[che fare 37]  [fine pagina]

Italia

A quando una prima reazione di classe al federalismo?


Tra i compagni che guardano al nostro lavoro più d’uno ritiene che il nostro allarme sulla presa crescente del leghismo nella società e nella classe operaia sia, almeno un pò, esagerato. E addirittura che rischi di distogliere l’attenzione dalla lotta al nemico principale: la destra del Polo delle libertà. Ci pare di poter replicare nel seguente modo.

Primo. I fatti dimostrano che la parte più cosciente della classe operaia e dei lavoratori ha saputo identificare nel fronte delle destre di An e Forza Italia il proprio avversario, seppure senza andare fino in fondo, anzi senza arrivare neppure a metà, nella lotta contro di esso.

Gli stessi dati di fatto indicano, purtroppo, che la Lega di Bossi gode invece di un non passeggero credito operaio, tant’è che D’Alema, per giustificarne (e aumentarne) la credibilità come potenziale alleato, ne ha parlato come del primo partito "operaio" del Nord (lo è, quanto a seguito elettorale, anche all’Alfa di Arese, fabbrica seconda a nessuna per combattività). E la delusione per le sconfitte patite nelle più importanti battaglie unitarie fin qui date dalla classe (scala mobile, occupazione, pensioni etc.), sta rafforzando la tendenza a ripiegare, soprattutto al Nord, verso illusorie ipotesi di difesa localistica, federalista delle proprie condizioni.

Secondo. Mentre le direzioni della "sinistra", nonostante la corsa alle "larghe intese", continuano ad opporre una qualche resistenza e qualche distinguo (benché sempre più evanescenti) nei confronti del liberismo selvaggio e di ciò che ha puzza marcia di neo-fascismo, sono invece impegnate esse stesse in prima persona a diffondere il non meno anti-operaio verbo federalista, a convincere i lavoratori che la ristrutturazione federalista dello stato è una buona opportunità per tutti (dà più potere ai "cittadini", più controllo sulla spesa pubblica, più efficienza, e via prendendosi, e prendendo per fessi). Rinverdendo così una lunga tradizione autonomistica e federalista della "sinistra" (anche "rivoluzionaria"), e smembrando criminalmente lungo linee regionaliste e municipaliste l’organizzazione della classe.

A loro volta, Bossi e C., ben più delle altre due destre (per ora), sanno toccare corde sensibili ai loro interlocutori operai della Padana quando collegano l’agitazione anti-meridionalista a quella contro il "fascismo" e la "mafia", prodotti universali del capitalismo, truffaldinamente spacciati come "specialità" del Sud esportate al Nord.

Terzo. In quattro-cinque anni il leghismo, proprio perché non ha ricevuto alcuna seria azione di contrasto né dal grande capitale, né dalla classe operaia, mentre è stato inesaustamente alimentato dalla piccola-media borghesia padana (e primariamente dal mercato), ha avuto un’eccezionale diffusione. Siamo arrivati al "perché non possiamo non dirci federalisti", da Pino Rauti a Fausto Bertinotti! Ogni giorno ce n’è una nuova. Da ultimo è sceso in campo, mancava solo lui, il card. Martini per dire: no alla secessione, ma sì al federalismo, sì al federalismo fiscale anti-assistenzialista, sì alla competenza delle regioni in politica estera, sì alle regioni transfrontaliere, etc. Insomma: un programma "anti-secessionista" in tutto e per tutto leghista e pre-secessionista, subissato da lodi universali, dal Gazzettino al Manifesto, che l’ha trovato "audace"(?).

Un altro "nuovo" sviluppo dell’infezione è il prender piede del federalismo anche al Sud, di cui parliamo in un articolo a sé.

Quarto. Vi è stata in questi anni una trasformazione qualitativa del leghismo nordista che ne ha radicalizzato le sue due più carognesche varianti: l’autonomismo localistico (con crescenti tensioni e dispute all’interno stesso del nord, tra nord-Est e Milano, all’interno dei blocchi di regioni, delle regioni singole etc.) ed il secessionismo.

Il secessionismo, fino a pochi mesi fa trattato dalla grande stampa come una barzelletta che si racconta in osteria tra buontemponi, ha preso tale consistenza da esser definito dal Corsera "una possibilità non remota", una possibilità (sbandierata anche in Parlamento) di cui si discute in termini politici, alla stessa stregua che ieri si discuteva di federalismo. D’altronde, nel giro di poche settimane, abbiam visto in successione realizzati o evocati un parlamento del Nord, una chiesa del nord, una magistratura del nord, una burocrazia del nord (con primo corteo a sostegno a Mantova), e infine una milizia del nord. Una catena di scherzi di carnevale? Nessuno osa dirlo. E per intanto il segretario dell’ONU è stato avvertito che il "popolo della Padania" è intenzionato a salvaguardare il suo "diritto alla auto-determinazione"... E' il passo d’avvio, per il momento felpato, della internazionalizzazione del problema.

Quinto. E’ sempre più trasparente che grandi potenze che qualcosina contano, come gli USA e la Germania, non sono affatto spettatrici disinteressate dei processi di jugoslavizzazione della situazione italiana. Il Center for strategic and international studies di Washington, legato al complesso militare-industriale degli Stati Uniti, s’è detto certo che prima del 2010 esisterà una nazione denominata Nord Italia, e che il confine dell’Austria passerà a Sud delle Alpi inglobando il Sud-Tirolo. Non dev’essere fantapolitica se uno Scalfaro, per solito di curiale prudenza, s’è sentito in dovere di mettere in guardia la provincia interessata, il Trentino tutto, e l’Austria!, dal procedere in questa direzione (nel frattempo si legge di un esercito pan-tirolese composto di 25.000 uomini, che conterebbe a Bolzano 140 compagnie...). Per parte sua, la Germania entra in modo sempre più attivo nella vita finanziaria e politica italiana. E la Svizzera fa da mesi esercitazioni militari prevedendo improvvisi flussi migratori dall’Italia in caso di violente tensioni secessioniste.

Solo a sinistra, e tra i militanti "comunisti", si dorme come i ghiri, non di rado dedicando il 99% del proprio impegno e della propria attenzione con un angusto federalismo di fatto, alla propria città, circolo o comitato. Raccontandosi poi con involontaria ironia che questa è l’era della mondializzazione...

Sesto (certo non ultimo per importanza). Come abbiamo ripetuto anche nel n. 36 del giornale, a dar forza alle spinte federaliste e secessioniste, a scala mondiale (non solo italiana: vedi Belgio, Canada, etc.), è il mercato stesso. Sia perché la crisi determina tra i capitalisti una sorta di "si salvi chi può" generalizzato (e cieco, soprattutto tra i piccoli). Sia perché il salto avvenuto nel processo di mondializzazione (di centralizzazione del capitale) da un lato ha approfondito le diseguaglianze di sviluppo, e dall’altro la capacità dei capitali e degli stati più forti di sfruttarle "razionalmente" centralizzando a sé i più piccoli.

Per tutti questi motivi non crediamo di esagerare quando diciamo: è tempo di reagire al morbo federalista che sta corrodendo pericolosamente il tessuto materiale, organizzativo e "ideale" unitario del proletariato! La lotta alla destra leghista dev’essere tutt’uno con la lotta al liberismo e al "neo-fascismo", con la lotta al sistema capitalistico.


[che fare 37]  [inizio pagina]