di classe.

La scarsa presenza di piazza ha confermato le nostre valutazioni. Da un lato la crescente rilevanza delle implicazioni e dei contenuti di classe, di cui si va caricando oggettivamente la questione femminile nell’ambito della complessiva polarizzazione degli interessi sociali indotta dalla crisi, non consente (alla faccia dell’unanimismo apolitico ricercato dalla "sinistra") la riedizione dei movimenti femministi degli anni ‘ 70, che dell’interclassismo, apertamente rivendicato in nome della specificità femminile e della "diversità di genere", avevano fatto la propria bandiera. (Quale parvenza di sintonia può oggi darsi, ad esempio, tra i sentimenti delle lavoratrici in assemblea alla Camera del lavoro di Milano e la parlamentare di Forza Italia Tina Lagostena Bassi, le cui battaglie legali contro le violenze sessuali assursero allora a punto di riferimento e simbolo per quei movimenti?). Dall’altro lato le difficoltà ed i ritardi soggettivi della ripresa della lotta operaia contro il complessivo attacco del capitale impediscono tuttora al proletariato di mobilitare le proprie forze al di là della difesa (con continui arretramenti) dei propri interessi immediati e di schierare sul campo la propria forza su tutti i terreni dello scontro politico, tra i quali -assolutamente non secondario- quello della denuncia e della lotta contro l’oppressione della donna. (Si pensi, peraltro, alla rilevanza decisiva per le sorti dello scontro della determinante mobilitazione dei reparti femminili dell’esercito di classe).

Le istituzioni del capitale non hanno avuto grandi difficoltà a "rispondere" alle deboli e incoerenti petizioni agitate in piazza il 3 giugno, magari prendendone lo spunto per ipocriti imbellettamenti di facciata, in vista della passerella internazionale della IV Conferenza dell’Onu sulla donna a Pechino. E così nel mese di agosto -a conferma dell’effettivo ultimo livello di interesse- è andata in scena sui media della borghesia la buffonata, sapientemente condita, del revival delle violenze contro le donne. In tal modo i massimi reali violentatori, ovvero i rappresentanti della società del capitale che -nel suo insieme- origina e alimenta ogni genere di violenza sulle donne, sono assurti, nell’intermezzo estivo, a professori sull’argomento e hanno cercato di arrogarsi il titolo di difensori delle donne.

Un serio (necessario) bilancio sulla manifestazione del 3 giugno (anche alla luce delle reazioni che essa ha potuto suscitare) può esser fatto solo a partire dalla effettiva presa in carico dell’insieme delle questioni. L’unica reale lotta per la difesa della donna è quella che punta ad attaccare e distruggere le complessive condizioni che nella società del capitale generano oppressione e violenza contro di essa, il che significa il capitalismo stesso. Questo abbiamo inteso dire (e continueremo a dire) a chi, per esempio, volesse illudersi di poter risolvere il problema con l’inasprimento delle pene irrogate dai tribunali della borghesia e del capitale. (Forse che i governi occidentali non stanno effettivamente inasprendo le pene e anche ottenendo alcuni tangibili risultati contro la mafia, mentre, nondimeno, il fenomeno mafioso si riproduce inevitabilmente sul terreno della trama del mercato e del sistema del capitale?).

Dunque, la lotta contro l’oppressione della donna è necessariamente lotta politica contro la complessiva oppressione del capitale. Quale insana furbizia (e reale decampare dai compiti della lotta) ha fatto sì che i partiti di "sinistra" concordassero di non portare in piazza il 3 giugno le proprie bandiere, per non disturbare improbabili fronti interclassisti, riproposti a tempi storici ormai (finalmente!) scaduti? Per quanto tempo ancora le spinte (tuttora deboli) di ribellione contro le schifezze generate dal capitalismo potranno essere disorientate e disperse in vicoli ciechi, prima che la possente ripresa della lotta operaia riesca finalmente, travolgendo anche l’ostacolo di direzioni sotto-riformiste, ad afferrare per le corna il toro dello scontro politico imposto dalla borghesia? Su questo terreno, quello della riconquista integrale degli strumenti della propria indipendenza politica e di lotta contro il capitalismo come sistema sociale (e dunque in tutti i suoi aspetti), il proletariato saprà attrarre al proprio schieramento ed inquadrare nell’esercito di classe ampi settori di lavoratori, di giovani, di donne provenienti anche da altre classi sociali, nondimeno sfruttati dal capitale e disposti a battersi contro di esso.


Sfruttate e sfruttati, uniti nella lotta
contro la destra, la borghesia, il capitalismo

Da alcuni anni le donne, le donne proletarie anzitutto, si trovano sotto un fuoco concentrico. A sparare ad alzo zero contro le limitate "conquiste" strappate da esse (e dal movimento operaio) nel corso di decenni di lotte, sono le diverse istituzioni della società capitalistica.

In primo luogo, ovviamente, le leggi capitalistiche del mercato. Da sempre, per i capitalisti, le braccia delle donne (sebbene non solo quelle) debbono essere a basso costo, in modo da garantire più ampi margini di profitto. La crisi ha acuito questo bisogno. Piegare la schiena alle proletarie, farne delle forzate del lavoro precario, nero, iper-flessibile (turni di notte inclusi), è oggi uno tra gli obiettivi non secondari della razza padrona. Che essa persegue con ogni sorta di intimidazione anti-sindacale e di brutalità, fino a forme di vero e proprio schiavismo. Nereto e Francavilla Fontana: questi due nomi di sinistra fama non sono eccezioni alla regola, ma evocano il grandissimo numero di fabbrichette, botteghe e uffici, in cui le donne lavoratrici sono oggetto, e sempre più lo saranno, d’un trattamento davvero "particolare".

Ma non sono da meno del mercato i vari governi rappresentanti degli interressi di classe della borghesia. La Thatcher e Reagan (una donna ed un uomo -non c’è ... differenza- egualmente devoti al capitale) hanno fatto scuola in materia di tagli allo "stato sociale". Universalmente. Anche a sinistra. Sicché governi di diversa ispirazione stanno concordemente smantellando, da anni, quel tanto di servizi sociali sostitutivi del lavoro domestico che si erano strappati ierlaltro. La cura dei bambini, dei malati, degli anziani, delle persone con problemi psichici, ricade sempre più sulle "famiglie". Se vi s’aggiungono gli effetti dell’inflazione e della riduzione del potere d’acquisto dei salari, si ha un’idea del pesante aggravio di sacrifici e di fatica che le politiche "neoliberiste" impongono alle casalinghe e alle lavoratrici.

Mancava la ciliegina sulla torta? Complici le direzioni di CGIL-CISL-UIL, ce l’ha messa, con la controriforma delle pensioni, il governo Dini. Applicando il principio della parità a scapito delle donne lavoratrici, senza tenere in conto né la maggiore irregolarità del lavoro femminile, né l’usura provocata dal lavoro domestico -emblema della "doppia schiavitù" femminile, vera catena di piombo contro l’emancipazione della donna-. Salvo accordare alle "casalinghe"... benestanti la possibilità di dotarsi di una pensione "volontaria": dopo il danno, la beffa.

E poi, naturalmente, quando c’è da rafforzare le catene della schiavitù domestica delle donne, chi è in grado di battere la Chiesa cattolica? Ecco dunque Wojtyla e soci scendere in campo "a difesa della famiglia", del ruolo "prioritario" di moglie e madre della donna, che è per costoro un essere sociale dimezzato e subordinato per "natura". Eccoli di nuovo pronti a una nuova crociata contro il diritto all’aborto e al divorzio. Il loro "sogno" è che le donne tornino al focolare, alle mammane, ai tormenti di matrimoni non più desiderati, e infine agli oppiacei della religione!

Né si può dimenticare, anche se molto spesso accade (che si tratti forse di donne di serie B?), quale amara sorte il mercato internazionale riserva, col concorso di governi, chiese e mafie varie, a un crescente numero di donne di colore. Che, afferrate dalla "mano invisibile" della povertà generata nel Terzo Mondo dalla rapina dell’Occidente imperialista, vengono sbattute qui da noi nelle dimore dei bravi e delle brave borghesi a subirvi ogni genere di umiliazioni, o sui marciapiedi a prostituirsi e a incotrarvi non di rado (come le donne nigeriane a Torino) la morte.

Questo attacco concentrico alle donne, e -lo ripetiamo- alle donne lavoratrici in primo luogo, è parte del più generale attacco che la classe dei capitalisti ha sferrato -da vent’anni- alla classe operaia. Non vederlo è segno di pericolosa miopia.

All’origine di tutto c’è la fine dello sviluppo economico post-bellico. (...). Da qui l’offensiva [borghese] in atto, destinata a durare a lungo e ad inasprirsi fino a livelli oggi "inimmaginabili". (...). L’arretrare un pò alla volta, cercando di "salvare il salvabile", contentandosi del "meno peggio" e facendosi carico delle "necessità nazionali", -che è la politica dei partiti della sinistra e dei vertici sindacali- non placa la sete di profitti e di oppressione del capitale. Al contrario, la alimenta in una spirale regressiva che ci sta facendo ritornare a condizioni di vita e di lavoro, a un clima politico-ideologico, da "anni cinquanta".

(...). [All'offensiva del capitale] potrà sbarrare il passo solo la più forte e larga mobilitazione unitaria degli sfruttati, senza insensate divisioni tra sfruttati e oppressi di sesso maschile e sfruttate ed oppresse di sesso femminile.

La mobilitazione di oggi può e deve essere un passo in questa direzione. Per rilanciare e rafforzare intorno alla classe operaia quell’unità di lotta del fronte proletario realizzata questo autunno nel movimento di massa contro il governo Berlusconi.

Perchè questo avvenga, è indispensabile uscire dalle cortine fumogene di un femminismo borghese che, mentre predica la "diversità di genere" per dividere le donne proletarie dai loro compagni di classe, si dimostra, nel suo presunto a-classismo, sempre più prono alla "governabilità" del sistema, ed è nei fatti incapace d’un solo tangibile gesto di lotta anti-capitalistico. La vera "differenza di genere" è tra sfruttati/e e sfruttatori, e la "particolare" doppia schiavitù "di genere" cui è sottoposta la donna proletaria ha le sue radici in questo unitario sfruttamento capitalistico (da cui è ben preservato il "genere femminile" borghese).

Dobbiamo contrapporre al programma di attacco delle destre, del governo Dini e della Chiesa un programma di classe, che esprima coerentemente (...) i bisogni e gli interessi delle donne lavoratrici, i bisogni e gli interessi del proletariato tutto. Nella più completa indipendenza da quelle che sono le compatibilità, le necessità, le regole, i vincoli di bilancio della nostra controparte: la classe capitalistica. E nella più completa separazione (ecco quale è la "separatezza" assolutamente vitale da perseguire!) dalle forze politiche borghesi che se ne ergono a difesa.

E’ solo a queste condizioni che si potrà per davvero "non tornare indietro" come schieramento di classe.

Ecco perchè dovrebbe suonare come un insulto il fatto che questa mobilitazione di piazza sia stata preceduta dall’appassionato abbraccio tra deputate di destra e di "sinistra" a proposito della legge sulla violenza sulle donne. (...). Ma come? Non sono proprio Forza Italia, Alleanza nazionale, Ccd, i popolari, i rappresentanti politici più coerenti, i difensori più accaniti di quelle istituzioni capitalistiche (mercato, stato, chiesa, massmedia di regime, famiglia) che sono altrettante macchine di violenza sociale e materiale sulle donne, e che alla violenza fisica (sessuale) sulle donne predispongono il terreno favorevole? Non sono proprio queste le forze che con la massima determinazione presidiano una putrescente società mercantile che della donna (e specie del suo corpo) ha fatto un ottimo articolo di commercio?

No. Dalla prospettiva di un blocco interclassista destra-sinistra di "tutte" le donne, la grande massa delle lavoratrici, delle casalinghe, delle donne "comuni" non può aspettarsi nulla di buono! (...). Quand’anche andassero ai posti di comando, come comincia ad accadere (vedi le 12 ministri-donne in Francia), funzionari del capitale di sesso femminile invece che maschile.(...).

In realtà -che lo si ritenga retro non c’importa un fico secco- oggi come ieri la lotta per l’emancipazione e la liberazione degli sfruttati, di tutti gli sfruttati, donne e uomini, bianchi e di colore, passa per la più decisa ripresa della lotta unitaria di classe del proletariato contro la borghesia, il capitalismo.

Basta di indietreggiare, di stringere la cinghia per "salvare" la nazione e le aziende (andando a picco noi lavoratori), di riporre le nostre speranze in un "secondo" tempo che non viene mai.

Rispondiamo colpo su colpo all’attacco sui posti di lavoro, alla riduzione dei servizi sociali, ai provvedimenti punitivi sulle pensioni e sul mercato del lavoro, ai tentativi di sopprimere i diritti all’aborto e al divorzio. Unifichiamo, centralizziamo le nostre forze in un fronte anti-capitalistico compattamente organizzato intorno alla classe operaia, e in esso (perchè solo esso può farsene realmente carico) esprimiamo le nostre particolari esigenze di donne proletarie sottoposte ad una doppia oppressione.

Prendiamo lo sviluppo della lotta nelle nostre mani, revocando il mandato a direzioni sotto-riformiste sempre pronte a vagheggiare e a tentare alleanze e patti, ed a concludere ogni sorta di compromessi a perdere con il padronato e le forze politiche borghesi.

Contrapponiamo ai programmi capitalistici incentrati sul mercato e lo sfruttamento del lavoro, un programma di difesa coerente degli interessi di classe. Un programma ed una organizzazione di lotta per il socialismo, che pongano il passaggio alla grande economia non mercantile socializzata, senza profitto, senza proprietà privata, senza mercato, come la condizione fondamentale per la liberazione della classe proletaria e, con essa, della donna.

Roma, 3 giugno '95