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Tra scomposizione e ricomposizione: ex-Jugoslavia

L’IMPERIALISMO NEI BALCANI:
UNA PACE CHE E’ PEGGIO DELLA GUERRA


Indice

 

Così, in seguito a trattative svoltesi in USA, sotto le direttive degli USA, abbiamo finalmente nell’ex-Jugoslavia una pace che gli USA si impegnano a gestire e garantire in proprio, con la collaborazione (soprattutto in solido contante) dei cosiddetti propri alleati occidentali.

Una pace a stelle e strisce, non c’è che dire. Una pace, diciamo noi, peggiore della guerra. E non perché pensiamo alla guerra come "sola igiene del mondo" o perché non teniamo in alcun conto i costi umani connessi ad essa. Esattamente il contrario: perché questa "pace" non solo è destinata (oggettivamente e soggettivamente) a non risolvere alcuno dei problemi che erano e restano sul tappeto, ma è volta, nel prosieguo, ad infiammare ulteriormente l’area balcanica, a provocare nuove e più sanguinose guerre nell’area; perché, nell’intermezzo -più o meno lungo, più o meno tranquillo- tra il primo ed il secondo atto bellico tende a creare tutte le condizioni per acquisire all’imperialismo dei punti ulteriori di forza, sia in loco che nelle metropoli (dove, per intanto, si incominciano ad addestrare i proletari a considerare sempre più normale e doveroso l’intervento estero del "proprio paese" a salvaguardia dei "propri interessi" di potenza, e innanzitutto nei riguardi dei "propri" concorrenziali partner).

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Libanizzazione della Jugoslavia. Ma si lasceranno gli jugoslavi impunemente libanizzare?

A riprova: se lo scoppio della pace -è il caso di dirlo!- ha potuto riempire per un giorno le pagine dei quotidiani ed i video di fiumi di spumeggiante retorica sulla "fine di un incubo", ci si è subito dovuti apertamente interrogare sul senso e le prospettive di questa stessa pace e le conclusioni non sono state confortanti: potrebbe essere, si è detto, una delle tante paci "libanesi", scritte sulla carta, ma inoperante nei fatti. Sì, con un’aggravante decisiva nei confronti del Libano: che qui non abbiamo solo delle bande locali operanti "in proprio", con gli imperialisti dietro le quinte a muovere le proprie pedine o a sfruttarne, comunque, le mosse, ma uno stato di occupazione militare diretta del territorio in cui tutte le varie potenze imperialiste sono schierate in quanto contendenti del campo contro ogni velleità di relativa autonomia dell’elemento locale (a cominciare dalle "bande", e per finire col vero pericolo che incombe, quello di una ripresa di autonomia nazionale di classe del proletariato jugoslavo) e l’un contro l’altra armate.

Per magnificare le sorti future che attenderebbero le popolazioni jugoslave si evoca l’altro caso di pace sotto mano, quello medio-orientale, dove, stando alla retorica ufficiale, oramai palestinesi ed israeliani sono destinati a pacificamente convivere. E non si vedono (dalla "sinistra" non si vuol vedere, soprattutto) la beffa che sta dietro questo paragone. Primo: per noi è assodato che la relativissima conquista di una qualche forma di autonomia costituzionale da parte dei palestinesi è stata, in primo luogo, il frutto di una propria battaglia pluridecennale contro il sionismo e l’imperialismo (lasciando qui stare il discorso sull’inconcludenza delle direzioni palestinesi) e giammai il "regalo" di qualcuno. Secondo: questa conquista non porta, in nessun modo, ad una vera e pacifica sistemazione dell’area, ma rilancia la questione -nazionale e sociale- ad un gradino più alto di scontro, allargandone i confini -già estesi-, come, ad esempio, s’è inteso, a titolo d’anticipo, da certi igienici attentati in Arabia Saudita. Infine, particolare non trascurabile: un intervento diretto della "polizia di pace" imperialista sarebbe, al momento, del tutto impossibile (ed, allorché dovesse verificarsi, ci troveremmo direttamente in uno stato di guerra in cui essa apparirebbe alle popolazioni sfruttate come un obiettivo da colpire), il che, disgraziatamente, non accade nella ex-Jugoslavia, dato il decorso degli avvenimenti precedenti.

Nel territorio della ex-Jugoslavia, di conseguenza, gli appetiti imperialisti hanno modo di svolgersi attualmente in modo incontrollato, senza dover tenere in conto una già definita forza di resistenza anti-imperialista e, su queste basi, l’esplodere all’immediato delle contraddizioni derivanti da un "processo di pace" per sua natura conflittuale. E, ad evitare che queste contraddizioni comunque abbiano a deflagrare, sarà condizione d’obbligo lavorare contro ogni tentativo di riunificazione classista delle popolazioni locali, non solo mantenendo intatte tutte le ragioni di divisione in atto tra di esse, ma a crearne di sempre nuove: il controllo imperialista di "pace" ha naturalmente bisogno di tenere accesi i conflitti e crearne di continuo degli altri per mantenersi in piedi.

Non occorrono molte altre parole, dopo tutte quelle che abbiamo spese in passato, per mettere a nudo il tragico ridicolo dell’attuale sistemazione territoriale della Bosnia e delle forme costituzionali in cui essa dovrebbe concretarsi. Un paese "unitario" e, al tempo stesso, cantonizzato, dove le varie etnie vengono messe contemporaneamente insieme, tenute divise e portate inevitabilmente a collidere l’una contro l’altra è un mostro da laboratorio rispetto al quale sarebbe stata senz’altro preferibile (oltretutto perché meno costosa dal punto di vista umano) una sistemazione definita sul campo di guerra, col sangue scorrente a fiotti in luogo di un suo interminabile prelievo quotidiano, come sarà nel futuro che si apre.

Solo degli inguaribili e cinici bugiardi possono cianciare di una Bosnia unitaria e pacifica quando, di fatto, si permette alla Croazia di annettersi l’Erzegovina e si schiacciano ulteriormente i serbi in un angolo, staccandoli dal loro retroterra nazionale della Serbia con un feroce cordone sanitario garantito dalla carogna Milosevic in cambio di un piatto di lenticchie. Quando, come prima misura di "pace", si toglie anche l’embargo formale all’acquisto di armi da parte..., da parte di chi?, dei contendenti che si vorrebbero pacificati ed ai quali, con sapiente dosaggio, si provvede sin d’ora a scaldare i muscoli per i conflitti a venire, più che mai a regia imperialistica. Quando (ma non ci ritorniamo sopra ancora) altri focolai di guerra vengono ovunque accesi nell’area balcanica grazie al controllo, talora indiretto, ma sempre più tendenzialmente diretto, delle "zone calde" (dalla Macedonia all’Albania, dall’Ungheria alla Romania e via dicendo...).

In quest’operazione di preparazione bellica premeditata e continua, solo dei ciechi non riuscirebbero a vedere poi l’aspetto preminente di essa: la lotta per l’egemonia economico-militare non nella ex-Jugoslavia semplicemente e neppure nella sola area balcanica, bensì mondiale (nel senso che nel mirino è direttamente tutto l’Est europeo e, connesso a ciò, il quadro geo-politico planetario) che l’imperialismo si gioca sulla carne viva dei popoli jugoslavi (in attesa che nel vortice del massacro siano trascinati ben altri popoli!). L’apparente unanimità d’intenti con cui tutte le parti imperialistiche concordano di venire "assieme" in Bosnia per assicurare la pace non rappresenta, sotto questo aspetto, nulla di nuovo rispetto agli esempi trascorsi di "comune arbitrato" e "cooperazione per la pace" tra di esse, per chi almeno si ricorda i balletti -di "pace", sempre!- tra Germania nazista, Italia fascista, USA, Francia ed Inghilterra democratiche ed URSS socialista. Ci vuole la stolidità di un nostro PDS per scambiare delle belve affamate che si avventano su un’unica preda da azzannare come segno di un comune disegno di concordia: ecco, vedete, stanno lavorando assieme, e state sicuri che la preda sarà da esse amorevolmente curata; non sono lì per questo?

Il quadro dipinto dalle potenze occidentali è talmente avvelenato che non in contrasto, ma in diretto rapporto con esso la situazione spesso tende a sfuggire di mano ai suoi artefici. Così, in una Mostar cento volte più colpita che la Sarajevo in cui Benetton poteva tranquillamente aprire i suoi negozi in piena guerra accade che gli stessi tedeschi debbano tirar le orecchie ai loro inquieti servitorelli croati. O che in Serbia circoli una polizia mista croato-mussulmano-turca (avete letto bene!), in grado di suscitare qualche preoccupazione in più all’Occidente quando non si tratti solo di ripulire le "tane serbe". Oppure ancora la presenza, giorno dopo giorno più inquietante, nel paese di danaro, politici, truppe armate dei paesi mussulmani... E non siamo che agli inizi.

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Sempre (e più che mai) contro il proletariato

Si è imposta la "pace" al momento e nei modi giusti, stando agli interessi borghesi.

La guerra jugoslava, scatenata su commissione dalle locali micro-borghesie, nazionaliste, stava giungendo ad una svolta. Le popolazioni locali, che l’avevano subita, stavano in essa soppesando ragionevolmente le responsabilità dei suoi artefici, dissociandosene sempre più apertamente e massicciamente. Per che cosa ci hanno fatto combattere? E con che prospettive? Questo l’interrogativo che premeva e stava portando ad una più cosciente rimessa in causa delle "ragioni" della guerra stessa. Tudjman veniva delegittimato in casa sua proprio al culmine dei suoi exploit bellici ed al massimo di esaltazione dei furori nazionalistici. Izetbegovic non era più riconosciuto da nessuno in Bosnia come proprio capo di stato (e non a caso, qui, si registrava il massimo delle diserzioni e del sabotaggio della strombazzata "causa nazionale"). Gli stessi serbi dovevano rendersi conto di essere usati come carne da macello dal proprio "fratello" Milosevic e persino dai propri kapataz locali (vedi l’esempio della Krajna, scientemente abbandonata senza un accenno di resistenza organizzata da parte delle milizie consociate con Karadzic). Al tempo stesso, sempre più chiaramente era visibile la presa di possesso dei relativi territori "indipendenti" da parte di forze di occupazione straniere (ciò che per il popolo jugoslavo, di fiere tradizioni indipendentiste nazionali, è una pugnalata al cuore). E, in connessione con tutto ciò, stava crescendo la rete di una risposta all’insensato massacro inter-etnico ed allo stato di occupazione del paese da parte di nuove forze organizzate, per necessità di cose jugoslaviste in prima, e necessaria, istanza.

Tutto ciò doveva ben preoccupare le cancellerie occidentali: il pericolo era non che la guerra continuasse, ma potesse realmente finire con la presentazione, da parte del popolo jugoslavo, dei conti ad essa relativi ai responsabili di essa, locali ed esterni. Di qui l’urgenza della "pace".

Il calcolo si è rilevato esatto. Ci dicono dall’interno che di fronte allo stillicidio continuo dei massacri precedenti ed in assenza di un quadro ben definito di riorganizzazione in proprio, le popolazioni della Bosnia si sono rassegnate, in qualche modo, a considerare l’intervento di "pace" occidentale come un’occasione favorevole per fermare la carneficina. Il ripudio delle "proprie" micro-borghesie non si è, perciò, immediatamente esteso nei confronti delle nuove truppe di occupazione. Ed anche questo è perfettamente comprensibile, per quanto doloroso.

Ma di sicuro le cose non si fermeranno qui. Al contrario. Anche noi siamo, in certo qual modo, contenti che il conflitto si sia provvisoriamente fermato. Per ragioni diametralmente opposte a quelle di tutti gli altri. In questo stadio di sospensione del conflitto noi crediamo che sarà possibile agli sfruttati jugoslavi riprendere più agevolmente fiato. In primo luogo: per completare il conto da presentare alle dirigenze locali quanto alla guerra "passata" ed alle rovinose condizioni di "pace" presenti. Poi: per ritessere le proprie fila, coerentemente con ciò, nel senso di un superamento delle assurde linee di divisione inter-etnica a cui gli si era costretti. In terzo luogo: per poter meglio misurare sino a che punto le forze militari qui inviate dall’estero fungano da forze di occupazione più ancora in tempo di pace che in tempo di guerra.

Se veramente l’Occidente si trovasse nella volontà e nella possibilità di riparare ai guasti prodotti dalla guerra in modo soddisfacente per le locali popolazioni tutte le nostre previsioni andrebbero a pallino.

Ma realtà vuole non solo, come si è detto, che questa "pace" altro non è se non un intermezzo di preparazione a nuovi conflitti, bensì anche che la sua stessa gestione in termini di ricostruzione e rilancio economico è destinata a far esplodere una somma di ulteriori contraddizioni che gioveranno a mettere con maggior precisione l’Occidente nel mirino delle masse sfruttate jugoslave.

Alla "ricostruzione" della Bosnia ci si accinge, infatti, né potrebbe essere diversamente, con procedimenti che a tutto assomigliano fuorché ad una gara di beneficenza da parte dell’Occidente. Cominciamo dai preventivati costi materiali "a fondo perso". Per rimettere in sesto il paese, si è calcolato, ci vorrebbero quasi 20.000 miliardi di lire (molto meno, come si vede, di quel che De Mita ci ha messo di suo per ricostruire l’Irpinia). Ebbene: la Banca Mondiale è disposta, teoricamente, a stanziarne non più di 3. Teoricamente, diciamo, perché nessuno stato occidentale è disposto a fare in questo la parte del leone, e gli USA, tanto per cominciare, si dimostrano disposti a sborsare non più di 700 milioni di dollari, mentre la Gran Bretagna ne promette 200 (dopo averne speso -si badi bene!- 700 per le operazioni di guerra, o pace che dir si voglia).

Contemporaneamente, però, c’è l’arrembaggio all’acquisizione delle locali industrie da "riassestare", e qui si evidenzia al meglio la bontà d’animo dei circoli economici occidentali. Racconta un imprenditore italiano (Il Mondo, 11-18 dicembre): "In Bosnia praticamente ti regalano le fabbriche. Solo che bisogna anche accollarsi gli operai che vi lavorano, in media una trentina"; i quali, per altro, "sono bravi e preparati. Costano meno di quelli italiani". Avete capito l’antifona? Il capitale occidentale si dimostra disposto -al massimo (perché anche su questo ci sono delle contrattazioni da fare per ottenere degli sconti)- ad "accollarsi" una manodopera capace ed a basso costo in cambio del semplice regalo delle fabbriche. Un "sacrificio" che si potrà fare, a condizione di poterlo scaricare in termini occupazionali in casa propria (e qui si vede come le questioni jugoslave siano materia su cui il nostro proletariato dovrebbe avere un qualche occhio di riguardo, non fosse che per motivi di proprio tornaconto!). Proprio questo: ci sarà una corsa all’accaparramento a costo zero dell’industria bosniaca nelle sue punte più avanzate per depredarla, per spremere sino all’osso la manodopera locale, per farla pesare in concorrenza con quella delle metropoli. Ci troviamo o no in un’economia mondializzata? Fesso l’operaio che non se ne è ancora accorto!

E non si tratta solo dell’industria tradizionale. Nella guerra la più colpita è stata l’agricoltura, con annesso allevamento di bestiame e risorse forestali. Si tratta ora, da parte dei vincitori (che non stanno di casa in Bosnia) di metter le mani su queste risorse, particolarmente appetibili. Lo si farà contribuendo ad espellere dall’occupazione una buona fetta di contadiname superfluo, concentrando le risorse in poche mani moderne. Con ciò, a parte la spoliazione del ricco polmone agrario del paese, si intaseranno le città di declassati, spostati, aspiranti ad un lavoro salariato purchessia e comunque pagato (in concorrenza persino con i già occupati a bassi salari) o destinati ad ingrossare le file del lumpen-proletariat. Uno sconvolgimento sociale di dimensioni colossali, di cui nessuno parla, che spezzerà definitivamente il relativo equilibrio della precedente struttura economica, per metà industriale-artigianale per metà agricola, con l’agricoltura a fungere da cassa di compensazione del settore secondario nel quadro di una società tuttora intrisa di elementi comunitari grande-familiari, "tribali" tipici del mondo slavo. Una bomba ad orologeria, di cui nessuno parla, ma che, coi suoi orrori, contribuirà anche a spezzare quanto si opponeva sin qui all’esplodere netto del conflitto sociale; e lo farà con amare sorprese per il capitalismo predone locale e dell’Occidente!

E’ quasi superfluo, poi, parlare delle operazioni con cui l’alta finanza di qui si attrezza a controllare il paese. "Che la finanza tedesca controlli i Balcani, come buona parte dell’Europa orientale, è un dato scontato", scrive sempre Il Mondo. Tanto che dopo aver costretto Belgrado in un angolo, la Deutsche Bank vi sbarca ora per acquisizioni "riparatrici" di banche serbe. Il "pan-serbo" Milosevic, dopo aver reso le armi, è costretto a consegnare anche il portafogli!

Ed ancora: la "sana", patriarcale società bosniaca, in particolare, sarà rapidamente trasformata, sotto le cure vigili degli occupanti, in un crocevia per il commercio della droga, oltre che delle armi, ed in un immenso lupanare. Izetbegovic si è lamentato per le immagini di Sarajevo trasmesse a fine anno in mondovisione. Eh già, quel che si vedeva di Sarajevo città aperta era platealmente proprio l’affiorare di questo immondezzaio di cui egli è responsabile principe. Solo che da buon cane da guardia vorrebbe almeno, come fanno i cani dabbene, nasconderne gli escrementi!

Questo il quadro fosco della "pace" nei Balcani. E noi siamo certi che i materiali incendiari che in esso si accumulano non stenteranno ad esplodere al momento opportuno contro le aspettative di chi è chiamato a governare la situazione. Dicevamo in apertura: non ce l’aspettiamo per domani mattina. Ci rendiamo perfettamente conto di quanto la calda protezione di cui il proletariato jugoslavo ha goduto sotto il regime titoista lo abbia deprivato nel tempo di una sua capacità di azione autonoma; di come, persa questa capacità, esso abbia subito senza trovarsi all’altezza di reagire vittoriosamente, alle guerre e guerricciole "nazionali" scatenate nel paese; di come il fossato scavato tra le diverse etnie dal conflitto sia destinato a pesare in profondità per il futuro. Nonostante ciò, questi ritardi sono un nulla di fronte ad una realtà, come quella attuale, che chiama da ogni suo poro a riprendere in mano le armi della lotta. Lo sono a tal punto che, come più volte abbiamo motivato in precedenza, la battaglia di domani non potrà neppure più richiamarsi all’esempio (glorioso, da un punto di vista democratico, nazional-borghese) del titoismo, checché ne pensino le avanguardie jugoslaviste già in campo.

Si dovrà andare oltre quell’orizzonte. E ci si andrà!


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