[che fare 37]  [fine pagina]

Italia

L’AUTUNNO OPERAIO: TRA PROMESSE E ATTESE


Indice

 


La politica dei vertici sindacali ha fatto naufragio.

L’accordo del luglio ’93 secondo Cgil-Cisl-Uil avrebbe dovuto garantire una certa tranquillità ai lavoratori. Il sacrificio richiesto allora doveva, nella logica sindacale, essere seguito dalla garanzia di mettere i salari al riparo da nuovi assalti. Nella realtà le cose sono andate ben diversamente! I salari hanno continuato a perdere in potere d’acquisto. Il riallineamento all’inflazione reale che si dovrebbe ottenere col secondo biennio di contrattazione di categoria, si annuncia meno scontato di com’era stato presentato. Non esiste nessun meccanismo automatico di recupero, e l’inclinazione dei sindacati a dar credito ai discorsi sulle "condizioni economiche del paese, le ragioni di scambio della lira, il rischio inflazione, ecc.", non lasciano presagire certo un riallineamento pieno.

Nè il recupero salariale viene tramite la contrattazione integrativa. Nelle aziende in cui si è svolta non ha procurato né miglioramenti delle condizioni di lavoro, né ridistribuzioni ai lavoratori di quote della maggiore produttività raggiunta. Sulle condizioni di lavoro, infatti, la chiusura padronale è totale, e quel poco di salario ottenuto, lo è stato solo in cambio di ulteriore produttività concessa, in particolare con una maggiore flessibilità dell’orario di lavoro.

Anche solo limitandosi alle modestissime attese suscitate da Cgil-Cisl-Uil, il bilancio è, insomma, per i lavoratori tutto negativo. Alla prova dei fatti la "politica dei redditi", la moderazione salariale, l’accettazione delle compatibilità capitalistiche non hanno difeso i salari, né hanno migliorato la condizione operaia.

Se si sposta, poi, lo sguardo appena un poco avanti si vede che non solo i salari non hanno tenuto il passo con l’inflazione, ma che con la porta aperta con l’accordo di Melfi si è avviato un processo di pesante e generalizzata differenziazione salariale. Il tema della flessibilità salariale è ormai accettato dallo stesso sindacato. Se D’Antoni è per la fine del "tabù" (così ha il coraggio di chiamarlo!) dell’unità sul terreno salariale, per Cofferati si può accettare la flessibilità purché... non scavalchi i vincoli normativi e sia "contrattata" dal sindacato. Come se a Melfi o a Gioia Tauro, per il solo fatto che le differenze salariali sono state "contrattate", non si è operata una lacerazione nel tessuto unitario, aprendo così la strada a un peggioramento delle condizioni di tutti i lavoratori, del Sud come del Nord. Intanto Confindustria e governo (sostenuto dal centro-sinistra!) dopo aver incassato i primi cedimenti sindacali, si preparano a ottenere ancora molto di più; per loro la flessibilità ottenuta non è mai abbastanza, e ciò che si è concesso oggi, domani è già troppo poco per un capitale affamato di sangue operaio.

Ma non è solo sul terreno salariale che la politica delle direzioni sindacali mostra la sua totale inconsistenza nella difesa della condizione operaia. Sul terreno dell’occupazione questa linea è, se possibile, ancor più organizzatrice di disfatte. I casi Olivetti e Alenia sono emblematici: solo pochi anni prima si erano accettati ridimensionamenti occupazionali come sacrifici necessari per salvare l’azienda e per dare un futuro a chi rimaneva. Bene, quei sacrifici non hanno dato un "futuro" ai lavoratori, non hanno fermato l’attacco occupazionale ma, all’opposto, hanno fatto arrivare la classe operaia a questi nuovi affondi padronali più disorganizzata, debole e sfiduciata.

Anche nel caso della contro-riforma delle pensioni, quello che nelle intenzioni sindacali doveva essere un arretramento controllato ("accettiamo un ridimensionamento oggi per avere la certezza delle pensioni di domani") si sta rivelando l’inizio per ulteriori e più pesanti tagli. Le dichiarazioni di Treu (vale a dire il co-artefice dell’accordo) sulla necessità di rivedere al più presto (e in peggio) la riforma, non lasciano spazio ad alcun dubbio: non sono solo i settori "retrivi" del padronato, ma è tutta la borghesia che vuole proseguire nell’offensiva senza lasciare nulla in piedi delle precedenti conquiste operaie.

Ogni cedimento dei lavoratori non è stato che un passaggio per nuovi e più pesanti arretramenti e su questa linea la politica sindacale è andata via via accettando tutto ciò che anche solo fino a ieri respingeva. E le stesse promesse di "campagna d’autunno", per ora rimandate a primavera (quando scadrà il secondo biennio dei maggiori contratti) rischiano di rivelarsi, su questa base, promesse di nuovi cedimenti, senza, cioè, nemmeno un recupero dell’inflazione reale, o con recuperi parziali e ottenuti in cambio di ulteriori concessioni ai padroni su orario e flessibilità, come è avvenuto col "secondo biennio" già siglato per i chimici.

 [indice] [inizio pagina] [next] [back] [fine pagina]

Dov'è finita la campagna d’autunno del PRC?

Semplicemente non c’è stata, non è mai partita. Chiariamo subito un punto: non ce ne rallegriamo. La difficoltà (se non peggio) di RC su questo terreno la consideriamo all’interno delle più ampie difficoltà dell’insieme del proletariato (all’interno, non le stesse! Ciò, dunque, non valga in alcun modo a giustificazione delle sue precise e dirette responsabilità).

La campagna d’autunno del Prc non è partita per quelle stesse contraddizioni insanabili che lo portano a essere incapace di orientare e dirigere politicamente il movimento dei lavoratori. Di proclami ve ne sono stati, senza mai, però, non diciamo mettere in campo quell’unitario movimento di massa necessario per una risposta all’altezza dello scontro, ma anche senza utilizzare e valorizzare la volontà di resistenza e di lotta che pure la classe ha dimostrato. Persino Bertinotti è stato costretto ad ammettere che molti dirigenti del partito hanno sostanzialmente liquidato la proposta di lavorare per la "campagna d’autunno". Ma l’insieme stesso del partito a parole dice della necessità di una vertenza generale, ma, sostanzialmente, non ci crede, perché questa porrebbe comunque ulteriori contraddizioni all’alleanza-desistenza con l’Ulivo. Lo si è ben visto in ottobre con la vicenda della mozione di sfiducia a Dini: tutto ha pesato, di tutto si è discusso meno che della necessità dell’iniziativa di massa contro la politica del governo. Che è poi la stessa politica del centro-sinistra, col quale si cerca l’alleanza e si è pronti a sostenere, sia pure "elettoralmente", per battere la destra.

In qualunque salsa venga presentato, l’orizzonte politico dei vertici di RC non va mai al di là della battaglia elettoral-parlamentare, vista come principale momento per affermare gli "specifici" interessi dei lavoratori. La mobilitazione di massa, quando e se viene costruita, in questa logica può essere al massimo un utile supporto alla propaganda elettorale (come sembra destinata a essere la manifestazione nazionale del 24 febbraio a Roma), ma niente di più.

L’aspirazione a diventare un "partito comunista di massa", ove "per massa" si intendono -ci si scusi il bisticcio- le messi di voti atte a garantire una presenza parlamentare, asserve il Prc a una vera e propria dipendenza "da elezioni" che gli impedisce di convogliare e rafforzare le energie proletarie che pure ci sono e chiedono una presenza più forte e caratterizzata del "proprio" partito. E’ questo un punto della massima importanza e su cui ci siamo soffermati più volte: l’esigenza profonda e sentita di un’iniziativa di partito sulle questioni sindacali viene continuamente e, ciò che è peggio, programmaticamente elusa dal PRC. Tanto più è grave questa dismissione dai compiti di partito di fronte a una polarizzazione delle forze borghesi, che cercano di riprendersi la piazza (come AN a Roma) sfruttando la confusione e lo spazio lasciato libero dalla "sinistra". In una tale situazione anche quando settori proletari del PRC vorrebbero sinceramente lavorare per l’affermazione di un movimento di massa, alla loro azione viene a mancare il sostegno di un impianto generale, di quelle indicazioni politiche necessarie a battere gli ostacoli alla mobilitazione, e che solo un partito che si richiama integralmente al marxismo può dare.

 [indice]  [inizio pagina]  [back]  [fine pagina]

Il congresso CGIL

La "campagna d’autunno" promessa dai sindacati è stata rinviata -e sotto brutti auspici-, quella invocata da Rifondazione è avvolta nella nebbia elettoral-parlamentare, il Pds insegue compromessi istituzionali (premessa di ulteriore "moderazione" della sua "politica sociale"), ma l’offensiva della borghesia non conosce soste. Pur nell’attesa di riuscire a consolidare un quadro istituzionale e politico che le consenta di riprendere in grande stile l’attacco contro il proletariato, la borghesia non sospende neanche per un attimo la sua pressione per costringere la classe operaia a ulteriori cedimenti su tutti i piani. Il proletariato, che pure ha dato prova contro Berlusconi di possedere tutti gli elementi per dare vita a un forte movimento di lotta per difendere i suoi interessi, e che pure ha negli ultimi mesi dato ulteriori segnali di combattività (scioperi generali a Palermo, Catania, Cagliari, Taranto e Milano, vertenze Olivetti, Alenia, Falck, Sulcis, ecc.) che i sindacati hanno adeguatamente tenuto divisi, si trova disorientato dalle giravolte della "sinistra" e rischia di perdere, dietro a esse, la sua solidità e compattezza, giungendo più debole e impreparato alle prossime e più dure scadenze.

In questo quadro si avvia la discussione per il congresso della CGIL, un congresso tenuto fino all’ultimo in sospeso e pronto a risospendersi se si dovessero svolgere le elezioni anticipate.

Alla contrapposizione del precedente congresso in due mozioni (maggioranza di Trentin e Essere Sindacato di Bertinotti) sembra si aggiungerà, questa volta, la novità di una terza mozione, che, pare, sia promossa da elementi di Essere Sindacato come mediazione tra i due schieramenti principali.

La maggioranza non potrà che riproporre la sua linea fallimentare, perché, nonostante l’evidente debacle sullo stesso piano della difesa immediata, il suo orizzonte non può uscire dall’accettazione delle compatibilità capitalistiche e deve, quindi, mettere in conto l’arretramento e il ridimensionamento delle conquiste del movimento operaio, sia pure cercando di farlo con gradualità e cercando di ottenere contropartite sempre più improbabili.

L’opposizione, col nuovo nome di "Alternativa sindacale" si presenta con un documento che è un elenco di obiettivi, di rivendicazioni, non certo uno strumento di battaglia sulle ragioni di fondo di quella debacle, e di indicazione di un percorso per ricostruire l’unità di lotta, quindi, per la ripresa di classe.

Noi riconosciamo a questi compagni la intenzione di superare in avanti la totale insufficienza della impostazione e della conduzione della maggioranza di vertice della CGIL. E riconosciamo anche che in più di una situazione fanno riferimento alla mozione alternativa settori di avanguardia generosamente impegnati nella resistenza all'attacco capitalistico. Non possiamo tacere però, proprio per questa ragione, che la loro "contro"-impostazione complessiva si colloca molto al di sotto delle necessità del momento.

Anzi, essi compiono purtroppo un passo indietro rispetto alla stessa esperienza di Essere Sindacato; allora si cercava, pur in modo velleitario e con la riproposizione delle illusioni riformiste, di indicare una linea complessivamente alternativa a quella dei sindacati e della CGIL in particolare. Ora si rinuncia a questo, e lo si fa nella speranza che una mozione senza "fronzoli politici" e con una adeguata "lista di rivendicazioni" possa raccogliere il consenso elettorale di un vasto numero di iscritti, secondo un ragionamento "elettoralistico" -fatuo come tutti i ragionamenti del genere- per cui, per esempio, se al referendum sulla riforma delle pensioni quasi il 50% dei lavoratori attivi ha votato "no", proporre in un documento congressuale degli obiettivi di ri-conquista (ben inteso, parziale!) del precedente sistema pensionistico debba fruttare un... bel tot di voti. Se tanto mi dà tanto... Ma ammesso pure che i numeri si ottengano, dove e come li si dirigerà se manca, per programma addirittura, qualunque fondamento a una battaglia politica e sindacale di classe?

Tutti i cedimenti sindacali che si vanno susseguendo da anni non sono il frutto di "errori" di valutazione, o di incapacità a svolgere il "mestiere di sindacato", ma sono il risultato inevitabile dell’accettazione dell’orizzonte capitalista, all’interno del quale si pensa di poter difendere i lavoratori. Nessuna vera battaglia contro questa politica sindacale e per la ricostruzione di un’organizzazione sindacale realmente antagonista può prescindere da questo nodo: o si bandisce l’illusione di poter difendere gli interessi del proletariato all’interno delle compatibilità capitalistiche -in qualsiasi forma siano presentate: difesa dei "veri" interessi del Paese, difesa della "nostra" azienda- oppure non c’è possibilità per l’affermazione di un programma e di un’organizzazione di coerente difesa di classe.

Pensare di poter difendere gli interessi dei lavoratori senza mettere esplicitamente in discussione quelli della borghesia, del suo stato, della sua economia nazionale, delle sue aziende, è, per esser generosi, del tutto utopico.

La stessa lotta per la difesa degli interessi immediati richiama oramai continuamente tutte le questioni politiche, dei rapporti tra le classi, del potere ed evoca, sempre più chiaramente, lo scontro tra socialismo e capitalismo.

Le direzioni sindacali non si sottraggono a questo compito, e danno la loro versione completa di ogni singolo cedimento, che, da un certo punto di vista, viene considerata dai lavoratori del tutto "logica" e convincente -il che non sempre vuol dire condivisibile-. La risposta va data alla stessa altezza, altrimenti non si dà alcun aiuto alla ripresa della lotta e dell’organizzazione proletaria, non si costruisce alcuna seria "opposizione" interna ai sindacati, e, in fondo, non si conquistano neanche quei lavoratori critici con la linea della maggioranza, ma che continueranno ad aderirivi proprio perchè gli presenta un quadro d’insieme più compiuto e "logico".

Per altro verso, come si possono porre degli obiettivi di ri-conquista operaia senza, contemporaneamente, battersi contro tutti gli ostacoli che si frappongono dinanzi al loro perseguimento? Per lottare per il recupero salariale, contro le condizioni di lavoro, ecc., tanto più nelle condizioni attuali di attacco capitalistico, c’è bisogno del massimo di unità della classe. E questa unità si può ottenere solo se si lotta contro tutti gli elementi che la minano fin nelle fondamenta. Una battaglia aperta contro il federalismo, una battaglia aperta a favore degli immigrati, una battaglia aperta contro l’imperialismo che con i suoi interventi (a partire dalla ex-Jugoslavia) ha di mira lo sfruttamento selvaggio di masse sterminate, ma ha di mira anche il proletariato metropolitano. Non sono "altra cosa" rispetto ai temi "sindacali", ma sono, ormai, un tutt’uno con essi. Lo sono per la borghesia che li usa accuratamente per dividere e sottomettere meglio la classe operaia "propria". Lo sono per i sindacati e per il riformismo in genere che ne fanno altrettanti motivi per argomentare l’unità interclassista nazionale sulla base della quale chiedono al proletariato di sentirsi cointeressato alle sorti dello stato e dell’economia nazionale.

Non possono essere al di fuori di una battaglia per la ricostruzione dell’unità e dell’organizzazione di classe, dovunque essa venga condotta, dentro o fuori i sindacati ufficiali. (E se poi a tenere fuori questi temi brucianti dai compiti "sindacali" sono militanti "ultra-leninisti" come quelli di Lotta Comunista, ovvero militanti che si candidano a riorganizzare il sindacato di classe, come si fa a non dargli uno zero spaccato sia in marxismo, sia in sindacalismo di classe ?)

E’ questo il livello minimo indispensabile per un lavoro capace di valorizzare e spingere realmente in avanti quella diffusa insofferenza che pure proviene dalla classe (nonostante un autunno non proprio caldo), quell’esigenza -di cui il movimento contro il governo Berlusconi ha dato dei primi e significativi segnali -che sappiamo non essere andati del tutto smarriti- di fare i conti con la politica delle compatibilità, dei continui arretramenti, dell’infinita subordinazione degli interessi di classe alle sempre più vampiresche esigenze capitalistiche. Un sentimento, questo, che cova, in una certa misura, indipendentemente dall’appartenenza a questa o a quella mozione sindacale, a questa o quella sigla. Sta ai comunisti, ai settori proletari d’avanguardia lavorare perché da questa contraddittoria situazione non esca rafforzata la tendenza alla frammentazione e alla sfiducia nelle proprie forze, ma una linea (anticapitalista per forza di cose) di autonomia di programma e di organizzazione di classe.


[che fare 37]  [inizio pagina]