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I guasti del federalismo

GABBIE SALARIALI? NO.
CIOÈ SI


Confindustria e governo fiutano nell’aria la possibilità di sferrare un ulteriore attacco alle condizioni materiali di unità della classe operaia. Dopo scala mobile e pensioni, è venuto il momento di mettere in discussione lo stesso istituto del contratto collettivo nazionale, di sancire trattamenti salariali e normativi (orari, inquadramenti, licenziabilità) diversificati sul territorio nazionale e di dare un colpo decisivo all'organizzazione sindacale unitaria.

Guai a parlare di ritorno alle gabbie salariali di triste memoria: padroni e governo si offendono e sdegnosamente sostengono di essere fraintesi. Quando però tentano di spiegare di cosa si tratta nel concreto, si scopre che la differenza con le vituperate gabbie salariali è solo nominale. Essi si dicono "preoccupati" per il sud che, esposto alle conseguenze della globalizzazione dell’economia, viene escluso dagli investimenti (con gravi danni per l’occupazione) poiché risulta poco "appetibile" rispetto alle condizioni offerte dai paesi in via di sviluppo. La soluzione per risollevare le sorti del martoriato sud, che sta tanto a cuore ai nostri padroni, consiste nell’aumentare le "convenienze" ad investirvi, il che significa, alla fin fine, avere completa flessibilità per salari e condizioni di lavoro.

Per allontanare il sospetto che proprio della riproposizione delle gabbie salariali si tratta, si prospetta che le misure di riduzione del salario (per il momento ci dicono può bastare un 15%) e la flessibilità normativa riguardino "solo" i nuovi assunti e le nuove imprese. Tanto non ci si mette niente a licenziare operai anziani e assumerne di giovani, ovvero chiudere una fabbrica e a riaprirla sotto diversa ragione sociale...

A questa vera e propria "campagna d’autunno" della borghesia le risposte in campo sindacale hanno oscillato tra un formale no della Cgil ed una ampia disponibilità di Cisl e Uil. Il no dei vertici Cgil risulta essere poco più che formale poiché il rifiuto di diversificare l’istituto contrattuale si accompagna a segnali di disponibilità a studiare soluzioni caso per caso che, pur senza intaccare il contratto unico nazionale, puntino a realizzare quelle condizioni richieste dai padroni. Talune realtà locali della CGIL, poi, e senza nessuna smentita centrale, sono già passate alla firma di accordi di questo tipo. Che, aperta la prima breccia alla Fiat di Melfi, stanno dilagando.

Si è iniziato con il contratto dei tessili che prevede "transitoriamente" (sono almeno quattro anni!) una riduzione del 35% sui minimi per invogliare le aziende a passare dal lavoro nero a quello "regolare". Poi è stata la volta dei braccianti, la fissazione dei cui minimi è attribuita ai contratti provinciali (e la Cgil, che prima si era opposta alla firma dell’accordo, lo ha poi sottoscritto). Si è giunti quindi a Gioia Tauro, dove è stato firmato un "Patto d’area" che prevede una riduzione delle retribuzioni durante i corsi di formazione.

Ma oramai è una vera gara tra le varie province del sud per offrire condizioni più "convenienti" ai padroni. A Brindisi sindacati ed industriali hanno siglato un "contratto di riallineamento retributivo": praticamente una riduzione dei minimi al 50% per i nuovi assunti. Altro accordo ad Enna che prevede la possibilità di ricorrere al salario d’ingresso o contratti di gradualità. In lista di attesa per siglare altri patti territoriali ci sono Caserta, Siracusa e Benevento. Secondo un responsabile del Cnel già 42 province si stanno muovendo in questa direzione.

Se continua la deriva localistica a farsi concorrenza per "strappare" nuove occasioni di lavoro, tra poco bisognerà sperare che si faccia un accordo nazionale per imporre dei limiti massimi alle concessioni che le varie categorie e Camere del Lavoro fanno ai padroni. Il sindacato tessile, cioè il primo ad avere accettato i trattamenti differenziati, ha fatto una circolare per non consentire che gli sconti ai padroni scendano sotto il 65% delle paghe contrattuali!!! (Mondo economico, 18/12/95)

Nonostante ciò anche nel sindacato continuano ad aumentare le voci a favore del federalismo e dell’autonomia delle realtà territoriali. Come se non fosse evidente che il federalismo avanza nei fatti e che quelle sopradescritte sono solo un anticipo delle conseguenze derivanti per i lavoratori da una sua completa affermazione.

La speranza di produrre più occasioni di lavoro offrendo ai padroni disponibilità molto allettanti è altrettanto irreale quanto quella di potersi difendere meglio da soli nelle aree forti senza il "peso" delle categorie e delle zone più deboli del paese. Tutto ciò produrrà al sud solo occupazione sostitutiva o condizioni al disotto della sopravvivenza, che saranno usate nelle aree forti come armi di ricatto per estendere gli stessi trattamenti imposti nel meridione.

Da questa situazione si esce solo rilanciando la lotta unitaria, rigettando tutte le posizioni politiche e sindacali che favoriscono la divisione e la frammentazione della classe operaia e battendosi invece per omogeneizzare al massimo i trattamenti nelle varie parti del paese. Non di maggiore federalismo ed autonomia locali ha bisogno il proletariato, ma di lotta e di maggiore unità e centralismo, per affrontare una offensiva borghese che marcia divisa sul piano delle scelte politico-istituzionali, ma colpisce unita il proletariato con l’obiettivo di annullare la sua forza, la sua organizzazione e la sua capacità di resistenza.


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