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Italia

 

"GRANDI INTESE" O ELEZIONI, PER IL PROLETARIATO E'
URGENTE RIPRENDERE L'INIZIATIVA ANTI-CAPITALISTA


Indice

Parla di voi Rosa la rossa

Sul "caso italiano" si sta scrivendo un ulteriore capitolo in cui la confusione sembra avere la meglio sulla linearità dei problemi e delle scelte. Districarsi nell’attuale bailamme è impossibile senza tener conto delle dinamiche -economiche, sociali e politiche, mondiali e non solo nazionali- che vi sottostanno e che determinano, in ultima istanza, i comportamenti delle classi sociali e delle loro rappresentanze politiche. Nel commentare, oggi, gli ultimi sviluppi, non possiamo, quindi, che fare rimando alle precedenti "puntate" già apparse sulle pagine del Che fare (a partire dal n. 20 del giornale in poi), i cui temi affronteremo di nuovo in modo organico non certo per soddisfare pure esigenze d’analisi, ma per trarre le necessarie conclusioni di battaglia nel e del proletariato.

Scriviamo a crisi di governo aperta, quando le soluzioni possibili sono ancora diverse. Soluzioni non equivalenti, poiché non è la stessa cosa (nella forma) se verrà trovata o no una mediazione -e se sì, quale- tra le diverse istanze sociali e istituzionali di cui sono portatori Polo, Ulivo e Lega. Che Dini riesca o meno a succedere a sé stesso, però, una cosa è certa: sta per scaricarsi sui lavoratori (la Francia insegna) una nuova pesantissima offensiva capitalistica. E il proletariato potrà respingerla solo se saprà uscire dallo stato di passività in cui la politica della "sinistra" lo ha portato, recuperando quella fiducia in sé, quell’energia, quella capacità di lotta anti-capitalista che sembra avere smarrito.

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La vera posta in gioco

Eliminiamo anzitutto un equivoco. A stare all’estenuante cronaca dell’attuale crisi politica, l’unica questione sul tappeto è quella istituzionale. Non è così. La questione centrale, di cui le stesse riforme dello stato sono funzione, è in realtà un’altra, e l'ha correttamente indicata, dal punto di vista capitalistico, Il Sole-24 ore (del 31.12). E’ la necessità del "sistema Italia" di rispondere alla "sfida" che viene dalla "globalizzazione del mercato mondiale" (la stessa sfida a cui è chiamato, sul fronte opposto, il proletariato italiano e internazionale).

L’Europa tutta, e l’Italia in essa, dice il foglio di Confindustria, è sempre più direttamente esposta alla competitività di un’Asia rampante e di un’America dalle condizioni di lavoro pressocché "asiatizzate". Da ciò la borghesia italiana, e quelle europee, sono chiamate a "scelte coraggiose", che avranno "drammatici riflessi sugli appagati stili di vita dei cittadini" (=dei lavoratori). Solo in Europa il proletariato conserva un sistema di "garanzie" non ancora del tutto squadernato; è qui che più duri debbono cadere i colpi del capitale. Secondo l’abusata canzone: se non si vuole precipitare in America Latina o in Africa, si deve subito "mettere mano a una riforma sostanziale degli istituti italiani del welfare state solo timidamente scalfiti dalla riforma previdenziale di quest’anno". Ossia, tanto per cominciare, ci si contenti di... precipitare all’indietro di qualche decennio. A comandarlo non sono gli "astratti burocrati di Maastricht" (vero), bensì le concrete e, a differenza dei trattati, non ricontrattabili leggi del mercato.

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Perché le riforme istituzionali?

Per la "volpina" codardia italica un pò tutti, da sinistra a destra, ne tacciono. Ma è questo il compito che l’impersonale ed extra-parlamentare potenza sociale del capitale (i mercati internazionali) affida alle istituzioni, riformate o riformande che siano, della "seconda repubblica". Per cui, quando si discute se la forma "migliore" di governo è quella parlamentare, presidenziale o semi-presidenziale; se è da preferire la mera designazione o la elezione diretta del capo del governo; una o due camere; venti o dodici regioni; il maggioritario liscio o al seltz; il federalismo "solidale" o d’altro tipo, etc.; si sta discutendo non di cosa è meglio per la società o -meno ancora- per i lavoratori, ma di cosa è meglio per il capitale. Di quali siano le forme organizzative dello stato capitalistico più adatte, più efficaci, più stabili per portare a termine la completa demolizione di quel che residua del vecchio welfare state (e per inaugurare un’era di warfare state, di "missioni di pace" sia in bosnia che nel mondo). Le istituzioni più adatte a bastonare a sangue il proletariato, qui e dovunque arrivano gli artigli del "nostro" capitale. Tutto, quindi, fuorché le regole neutrali di cui si blatera, che potrebbero tornare utili oggi ai Berlusconi e agli Agnelli, domani ai Cipputi e agli Esposito. Su questo l’avanguardia di classe apra bene gli occhi!

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Dini, governo di destra sostenuto dalla "sinistra"

Ciò premesso circa la sostanza sociale reale della crisi, veniamo alla dinamica di essa e ai suoi paradossi. E, in particolare, ai pericoli che la sua gestione da parte della "sinistra" presenta per il nostro fronte di classe (riserviamo a una futura occasione la analisi delle non ricomposte contraddizioni inter-borghesi).

Il primo paradosso è che abbiamo dovuto sciropparci per l’intero ’95 un governo di destra, che è stato in grado di applicare (con pochi ritocchi dolcificanti) la politica del polo berlusconiano solo per il sostegno ricevuto, dentro e fuori il parlamento, dai sindacati e dalla sinistra. Direttamente dal Pds; indirettamente anche dal Prc, se è vero che il 50% dei suoi deputati ha preferito abbandonare il proprio partito pur di salvare quello, non esattamente "comunista unitario", di Scalfaro e Dini. E se è vero che, pur avendo remato contro in parlamento, Rifondazione ha però desistito di fatto dalla mobilitazione di massa contro il governo, anteponendo ad essa la conclusione del patto di desistenza elettorale (per i "27 collegi sicuri"...) con un Ulivo che intorno al governo faceva quadrato. A quale poca cosa si sia ridotta, non solo per le effettive difficoltà oggettive, la "campagna di autunno", ognuno può vedere.

Né si può affermare, se non per prendersi in giro, che l’esecutivo dei "tecnici" sia caduto da sinistra. Lasciamo perdere le vicende non esaltanti per il Prc dei voti di sfiducia e degli approcci molto ravvicinati "con il diavolo" del Polo (lo stesso con cui ora pretenderebbe che l’Ulivo non avesse contatti). E guardiamo invece al dato, ben più determinante, della mobilitazione sociale. Ebbene: Dini ha potuto usufruire della tregua benevola del movimento operaio ufficiale, cui ha legato le mani, nel mentre (non è una mera "coincidenza") An riempiva -per la prima volta nel dopoguerra!- piazza S. Giovanni a Roma (anche contro le misure "anti-popolari" di Dini), la Lega decine di piccole piazze della Padania (con l'anti-proletaria agitazione federalista), e qua e là spuntavano i primi cortei "spontanei" anti-immigrati (ai cui umori il governo si è mostrato più che attento)...

L’Italia che il Dini I ereditava da Berlusconi vedeva un movimento di massa dei lavoratori in piedi e il Polo di destra in difficoltà. Quella che "lascia" ai suoi veri padroni (che non sono... Cofferati, D’Antoni e Larizza) vede un movimento di classe semi-paralizzato, lo schieramento di centro-sinistra nel marasma e, per contro, le destre (sopratutto An e Lega, ma anche l’"imputato"-accusatore Berlusca, se non la sua troppo fragile creatura Forza Italia) in forte ripresa d’iniziativa e di consensi. Per quali forze di classe abbia lavorato il governo Dini, giudicate voi.

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Verso un accordo globale con la destra?

S’è forse fatto da "sinistra" un bilancio critico del costo di sacrifici e politico che la classe operaia ha pagato al governo Dini? Neanche per sogno. Il Pds, alla sola idea di cambiare rospo, si è fatto afferrare per pazzo: Dini o muerte! No pasaran!

Incassata l’eterna fedeltà della Quercia all’ex-ministro del Tesoro di Berlusconi (alla sua politica), il manovratore del Quirinale si è rivolto ai propri affini del centro-destra, dicendo loro più o meno: "per ‘entrare in Europa’ (nel senso detto sopra) evitando complicazioni di tipo francese, è necessaria la massima unità d’intenti e di concentrazione degli sforzi (borghesi). Non può mancare il vostro contributo. Non è tempo di aventinismi di destra. Esporreste troppo l’esecutivo al condizionamento di sindacati e progressisti. D’altra parte, lo avete sperimentato, l’attacco frontale è prematuro. Anche se vinceste le elezioni, non sarebbe saggio ritentarlo. Bisogna ancora per un pò continuare a colpirli (i proletari) in modo e condizioni tali da fare il possibile per paralizzarne la reazione".

Pur nella differenziazione di posizioni tra Forza Italia e An, il contenuto anti-operaio di questo invito è stato colto e accolto nel Polo. Così, sotto la trasparente ipocrisia di un confronto limitato alle sole riforme istituzionali, è cominciato un "costruttivo dialogo" a tutto campo (finanziaria da 70.000 miliardi compresa) dell’Ulivo e del Pds con quel "Cavaliere nero" e con quella destra "eversiva, populista ed ex-fascista", rispetto a cui si era giurato fino a ieri d’essere alternativi. E con cui si contratta oggi -per usare le parole di Berlusconi- "una tregua politica, sociale e fiscale", e cioè un compromesso globale, favorevole a chi non si tarderà a capire.

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Il Pds colpito dai suoi stessi "alleati"

Si arrivi o meno all’intesa, i guasti provocati nella classe da questa sciagurata politica del vertice pidiessino del farsi carico degli "interessi generali del paese" sono evidenti. Nei proletari più attivi s’è ingenerato uno stato confusionale ("non ci si capisce più nulla"), un malessere, una sensazione di marginalizzazione dalle decisioni della stessa coalizione di sinistra, che stanno portando a una preoccupante disaffezione per la politica. (Anche se non mancano, magari contraddittoriamente presenti negli stessi militanti scoraggiati o a malincuore "allineati", le spinte in senso contrario.) E in effetti per il militante o l’elettore proletario pidiessino almeno tre cosette non quadrano: l’improvvisa distensione con il nemico n. 1 Berlusconi; la palese crisi della coalizione di centro-sinistra; il rilancio delle forze di destra. La sensazione, più che fondata, è che le cose, per la classe operaia, stiano volgendo al peggio.

E in effetti, la rincorsa agli interessi borghesi e sotto-borghesi del centro che doveva, grazie alla moderazione (delle istanze operaie) e in nome della normalità (della normalizzazione delle stesse), concludersi con lo sfondamento sociale e elettorale del centro-sinistra nei ceti medi, sta avviandosi a un fiasco senza eguali. La Lega, intascata l’apertura di credito della sinistra, rifiuta sprezzantemente ogni apparentamento con essa, continua il suo gioco di logoramento di entrambi i poli, e, invece di temperare, estremizza il suo federalismo in senso indipendentista. Sotto il manto del presidenzialismo, Segni ed altri zombi suoi pari non solo praticano un impudente trasversalismo con Alleanza nazionale, ma quanto agiscono da punta di lancia della discriminazione a sinistra verso i "facinorosi" (!) del Prc, violando (il penoso Occhetto in testa) ogni regola della disciplina di "blocco". Nello smarcarsi da D’Alema e soci, poi, i verdi non vogliono essere da meno, sì che non perdono occasione per comportarsi da "cavallo di Troia del Polo nell’Ulivo", quali sono. Del presunto asso nella manica dei progressisti, Tonino, sono pubblici oramai, oltre i torbidi maneggi a 360° dietro le quinte (anche con agenti del Pentagono quali Luttwak), gli intendimenti politici, così reazionari che il Corsera può definirli icasticamente da "Gelli-2/la vendetta" (alla faccia del "nuovo" e del "pulito"!). Per tacere dei socialisti del SI, dei laburisti, di Adornato, etc., che sembrano avere, come tutti gli altri potenziali "alleati" del Pds, una sola preoccupazione: ridurne la forza e paralizzarne l’azione, per ridurre la forza e la capacità di iniziativa della classe operaia. E nello stesso tempo imporgli un’ininterrotta, mai sufficiente e conclusiva, revisione di linea in senso liberista (in economia), accentratore-autoritario (in politica), iper-sciovinistico (in politica estera), istericamente anti-comunista in tutti i campi.

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La comparsa della "destra sociale"

E’ una vecchia storia che si ripete da decenni, purtroppo (e per cui D’Alema chiama in causa Gramsci e Togliatti: il solo cui non può di certo appellarsi è Bordiga!). Più il proletariato, grazie ai buoni uffici delle sue direzioni collaborazioniste, si fa "ragionevole" e "responsabile" davanti ai diktat del grande capitale, meno seguito raccoglie nella società. Proprio a causa della sua debolezza, gli si rivoltano contro con pretese d’ogni genere le mezze classi impaurite e colpite dalla crisi, quasi fosse la fonte primaria delle loro difficoltà. Peggio: più il proletariato si fa incerto e oscillante nella difesa delle proprie postazioni attaccate, più apre dei varchi nella propria stessa compagine (specie nelle sue sezioni meno organizzate) alla penetrazione dell’agitazione demagogica e populista delle destre.

Ripetiamo da anni, del tutto inascoltati, che si è già concesso troppo tempo e troppo spazio, nella classe, alla infezione del federalismo leghista. Aggiungiamo ora che non vanno prese sottogamba le prime, riuscite sortite di massa della "destra sociale". Se Fini può impunemente proclamare, da una piazza-simbolo per il movimento operaio (piena, anche di "popolani"), l’intenzione di "strappare alla sinistra l’egemonia del mondo del lavoro", lanciarle il guanto di "sfida della giustizia sociale" e accusarla, non senza argomenti, di fare "una politica anti-sociale" di comune accordo con "il grande capitale assistito". Se i più focosi agit-prop di An alla Buontempo arrivano a sbeffeggiare, non senza argomenti, l’ultimissimo Pds come "partito da salotto", contrapponendovi il dinamismo movimentista del suo partito, presentato come il solo in continuità con le battaglie per il lavoro della CGIL di Di Vittorio. Se tutto questo accade, e accade per giunta senza apprezzabili reazioni d’allarme e di rigetto nel proletariato, i militanti proletari che non hanno perso del tutto la tramontana hanno davvero di che preoccuparsi.

Tanto più che anche dagli industriali, grandi e piccoli (specie se leghisti) e sulla stampa berlusconiana si infittiscono gli appelli a una alleanza diretta tra capitalisti e operai, realizzata senza la "fastidiosa mediazione" di sindacati e partiti di sinistra. Perché una prospettiva del genere possa sfondare globalmente nella classe operaia, mancano oggi tre condizioni essenziali: la contropartita materiale da offrire al proletariato; una capacità di decisa proiezione sciovinista-militarista all’esterno (che presuppone non solo la tenuta, ma il forte rilancio dell’unità nazionale); un avanzato stato di disorganizzazione e demoralizzazione del movimento operaio. E tuttavia, se dovessero permanere e approfondirsi le tendenze già all’opera, i rischi di sfondamenti parziali (per il momento) aumenterebbero a vista d’occhio. Valgano di monito i successi "operai" della Lega!

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Niente è perduto. Se...

Insomma, la situazione non è delle più allegre. E l’eventuale governo destra-"sinistra" la renderebbe ancora più complicata. Ma nulla è programmaticamente perduto. Crediamo non sia andato del tutto disperso quel tanto di coscienza dei propri distinti interessi di classe e di unità cui il proletariato è arrivato nelle semi-lotte contro Berlusconi. Di quel movimento rimane un sedimento che, nell’attuale imputridimento della politica "operaia" ufficiale, deve in qualche modo rilanciarsi.

Non è chiusa la partita nel Pds, nonostante, o proprio a motivo, della tendenza sempre più spinta a rompere tutti i ponti con la vecchia tradizione operaista. Lo provano le resistenze di base, ma non solo di base, a un’intesa con la destra che sia ad un tempo, come sarebbe inevitabile, istituzionale e sociale. Se sarà un Dini-bis ad amministrare lacrime e sangue con il consenso della "sinistra", se ne vedranno le conseguenze. Se invece si andrà ad elezioni, e ad amministrarle dovesse essere, dopo di esse, la destra, è lecito aspettarsi un indurimento della Quercia a fini di bottega, ma con il rischio, per essa, di innescare un movimento non contenibile entro i confini preventivamente tracciati, data la mancanza di risorse da redistribuire una volta battuta (in ipotesi) la destra.

In Rifondazione è finalmente riemersa, dopo mesi di immobilismo, la volontà di riprendere una vera mobilitazione di massa (che non si riduca a tavolini e firme). E anche se la direzione del Prc vede questa mobilitazione in chiave elettoralistica (a difesa di quel che resta del proporzionalismo e per elezioni subito) e sta quindi ben attenta a non pregiudicare la ricucitura con il centro-sinistra, la parte più viva del suo corpo militante avverte invece come prioritaria la tematica delle condizioni di vita e di lavoro.

Dentro Rifondazione, poi, e nella CGIL si va facendo strada una pur confusa e, per quel che concerne gli indirizzi programmatici, insufficientissima dialettica, che vede coinvolti settori d’avanguardia, e che contiene in sé un bisogno oggettivo di indurimento della difensiva di classe, di riconquista dell’autonomia della classe dalle soffocanti compatibilità del capitale. Il medesimo bisogno è presente in organismi già formalizzatisi come "indipendenti". E la pioggia di pietre che sta per abbattersi sul proletariato lo farà insorgere in non ristretti strati di lavoratori.

Dunque, nulla è perduto, anche (se non primariamente) perché un nesso indissociabile lega lo scontro di classe in Italia a quello, almeno altrettanto aperto, su scala internazionale. Ma per uscire dalla palude in cui è finito, il proletariato non può limitarsi a un "semplice", estremamente necessario, scatto di reni. Deve farsi un quadro chiaro di come ci è finito dentro, e di quali sono i passi da compiere, e in quale direzione, per venirne fuori. In caso contrario, rischia di sprofondarci dentro del tutto.

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Tornare all’iniziativa e alla politica di classe

Il primo - e fondamentale- elemento per resistere e invertire la deriva è quello dell’iniziativa di lotta. Qualunque sia il governo che si incarichi dei prossimi "tagli" deve trovarsi innanzi un proletariato pienamente disposto a riprendere il discorso lì dove era stato lasciato con Berlusconi: lotta generale di massa.

Se si formerà un governo di "larghe intese" o, peggio, di "centro-sinistra", è ben possibile che la contestazione sociale incontrerà almeno inizialmente maggiori difficoltà a manifestarsi, e possa perciò presentarsi, ancor più di quanto lo sia oggi, frammentaria, "a spizzichi", e con connotati formali "estremistici". Se così sara, considereremo questi fenomeni solo come il punto di partenza di una risposta di lotta che, per non arenarsi nelle secche del corporativismo di azienda, di settore o territoriale, dovrà puntare espressamente ad allargare i processi di reale unità sostanziale della lotta proletaria. Ai settori di massa che per primi si mettessero in moto, né faremo le fusa stimolandoli a precipitarsi in un mero rivendicazionismo economico "radicale", né consiglieremo di ritornare nei ranghi ad attendere "responsabilmente" che "tutti" si muovano "insieme", onde non rompere il quadro "unitario" dato. Indicheremo loro, invece, la necessità assoluta di dotarsi di un coerente programma anti-capitalistico d’insieme, e di dirigersi sempre e comunque verso l’intera classe, nella certezza che questa, nonostante le "proprie" direzioni, dovrà e saprà reagire ai colpi del capitale, uscendo dall’attuale transitorio stato di passività e di sbandamento.

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Rompere con la politica riformista

Se invece il governo incaricato della "terapia polacca" invocata dal FMI dovesse essere, dopo le elezioni, un governo di destra, è prevedibile possa aversi fin da subito una maggiore disponibilità alla lotta, per lo meno nel senso che la "sinistra" politica e sindacale vi darà un maggiore apporto. Ma questo non vuol dire che, in tale ipotesi, tutto sarà semplice, o semplificato. L’esperienza del movimento di lotta contro Berlusconi sta a dircelo, se è vero che esso ha tratto risultati di molto inferiori alle forze messe in campo, arrivando fino al punto di riconsegnare tutta l’iniziativa politica alla destra. Se non vuole ripetere, in peggio, quella vicenda, è indispensabile, per la classe, rimettere in discussione quella politica "riformista" che la obbliga ad adattarsi comunque, ne può solo variare di qualche virgola la percentuale, alle necessità dettate dal capitale.

Dunque è indispensabile un’alternativa di classe a questa politica. Che non può consistere, però, nel consegnare la nostra volontà di resistere e di tornare ad avere voce in capitolo all’ennesimo "lavacro elettorale". La speranza che l’1% in più all’Ulivo o a Rifondazione ci toglierebbe dai guai è davvero infantile.

La stessa borghesia ci sbatte in faccia, quotidianamente, con il suo martellante richiamo al mercato (che non è un’istituzione democraticamente eletta ogni cinque anni), che il reale centro di gravità della sua azione è fuori dal parlamento, fuori dalla democrazia, fuori dalle elezioni. E allora, alla buon’ora!, anche per la classe operaia la prima parola di una reale opposizione "deve essere il riconoscimento e la fede che non nel parlamento, ma nelle fabbriche, nelle officine, nelle strade possono decidersi le sorti" delle grandi questioni sociali e politiche e dello scontro di classe con il capitale e il capitalismo.

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Internazionalizzare la lotta

Ma il ritorno della massa del proletariato al ruolo di protagonista della lotta per i propri interessi (e non di coro) è solo la prima condizione della ripresa. La seconda è che la classe si metta alla altezza dei compiti del presente.

La globalizzazione del mercato mondiale ci pone una sfida reale? Ebbene, non dobbiamo scansarla, ma affrontarla. E affrontarla non con suicide parole d’ordine di chiusura nazionale (sanare il "nostro" deficit, aumentare la competitività della "nostra" nazione, etc.) ma contrapponendo all’internazionalizzazione dell’aggressione del capitale una visione, una strategia, delle parole d’ordine che indichino nell’internazionalizzazione della lotta anti-capitalista del proletariato la sola contro-soluzione realmente efficace. Non si tratta di ricontrattare nazione per nazione, ovvero: nazione contro nazione, e proletariato contro proletariato, le regole (e i sacrifici) di Maastricht. Ma di ricacciare in gola alla borghesia italiana e alla borghesia di tutti i paesi occidentali, come fronte unitario di classe, l’insieme di quelle regole e di quei sacrifici.

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Rivitalizzare l’organizzazione di classe

In questa battaglia non possiamo in alcun modo illuderci che le "istituzioni democratiche" in quanto tali, e le progettate riforme in senso autoritario di esse, ci possano essere di aiuto, o almeno di sponda. Non ci saranno altro che di ostacolo.

E così pure certi nostri presunti alleati impegnati indefessamente a farci le pulci, a chiederci abiure idea-li e rinunce materiali e, più spesso, a pugnalarci a tradimento.

Come nella migliore tradizione del movimento proletario comunista, dovremo far conto invece sulla capacità d'iniziativa e sulla forza organizzata della classe, sull’intransigente difesa del programma politico e rivendicativo di classe, sulla rivitalizzazione classista delle nostre "istituzioni", le nostre organizzazioni. E’ questo l’unico modo, valga anche in questo l’esempio francese, per contrare l’attacco del grande capitale. Per neutralizzare potenziali nemici piccolo-borghesi, e conquistare simpatie e consensi nelle classi di mezzo. Per sbarrare la strada all’azione di diversione e disgregazione del nostro fronte operata dalla "destra sociale" e dal leghismo. Per impedire che la disfatta annunciata della "sinistra storica" (che già capitolò indegnamente davanti al fascismo, via patti di "pacificazione" e invocate, e impossibili già allora, "rivincite elettorali") si traduca in una disfatta della classe operaia.

Quei militanti proletari del Pds o di Rifondazione che sempre più si sentono a disagio davanti alla politica di svendita di D’Alema o alla contraddittoria e inconcludente "alternativa" di Bertinotti-Cossutta e che avvertono il bisogno di impegnarsi in prima persona per invertire il corso negativo, li invitiamo a trarre un bilancio complessivo e collettivo della politica riformista, in assenza del quale c’è il rischio di mordersi la coda o di auto-distruggersi in improduttive "ricerche" individuali. E a quanti riterranno di dover rompere anche organizzativamente con questa sempre più esangue e compromessa "sinistra", diciamo fin d’ora: "pur con tutti i nostri limiti di quantità e di qualità, noi OCI siamo qui, pronti a fare la nostra parte, pronti a organizzare insieme a voi il lavoro necessario".


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PARLA DI VOI, ROSA LA ROSSA

Di quando in quando, su Il Manifesto o su Liberazione, c’è il vezzo di nobilitare un opportunismo che più sbracato non si può, con espressioni rapinate nientepopodimeno che a una campionessa mondiale della lotta all’opportunismo: Rosa Luxemburg. Per aiutare questi "luxemburghiani" (?) da corridoi dei passi perduti a farsi passare il vizietto, dedichiamo loro una citazione di Rosa, che proprio a loro va diritta diritta, come una staffilata.

"(Il) cretinismo parlamentare (...) ha costituito da decenni il cancro nella vita del nostro partito (...). L’azione parlamentare di una dozzina o di qualche dozzina di deputati è dunque sempre il dato reale, la politica, l’asse della vita, l’ombelico del mondo; le masse sono soltanto il coro, che dice sì o -nei casi più rari- no. Come se le sorti della guerra e della pace potessero essere ancora decise in parlamento! (...) (L’azione parlamentare non è che) un dettaglio, un debole inizio di una politica, il cui centro di gravità si trova interamente fuori del parlamento, nelle azioni di massa. (...) La prima parola di una reale opposizione deve essere anzi il riconoscimento e la fede che non nel parlamento ma nelle fabbriche, nelle officine, nelle strade possono decidersi le sorti della guerra e della pace, dell’Internazionale, della fame delle masse (...). Hic Rhodus, hic salta." (Spartacus, 20 settembre 1916)


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