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Questione zingari

Da alcuni anni si moltiplicano le manifestazioni di insofferenza dei settori più disparati della società per la presenza dei campi nomadi nelle periferie delle città italiane. E’ emersa così una "questione zingari", che pone alcuni problemi anche alla classe operaia ed ai comunisti.

Risalire alle origini storiche degli zingari ci porterebbe lontano. Limitiamoci a dire, perciò, quel che sono diventati oggi: unioni tribali girovaghe che hanno vista stritolata dal capitalismo la base materiale della loro esistenza (alcuni mestieri pre-artigianali), che non hanno accettato però- di diventare dei salariati, e che quindi sopravvivono in una condizione di marginalità forzatamente sotto-proletaria. Si tratta dunque di vittime del capitalismo.

E' perciò da rifiutare e da combattere frontalmente l’operazione politica della destra (puntualmente dietro tutte le manifestazioni) che scarica sugli zingari la colpa della loro non invidiabile condizione. E che -secondo un vecchio copione della reazione- fomenta la guerra tra oppressi, indirizzando lo scontento degli abitanti, spesso proletari, delle periferie degradate non contro i veri responsabili del degrado dei loro quartieri e della loro vita (il capitalismo in quanto tale, il governo, gli amministratori, etc.), ma verso chi, come gli zingari, non ne ha alcuna responsabilità. Ciò che ha effetti negativi sia su questi ultimi, sia sul tessuto organizzativo e l’identità della classe proletaria.

Il nostro odio di classe militante verso una simile operazione non deve, però, impedirci di vedere che l’iniziativa della destra fa leva su un disagio reale, che non è frutto soltanto di un reazionario perbenismo intollerante. E’ evidente, infatti, che la presenza di campi nomadi, divenuti oggi dei piccoli focolai di micro-criminalità, se non dei veri e propri lager con annessi e connessi, finisce per accrescere i problemi di quartieri già malandati e, d’altra parte, senza "valorizzare" alcunché di una "cultura zingara" agonizzante, finisce per confinare fuori da ogni alveo sociale queste sacche di disperati senza prospettiva alcuna.

Se questo è vero, allora, proporsi come fa la Chiesa e parte della "sinistra" di difendere e "mantenere vivi" la "cultura" e i "valori" degli zingari, non può che voler dire, al di là delle intenzioni, perpetuare una loro condizione di emarginazione e difendere l’esistenza di una "sotto-specie sociale" in decomposizione assicurandone solo l'ulteriore decomposizione. Noi riteniamo sbagliata -per quel che gli zingari sono divenuti oggi- questa chiusura preconcetta ad ogni ipotesi di "integrazione". Crediamo, invece, che proprio a questo si debba puntare: ad avviare una piena e totale integrazione nel tessuto produttivo e sociale di questi emarginati. Del resto, le poche esperienze storiche che in Russia e in Jugoslavia non li hanno ulteriormente ghettizzati sono andate proprio in questo senso, pur lasciando loro comunque una "autonomia culturale e associativa" e sollecitandoli a superare il tribalismo, il nomadismo, il pre-artigianesimo. Altro che campi di sosta o nomadi! (Diciamo, di passaggio, che diverso sarebbe il nostro approccio ove ci trovassimo di fronte alla "sopravvivenza" di vere, e anche solo parzialmente vitali, forme di organizzazione "comunistica" primitiva. Ma così non è.)

Dunque il nostro atteggiamento verso gli zingari non è ispirato alla commiserazione per i più "deboli", ma tende a portare questi oppressi sul terreno della lotta, della lotta unitaria con tutti gli altri oppressi contro tutte le cause di qualsiasi disagio sociale, contro la fonte di essi: la classe e il sistema capitalistico. E’ questo anche il solo terreno della possibile (non facile) ricomposizione tra i settori proletari che la destra vorrebbe -e talvolta riesce- a strumentalizzare e gli zingari stessi.

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