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Segnali di ricomposizione: Polonia, Russia, Croazia...

GRAZIE ALLE URNE, TORNA IL COMUNISMO?
CI TORNERA’ PER DAVVERO SPEZZANDO IL METODO DEMOCRATICO,
QUANDO SI SARA' RICOSTITUITO UN VERO PARTITO COMUNISTA.


Indice


Le recenti elezioni ad Est hanno segnato l’affermazione di partiti abitualmente definiti qui da noi come "post-comunisti". Una sorpresa per molti. "Ritorna il comunismo", titola costernato (per finta) Feltri. Allo stesso modo sono tentati di titolare, soddisfatti, quelli di "Liberazione". Ma qual è il senso profondo di quest’affermazione? E se c’é da rallegrarsene (il che vale anche per noi) quale ne può essere il giusto motivo?

In vari paesi dell’Est e, in particolare, da ultimo, in Polonia e in Russia i cosiddetti "post-comunisti" hanno registrato dei rilevanti successi elettorali. Il dato, inatteso per molti, ma non per i borghesi più accorti dell’Occidente e tanto meno per noi marxisti, riveste un suo particolare significato che va spiegato e visto in giusta prospettiva.

Anche a noi -in ciò in apparente compagnia dei nostrani "rifondatori"- l’esito elettorale fa piacere, in quanto vi leggiamo un segnale (con tutti i suoi limiti) del processo di decantazione di posizioni e forze politiche all’Est nel senso di una ripresa della prospettiva nostra, comunista sans phrase. Ma, diciamolo subito, non perché leggiamo nel fatto in sé dell’affermazione elettorale dei "post-comunisti" un dato positivo che si dovrebbe "solo", in successione, espandersi e ripulirsi per consentire ai nostri obiettivi. Riteniamo, anzi, alcune cose: primo, che l’ipotesi di un ritorno al passato "comunista", nel senso tradizionale all’Est, è definitivamente esclusa; secondariamente, che, qualora, per assurda ipotesi, ciò si rendesse possibile si tratterebbe di un esito catastrofico, da cui guardarsi come dalla peste; in terzo luogo (ma solo in ordine espositivo) che le battaglie decisive si giocheranno fuori e contro la logica elettorale ed elettoralistica, tanto più nelle vesti attuali, e riproporranno, invece, quella dello scontro armato di classe tra il nostro vecchio e caro comunismo di sempre e l’articolato insieme di tutte le forze borghesi, tra le quali ci ficchiamo, senza esitazioni di sorta, i cosiddetti "post-comunisti".

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Contro il liberismo selvaggio. E poi?

In che senso, dunque, possiamo parlare di un positivo segnale riferendoci agli odierni risultati elettorali, di Polonia e Russia in modo particolare?

Nel senso che in essi si esprime una ripulsa inequivoca degli effetti del liberalismo spinto con cui le forze borghesi interne e quelle (assai più attrezzate) internazionali, delle metropoli imperialiste occidentali, hanno tentato di regolare sin qui le questioni economiche di quei paesi raccordandole al Nuovo Ordine Mondiale capitalista passando sopra le esigenze del proletariato e delle altre classi sfruttate, quasi si trattasse di un inconveniente del quale non meritava neppure tener conto.

Si è verificato, all’opposto, che le classi su cui si pensava di scaricare tranquillamente i costi della perestrojka est-europea si sono ribellate, hanno alzato la voce. "Non ci stiamo", esse hanno detto e fatto sentire. E questo dopo aver smaltito in fretta l’ubriacatura di democrazia formale e delle demagogiche promesse di benessere per tutti una volta usciti dal "comunismo".

Questo non significa affatto, di per sé stesso, l’acquisizione di una coscienza di classe né, tantomeno, di una materiale riorganizzazione dell’esercito di classe. Tutt’altro. Il fatto che, a parare gli effetti di cui sopra, ci si rivolga, nel chiuso dell’urna, al personale politico "post-comunista" dimostra da solo la debolezza in cui versa oggi come oggi il movimento proletario dell’Est.

Chi sono, infatti, questi "post-comunisti"? Sono, alla scala dei capi, principalmente dei pezzi della vecchia nomenklatura (od aspiranti a costituirne una nuova) che si limitano a proporre una via più graduale ed "equa" alla perestrojka in atto e dai quali nulla è più lontano di una prospettiva realmente comunista, di classe. Rispetto alla nomenklatura tradizionale, hanno di caratteristico il fatto che la conservazione, o l’acquisizione, del potere dipende per essi assai più che da una propria autonomia aziendal-affaristica, dal rapporto di contrattazione con la propria base. Dirigenti di aziende od uffici statali, direttori di kolkhoz e sovchoz, sindacalisti..., una fauna assolutamente non nuova, che cerca di scaricare sull’"azienda stato" le ragioni dei propri clientes, del tipo IRI, Mastella/De Mita o D’Antoni.

Ma, come per questi ultimi, l’ultima parola è sempre riservata al capitale, di cui si chiede d’esser soci per la propria corporazione e nulla di più. Ed a misura che ad essi è affidato il potere nella sua globalità, il loro senso dello stato, della nazione, dell’economia patria li porterà inevitabilmente non a scaricare le vecchie riserve protette di voti, ma a farle pesare sulla gestione complessiva, sulle spalle dei non protetti, del cuore vivo e pulsante del proletariato.

Lo sanno bene i borghesi accorti di qui che, anche dopo il voto in Russia, hanno sagacemente commentato: non è altro che l’esigenza, che noi stessi dobbiamo riconoscere fondata, di un "capitalismo dal volto più umano"; nulla di cui doversi particolarmente preoccupare.

C’è dunque chi dirà subito: ed allora, Gaidar o Zuganov che cambia?, fa lo stesso e non c’è nulla da rallegrarsi del fatto che dei proletari siano passati dagli inganni dell’uno a quelli dell’altro.

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"Post-comunisti" e vittorie elettorali: una patata bollente.

Perfettamente vero se ci limitiamo alla eguale natura borghese degli schieramenti in competizione. Ma le cose cambiano se guardiamo ai diversi rapporti che intercorrono tra l’uno e l’altro di essi ed il proletariato e, soprattutto, se, sotto questa luce, guardiamo alle prospettive a venire.

Uno Zuganov non è semplicemente quel tale che impunemente inganna il proprio proletariato e ne profitta, tirando così a deviarlo dal suo corso "naturale", "spontaneo". E’ certamente anche questo, ma, nel contempo, è anche l’espressione di forze sociali che, per farsi strada nella competizione per aspirare alla guida borghese del proprio paese, deve rispondere in qualche modo alle esigenze ed alle espresse richieste del proletariato su cui si regge. Ed è, per noi, altrettanto certo che questa forma di "concertazione" col proletariato non ha, in prospettiva, alcuna possibilità di stabilizzarsi e crescere sulle gambe di partenza (e sperato arrivo).

Non ce l’ha ormai in nessuna parte del mondo, né ad Ovest né tantomeno ad Est. Il riformismo che s’era illuso, nelle metropoli, di poter far quadrare il cerchio degli interessi del capitalismo e quelli della propria base proletaria è arrivato al capolinea. La "tappa" successiva ci mostrerà il fallimento della riproposizione di un tale disegno, riportando in primo piano nella sua interezza il senso vero del conflitto in corso (del quale stiamo appena assaggiando l’antipasto).

E’ significativo che già oggi Zuganov non riesca, e neppure tenti, di far quadrare unitariamente attorno a sé l’insieme del proletariato russo e peschi soprattutto nella massa dei pensionati, a giusto titolo furenti, nei settori operai più esposti ai colpi della ristrutturazione, nei quadri militari declassati ed in vaste fasce di generico "popolo" insoddisfatto dell’andamento delle cose. Geograficamente, nella periferia piuttosto che nel cuore del paese, cui spetta, in ultima analisi, di deciderne le sorti. Una buona fetta di questo stesso elettorato è friabile in prospettiva, mano a mano che la "nuova Russia" si libererà dalle inevitabili doglie del parto, provvedendo anche a correggere le storture più evidenti di una fase iniziale che ricorda molto gli orrori del periodo dell’accumulazione primitiva dell’Occidente di un secolo e mezzo, due secoli fa.

La parte centrale del proletariato non si lascia incantare dagli specchietti per allodole dei "post-comunisti"; sente di non averci nulla da guadagnare: né nel senso proprio di classe antagonista (un terreno sul quale è tuttora lontano dal porsi) e neppure in quello di "classe del capitale". Se gruppi di esso, che noi pensiamo meno rilevanti di quel che qui si creda, possono anche aver votato per Zuganov, non gli hanno rilasciato alcuna delega in bianco né si acconciano a ridursi a pura massa di manovra di esso. In mancanza di meglio (tenuto conto, cioè, del marasma in cui essi versano politicamente ed organizzativamente) se ne sono serviti come avvertimento da inviare a chi di dovere, ma essi stessi sanno che si tratta di uno spaventapasseri di transizione, al quale dovrà succedere qualcosa di molto più serio, che li dovrà vedere coinvolti in prima persona sulla base di un vero programma alternativo, di una vera organizzazione di classe.

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Il "post-comunismo": un passato anti-comunista alle spalle, un fragile futuro anti-comunista davanti.

In un articolo molto puntuale apparso sull’Unità del 17 dicembre, Heinz Timmermann ha tracciato un quadro preciso delle articolazioni all’interno del PC di Zuganov, espressione diretta della sua impotenza programmatica (e della fragilità del suo stesso consenso di massa attuale). Da una parte la corrente dei nostalgici staliniani, reclutati tra i "perdenti" in alto e in basso che il vecchio sistema aveva, in qualche modo, riscattati. Essi sono completamente ed irreversibilmente tagliati fuori dalla storia ed il loro relativo peso residuo è unicamente la testimonianza del peso contrattuale che settori della classe operaia (e della bassa burocrazia al di sopra di essa) avevano potuto esercitare nei confronti dello stalinismo quale prezzo, in negativo, dell’opera da essi svolta nell’affermazione dell’Ottobre e della successiva "costruzione del socialismo".

"Sul versante opposto si trova la corrente socialdemocratica" (un 10% del partito), indubbiamente al passo coi tempi, ma con la difficoltà, di cui sopra s’è detto, di coniugare, oltre un certo limite, riformismo e superiori esigenze del capitale ed insidiata dalla concorrenza di ben più conseguenti tendenze di borghesia attenta alle esigenze di una qualche forma di "concertazione" funzionale. (Un parallelo si potrebbe fare con quello che avviene in Slovenia, dove la Lista Associata ex-Lega, di sinistra, appare schiacciata tra l’impossibilità di rispondere in solido all’esigenza del proprio "zoccolo duro" operaio ed il dinamismo di correnti borghesi "aperturiste" quale quella di Drnovsek).

A tenere assieme questi due estremi dovrebbe essere il "centro" di Zuganov (un 75% del partito), col suo forte richiamo alla "ricostruzione della Grande Russia sulla base degli specifici valori storici del paese" perché "la Russia sia liberata dallo sfruttamento materiale e dal colonialismo culturale dell’Ovest" e diventi invece "perno del blocco euro-asiatico e in contrappeso alle tendenze egemoniche degli USA". Una brodaglia ricca di richiami al vecchio pan-slavismo ad impronta magari "socialista" (vedi Bakunin) contro il quale proprio in Russia si affermò il marxismo.

L’esigenza di un più deciso svincolamento della Russia dalla morsa del capitale occidentale è (come era allora) perfettamente comprensibile, e giusta. Ma se già ai tempi di Marx era escluso che un tale compito potesse spettare ai fautori dell’"originalità russa", tanto più è impensabile attualmente un socialismo... grande russo portato avanti come "qualcosa di particolare, che ha a che fare con le tradizioni proprie della Russia e con il carattere di un tipo di civiltà "euroasiatica"" (Zuganov). Di "particolare", la Russia di oggi ha solo un suo peso enorme da esercitare nel quadro e secondo "le tradizioni proprie del capitalismo internazionale". Ciò significa: competizione all’ultimo sangue sul mercato internazionale.

Tradotto in termini di classe: aggiogamento delle classi sfruttate ad una politica social-sciovinista tutta ed esclusivamente borghese. Una strada già percorsa da altri, con provvisorie fortune, anche e soprattutto fuori dal campo socialista... Salvo che, per lo stadio dell’evoluzione capitalista mondiale in cui la si vorrebbe ripercorrere, e considerati i ritardi accumulati nel frattempo dalla Russia, noi crediamo che questa strada significherebbe, imboccata con decisione, l’evidenziarsi più stridente dei contrasti di classe che verrebbero ulteriormente a dividere gli strati e le classi dirigenti dalle classi basse. L’imperialismo russo non è di quelli che, ad oggi, possano permettersi di pagare in solido sulla base di una propria indiscutibile potenza autonoma. E il proletariato russo non sputerà il proprio sangue per promesse campate in aria.

Al contrario. Il rilancio della Russia (che noi, controcorrente, abbiamo preconizzato quando si parlava di catastrofe imminente e che è oggi confermato dagli studi OCSE) non potrà farsi al di fuori di uno stretto intreccio con l’industria e la finanza occidentali, con tutti i costi relativi per la locale classe operaia. L’intervento occidentale è, ad un tempo, fonte di depredamento e di potenziale sviluppo. Non ci si può opporre al primo aspetto chiudendo al capitale occidentale le patrie serrande per chiudersi in sé stessi, e questo lo sa anche Zuganov. L’esperienza "autarchica" dello stalinismo (la fase "romantica" della costruzione del capitalismo sovietico) è oggi decisamente out. Quello che certamente è possibile è lottare contro la pirateria occidentale, ma ad una duplice condizione: lottare contro quella della borghesia di casa propria, vitalmente intrecciata ad essa; ritrovare la via di un’unità di classe col proletariato occidentale nella lotta contro il sistema capitalista mondiale. I "post-comunisti" non saranno in grado di assolvere al primo compito, cui pure aspirerebbero, e rifuggono come la peste dal secondo. Perciò, in prospettiva, la parola torna al proletariato in quanto forza indipendente ed antagonista.

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Sulla via dell'indipendenza di classe

Per l’uno e l’altro dei compiti suddetti. E’ significativo, ad esempio, vedere come in Croazia la classe operaia, rapidamente smaltita la sbornia nazionalista, abbia annullato il credito concesso a Tudjman in un primo tempo e si stia battendo contro la svendita del patrimonio industriale nazionale al capitale straniero senza nulla concedere al "proprio" stato ed al "proprio" capitale, responsabili di tale svendita, sulla base della difesa intransigente dei propri interessi. Anche qui, sul piano elettorale, la cosa si traduce in un voto alle formazioni di opposizione a Tudjman (segno della difficoltà persistente a trovare una propria autonoma strada politica), ma quel che è significativo è che sempre meno ciò assomiglia ad una cambiale in bianco: in più di un’occasione assistiamo ad uno scavalcamento dei programmi e degli inviti alla calma provenienti dagli stessi uomini politici e sindacalisti di una "sinistra" che predica le ragioni dell’economia nazionale facendo blocco (antiproletario) con essa e senza essere in grado di difenderla sul serio dalla rapina occidentale. In recenti agitazioni di massa, la base proletaria ha chiaramente detto: non si difende l’economia nazionale accordando credito alla nostra borghesia, al nostro stato attuali, ma lottando contro di essi. In un caso, ha licenziato i suoi stessi rappresentanti sindacali "di sinistra" in quanto troppo legati alle ragioni delle "compatibilità nazionali" e fischiato i politici, sempre "di sinistra", venuti a raccomandare maggior ragionevolezza. Non è tutto, ma siamo sulla strada che può condurre al passaggio ulteriore di cui s’è detto: la ricostituzione di una propria forza autonoma ed antagonista, croata e mondiale. In ogni caso, siamo alla pratica dimostrazione che nessun futuro il proletariato di qui sa di potersi aspettare dalle forze politiche su cui tuttora elettoralmente, e in via transitoria, campeggia.

Altrettanto può dirsi della Russia, fatte salve le differenze di potenziale (che certo non sono da poco) tra i due paesi. Non ignoriamo le differenze, ma badiamo al quadro d’insieme, che si presenta in modo largamente unitario. Perciò diciamo: l’affermazione elettorale dei "post-comunisti" è da considerarsi positivamente perché registra l’avvenuta disillusione del liberalismo, e perché mette a nudo sin dagli esordi l’impotenza di ogni "terza via" liberal-social-capitalista; perché accelera i processi di decantazione politica nella classe operaia e ne sollecita la ripresa di movimento.

I processi sociali e politici in corso sono soggetti a rapide trasformazioni, di cui vanno colti esattamente i fili. Si è visto in Polonia come siano bastati pochi anni per bruciare la carta Walesa che avrebbe dovuto assicurare, stando ai piani borghesi, la capitalizzazione del movimento proletario dell’80, che Walesa "rappresentava", con le ragioni della borghesia e della strapotente chiesa polacche e quelle del capitale internazionale. Il paradiso in terra che l’uomo nero del Vaticano aveva benedetto per l’eternità è sfumato in un breve volgere d’anni. Perché? Perché torna il "comunismo", come dalle accorate parole di Glemp? E magari ci torna contro l’esperienza dell’80? Esattamente il contrario. Perché le ragioni del movimento dell’80, provvisoriamente soffocate nella morsa dei Walesa (per responsabilità prima del regime "comunista" allora in campo), manifestano la propria vitalità. Il senso della forza materialmente acquisita nelle lotte dell’80 è quel che ha permesso al proletariato polacco di sbarazzarsi senza inibizioni di un Walesa e questo stesso dato grava egualmente, oggi, come un macigno sulla nuova dirigenza politica del paese.

In Polonia il movimento si è dovuto forgiare nella lotta contro il "comunismo" prima di dover fare i conti col successivo ultra-liberalismo. In Russia dovrà partire confrontandosi direttamente col capitalismo "post-comunista". In nessuno dei due casi si tornerà indietro: lo scontro di fondo, in maniera sempre più evidente, è tra capitale e proletariato e si tratta di uno scontro da cui è esclusa ogni funzione autonoma in avanti o restauratrice all’indietro dei partiti "post-comunisti". La presenza di questi ultimi sta solo a segnare, in prospettiva, con la propria provata impotenza, l’impossibilità da parte del proletariato di mediare con la borghesia e con sé stesso. Ogni reale forte movimento di classe (del tipo visto in Polonia ed ancor da vedere in Russia) avvicinerà i tempi della ripresa comunista, che significa catastrofe definitiva e non riscatto parziale del vetero o neo "comunismo".

Il "comunismo" staliniano ci sta definitivamente alle spalle, il "post-comunismo" è nato già morto, e non c’è nulla di cui rammaricarsi, perché da questi "lutti" sta emergendo con una sua fisionomia chiara l’antagonismo proletario. E le condizioni reali dello scontro inchiodano inesorabilmente questo antagonismo al futuro. Il futuro del comunismo.

Di questo sono un segnale, per quanto deformato, anche le vicende elettorali dell’Est, e ad esso possiamo anche noi brindare.


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