PER LA RIPRESA DELL'UNITA' DI CLASSE

Indice

La vertenza Olivetti chiama in causa l'intera classe operaia

Il contratto dei lavoratori agricoli


Un’esigenza di recupero -e non solo salariale- è all’ordine del giorno per gli operai. Non c’è dubbio. I sindacati dichiarano di farsene carico sia per dimostrare che la "politica dei redditi" varata il 23 luglio ’93 funziona anche quando si tratta di dare ai lavoratori, sia per rispondere alla "sofferenza" (così la CGIL) dei lavoratori emersa nel referendum sulla riforma delle pensioni, ennesima prova di cedimenti. Di qui la necessità di una stagione di rivendicazioni su "redistribuzione della ricchezza, miglioramento delle condizioni di lavoro, diminuzione dell’orario". Il riaccendersi dell’inflazione vi fa aggiungere anche il recupero della differenza tra la "programmata" e la "reale", in linea con l’accordo del ’93.

Per realizzare il recupero i sindacati prevedono due livelli: contrattazione nazionale di categoria per riallineare i salari all’inflazione; contrattazione aziendale per redistribuire anche ai lavoratori quote della maggiore produttività realizzata.

Il Pds appoggia questa linea. Agli operai della Piaggio D’Alema dice (l’Unità, 2.6): "sì, si vede una luce in fondo al tunnel, e sappiamo chi finora ha pagato di più".

Il "no" del padronato

Contro tali avances Bankitalia, governo e Confindustria levano un fuoco di sbarramento: il "percorso virtuoso" della moderazione salariale va confermato, "i salari di fatto hanno conservato il potere d’acquisto". Prodi (il Mondo, 7.8) conferma.

Mussi su l’Unità (20.8) implora l’Italia dei ceti benestanti affinché dia "un risarcimento ai lavoratori dipendenti" che hanno sostenuto il peso maggiore della recessione e della successiva ripresa dell’economia. Ma il padronato è deciso a "capitalizzare la ripresa" e si propone -anche per contenere gli effetti negativi sulle esportazioni della rivalutazione della lira- di aumentare ancor più i margini di profitto a spese dei salari e della produttività operaia, intensificando lo sfruttamento. D’altro canto i "ceti medi" manifestano un crescente rifiuto a contribuire al "risanamento finanziario" dello Stato e al "rilancio dell’economia", rendendosi, così, vieppiù disponibili a far da massa di manovra politica per scaricarne tutti gli oneri unicamente sulla classe operaia.

Un compromesso per logorare ancora il proletariato
Il contratto dei lavoratori agricoli

Il contratto nazionale dei 700mila lavoratori agricoli e florovivaistici è stato firmato -a luglio- solo da Cisl e Uil. La Cgil ha motivato il rifiuto della firma perchè l’accordo "cancella di fatto la possibilità di rendere più omogenei i trattamenti e le tutele per tutti i lavoratori del comparto, stravolge l’impianto contrattuale esistente, prevede per questo biennio aumenti al di sotto dell’inflazione programmata e conferisce al contratto provinciale, nel secondo biennio, il compito di definire i salari contrattuali".

Si preparano, insomma, esiti salariali diversi per ogni provincia, e più d'una rimarrà senza alcun esito -non avendo i lavoratori la forza di imporre la contrattazione territoriale.

L’accordo sansisce la scomparsa dei minimi contrattuali nazionali uguali per tutti e mette, alla fin fine, in discussione lo stesso istituto del contratto collettivo di lavoro. Un deciso passaggio, insomma, verso le "gabbie salariali", che nessun sindacato ufficialmente vuol neanche sentir nominare. 

La borghesia non ha dubbi: nessun "dividendo" sulla "ripresa" ai lavoratori. Ma, nel caso questi lo rivendicassero con la lotta, lo scontro sarebbe inevitabile. Memore della "scottatura" del trascorso autunno, essa teme di non avere ancora forze sufficientemente organizzate e determinate per affrontarlo. Il processo di sua riorganizzazione politica su basi non più "consociativiste", premessa per un nuovo deciso attacco al proletariato, è ancora irto di difficoltà e incertezze, anche nei primi tentativi esperiti con Berlusconi, Fini, Bossi.

In attesa della giusta rotta, continua la politica di logoramento delle posizioni sindacali e politiche della classe operaia, e propone un "compromesso": 1.escludere dal riallineamento l'inflazione dovuta alle "variazioni di cambio" della lira -metà del differenziale tra "programmata" e "reale"-; 2. la contrattazione aziendale non è obbligatoria e gli eventuali miglioramenti vanno legati alla "redditività" delle imprese, cioè ai profitti. Mancanti questi, tanti saluti anche ai "miglioramenti".

Il "compromesso" esclude qualunque riconquista operaia, ma anche di conservare lo statu quo . Tende a un ulteriore peggioramento delle condizioni del proletariato. Da un lato, infatti, mira a riconfermare e accentuare la sottomissione operaia all’economia nazionale, tenendo i salari sotto l’inflazione. Dall’altro ad approfondire la divisione materiale del proletariato, con incrementi salariali solo in aziende profittevoli, e, in questo, a subordinare ancora di più gli operai alle aziende.

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O lotta operaia, o alleanza col "centro"

La resistenza sindacale alle profferte padronali non lascia molte speranze. La Cgil sostiene -più di Cisl e Uil- la necessità di una contrattazione nazionale dei salari (nell’ambito di categoria, però, mai generale) e una loro rivalutazione integrale. Per il resto c'è accordo con Cisl e Uil: rilievo sempre maggiore alla contrattazione aziendale, distinguendosi solo per un rifiuto (almeno nelle dichiarazioni) del legame col profitto.

D’altronde, una lotta reale di riconquista salariale e contro l’intensificazione dello sfruttamento -ivi compresa la crescente liberalizzazione del mercato del lavoro- riaprirebbe uno scontro sociale e politico che farebbe naufragare i tentativi della "sinistra" di attrarre i ceti moderati e di imprenditoria ancora stazionanti al "centro", riproporrebbe una divisione netta della società lungo linee di interessi di classe, pensionando ancora in fasce "buonismo" veltroniano e "liberalismo" d’alemiano, e svelerebbe tutta la pericolosità dell’aziendalismo e del localismo, in quanto per perseguire quegli obiettivi di contro a una borghesia compatta nel rifiutarli, abbisognerebbero tutte le risorse della forza proletaria, prima in assoluto l’unità di lotta e d’organizzazione. Tutte mine piazzate sotto l’edificio della "collaborazione" tra le classi, della comune difesa dell’"economia nazionale" e dell’illusione di poter salvare assieme aziende e operai, capitalismo e condizioni proletarie.

Prevedere l’inclinazione sindacale al "compromesso" non "lacerante per la società" è facile. Ciò non toglie che lotta possa darsi, e non per pura finta, su termini e contenuti del compromesso. Ma accettando un simile "compromesso", il proletariato si ritroverebbe con un risultato immediato misero, e, quel che è peggio, scenderebbe ulteriormente la china di postazioni politico-sindacali che renderanno inevitabili nuovi cedimenti e lasceranno agire fino in fondo tutte le dinamiche di divisione e frammentazione di classe.

Tali dinamiche esercitano già la loro azione, anche grazie alla sfiducia diffusa nel proletariato dagli arretramenti con cui si sono chiuse tutte le ultime lotte a scala nazionale, anche quelle che per dimensioni e durata sembravano -ai lavoratori- votate a miglior fine. La prova maggiore di ciò è nel propagarsi (questo sì, di fatto) del federalismo, principale -non unica- linea di frattura della coesione di classe.

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Il federalismo...

Questo virus si sta divulgando velocemente nel corpo del proletariato, la classe destinata a pagarne più d’ogni altra gli effetti, e per "cucinare" la quale viene, in ultima istanza, invocato dai federalisti più coerenti.

Si provi a vedere cosa c’è dietro la conservazione del potere d’acquisto dei "salari di fatto". Rassegna sindacale (n. 30, 7.8.95) lo fa, e scopre che le "medie" statistiche nascondono settori del terziario e dei servizi (acqua, gas, credito, assicurazioni) con incrementi salariali al di sopra dell’inflazione reale. Il settore industriale è, in "media", al di sotto. Ma anche qui vi sono stati incrementi superiori all’inflazione: nelle zone "forti" del Nord e nelle aziende le cui esportazioni hanno, grazie alla svalutazione della lira, registrato performances da "capogiro". RS conclude sconsolata: "L’accordo del 23 luglio rischia di "tenere in gabbia" i salari del Mezzogiorno". Se si aggiunge la prospettiva -tracciata nell'accordo del ’93- di ridurre i contributi sugli incrementi salariali aziendali, allora la distanza tra aree ricche e le altre diverrà incolmabile.

Il federalismo avanza, con o senza i "folli" proclami bossiani, nel suo punto centrale: spezzare l’unità della classe operaia, diversificarne le condizioni materiali per metterla in contrasto al suo interno. Se del caso, quando se ne presenti l’utilità, anche in guerra (ex-Jugo docet!).

Noi aggiungiamo che, anche per gli operai di zone e settori "forti", il futuro non si annuncia roseo. Intanto si guardi al presente: gli incrementi sono dovuti all’aumento degli straordinari e alla contrattazione sui "premi di risultato", percepiti in questo anno di "boom" e destinati a liquefarsi col prossimo s-boom.

Inoltre, comincia ad avvertirsi l’effetto dello sgretolamento dell’est -in primis della Jugoslavia- che ha aperto all’imperialismo un terreno di caccia immenso, la cui preda più ambita è lo sfruttamento senza più vincoli di un proletariato già dotato di una disciplina capitalistica del lavoro e geograficamente vicino a un polo del mercato imperialista. Spolpare a dovere la preda, e, insieme, usarla per indebolire il proletariato occidentale, delocalizzando industrie (o minacciandolo) e importando manodopera nei "patrii confini", magari in forma di "profughi" che la "carità" internazionale -onuista e volontarista- provvede a rendere totalmente dipendenti dall’Occidente.

Persino l’Unità (18.7) ammette: nel Nord, Triveneto in testa, "ora gli operai vengono dall’est" -in particolare (guarda un po’!) da Slovenia e Croazia-. "perchè si adattano meglio" degli italiani meridionali (traduzione: accettano salari inferiori, ritmi maggiori, orari più lunghi, totale flessibilità di assunzione e licenziamento, condizioni miserrime di abitazione e servizi).

Figurarsi quando l’avanzare del federalismo in Italia renderà utili, per ricattare gli operai del Nord, anche gli "ingabbiati" proletari del Sud!

Il padronato più piccolo e arraffatore, pur di avere operai divisi e ricattabili, non esiterebbe neanche dinanzi al rischio di divisione dell’Italia. Ma anche il grande padronato, che pure aborrisce tale rischio, non esita affatto nel perorare "gabbie salariali" e quant’altro diversifichi la posizione economica e sindacale degli operai meridionali, per estenderlo, prima o poi, anche al Nord; ciò che la Fiat sta già facendo con la "melfizzazione" progressiva di tutti i suoi stabilimenti.

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... e altre linee di frattura

Gli elementi di divisione nel proletariato aumentano, quindi, senza sosta. La borghesia li impulsa in piena consapevolezza, ma un ruolo lo svolgono gli stessi sindacati: la politica di continue rinunce ha favorito la diffusione del "si salvi chi può", con le correlate derive aziendaliste, territoriali e a scambiare ritmi, orario e produttività con incrementi del salario aziendale.

Pur ammettendo che quell’apporto sia stato, per un certo periodo, "inconsapevole", non si può negare che stia assurgendo ormai a livello di vero e proprio programma politico (all’unisono, peraltro, con la sinistra politica). Sensibilità maggiore verso "decentramento", federalismo, aziendalismo, "gabbie salariali" ve n'è in Cisl e Uil, e il contratto dei lavoratori agricoli (v.scheda) lo ha, per ultimo, dimostrato. Ma pure nella Cgil si moltiplicano le voci favorevoli a indebolire ulteriormente i vincoli unitari tra i lavoratori.

Nella Fiom -auspici il segretario generale Sabattini e quello piemontese Cremaschi- avanza l’idea di un "sindacato industriale", con completa autonomia delle categorie sulle politiche di contrattazione nazionale e aziendale e nel determinare le condizioni di "solidarietà". Come a dire: chi ha più forza la usi anzitutto per sé stesso, poi si vedrà cosa riservare alla "solidarietà". Lo scopo dichiarato è di por fine alla "concertazione" e allo "scambio a perdere" cari alle confederazioni, e di perseguire delle "ri-conquiste" liberando le categorie più "forti" dalla zavorra delle più "deboli". Ma, in mancanza di un forte tessuto unitario di lotta, anche la categoria più "forte" è destinata a soccombere nello scontro, o con una sconfitta sul campo, o assumendo in proprio la politica dello scambio: subordinazione agli interessi d’impresa in cambio di effimere "conquiste" operaie, riproducendo in piccolo quel che si contesta alle confederazioni di fare in grande.

Le risposte a simili progetti dall’interno della Cgil non sono più confortanti. Un esponente lombardo, dichiara (l’Unità, 20.8) che, anche per contrastare aziendalismo e corporativismo categoriale, il sindacato deve essere federalista, con un centro più "leggero" e segmenti decentrati più autonomi. E aggiunge: "Così è possibile rispondere alle esigenze che abbiamo in questa parte industrializzata del Paese". Naturalmente egli, come ogn’altro sindacalista conquistato dal federalismo, non esclude la "solidarietà", specie verso il Sud. Ma trattandosi di ambienti sindacali ... basta la parola: una volta era "unità di classe", "unità di lotta". E qualche differenza c'è.

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Senza unità e autonomia l’autunno non si scalda

Sarà caldo l’autunno? Fosse per sindacati e "sinistra" la temperatura crescerà, tuttalpiù, qualche decimo per essere repentinamente raffreddata con qualche doccia gelata. La "stagione della riconquista" sarà ancora rinviata e il rinvio produrrà ulteriori guasti per l’unità della classe.

Tocca, dunque, agli operai stessi -senza rifiutare eventuali iniziative sindacali di lotta- rendere più radicali le rivendicazioni. Anche solo per ottenere un riallineamento integrale dei salari all’inflazione sarà inevitabile ricorrere alla lotta e alla mobilitazione. A maggior ragione per un recupero più serio sul salario e un recupero (o, almeno, una resistenza solida) su tutti gli altri piani, interni ed esterni alla fabbrica. Una lotta non facile, cui abbisognerà tutta la forza della classe operaia. Per realizzarla è necessario fare i conti -tutti politici- con ostacoli sempre più massicci: il federalismo e la subordinazione agli interessi delle imprese e dell’economia nazionale. Senza disfarsene una vera lotta di difesa di classe è irrealizzabile.

Per una stagione di recupero, o almeno di salda resistenza, il proletariato deve ricostruire la sua unità. Per farlo è indispensabile un’iniziativa politica di una avanguardia, pur piccola, ma decisa nel contrastare il federalismo e la subordinazione al capitalismo, e decisa a saldare rapporti di lotta con il proletariato d’altri paesi (come reagire all’"invasione" di proletari ex-jugoslavi? invocando la "chiusura delle frontiere" o schierandosi con loro contro le borghesie internazionali e locali che fanno di tutto per dividere il paese proprio per produrre una svalorizzazione del proletariato utile per svalorizzare tutto il proletariato europeo e mondiale?). Una avanguardia che persegua fino in fondo la ricerca dell’autonomia di classe del proletariato, quanto a interessi, programma e organizzazione, soprattutto di partito.

La pur minima difesa del pur minimo interesse immediato coinvolge ormai questioni che sono interamente politiche e attengono allo scontro tra le classi fondamentali della società, in un quadro che oltrepassa qualunque confine nazionale. E’ urgente che una parte almeno dell’avanguardia di classe assuma senza reticenza il compito che deriva da questo legame, smetta di trastullarsi su improbabili e illusori rimedi "democratici" e imbocchi decisamente la via dell’autonomia di classe e del partito comunista.


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La vertenza Olivetti chiama in causa l'intera classe operaia

Taglio di 5000 posti di lavoro. Porta in faccia alle organizzazioni sindacali. A firmare l'uno-due è De Benedetti l'"illuminato".

I lavoratori dell'Olivetti possono difendersi da questa scure solo con la lotta e solo se in essa si impone un adeguato indirizzo politico. Quello che ha guidato le precedenti vertenze porterebbe a nuovi sicuri arretramenti. Nessuna divisione fra stabilimenti dunque. Nessuna illusione di salvaguardare l'occupazione facendosi carico del rilancio del gruppo o dell'industria nazionale: a cosa sono serviti i sacrifici occupazionali di ieri, se non a dare il destro ai nuovi attacchi di oggi? Nessuna subordinazione alle esigenze elettorali della coalizione democratica: le scelte di un De Benedetti mostrano a sufficienza il carattere di classe di un ipotetico governo di centro-sinistra.

Massimo sforzo, invece, per estendere la lotta verso tutti gli altri lavoratori e inserirla in una battaglia generale del proletariato per l'occupazione, in modo da spostare a proprio favore i rapporti di forza tra le classi. Solo così si avrà la forza per piegare un padrone che ha alle spalle i pilastri della razza padrona italiana: De Benedetti non è forse partito lancia in resta dopo l'alleanza con Cuccia e Agnelli?

Guai se la classe operaia delle altre imprese restasse a guardare! La scure dell'Olivetti è diretta anche contro di essa: la classe padronale serra i ranghi intorno alla difesa dei suoi profitti, raccoglie le sue forze in un punto e picchia forte su di esso per indebolire e spaccare tutto il proletariato. Al proletariato fare altrettanto, centralizzandosi attorno alla difesa intransigente dei propri interessi di classe.

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