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Il leghismo avanza oltre la Lega

POLO E ULIVO INSEGUONO IL FEDERALISMO.
LA CLASSE OPERAIA DEVE COMBATTERLO CON FORZA.


Indice

 


Mentre tutte le forze politiche hanno messo al centro della loro iniziativa la conta elettorale -con tanto di desistenze e larghe intese- la Lega Nord ha imboccato una strada diversa, in certo senso "extra-parlamentare". Una scelta dettata non già dalla mancanza di possibili alleati, se è vero che è stata corteggiata da destra e da sinistra con offerte vantaggiosissime in termini di seggi elettorali. Ma Bossi non ha voluto saperne di allearsi né con l'Ulivo né con il Polo, preferendo la corsa solitaria al patteggiamento sulle posizioni. Più di qualcuno, soprattutto a sinistra, intontito dalla sbornia elettoralesca, considerata alfa e omega di ogni cambiamento possibile, ha scambiato questa scelta come il prodotto della mancanza di un progetto politico, senza rendersi conto che il partito Lega Nord ha una precisa strategia e che il quadro politico le apre prospettive molto promettenti.

Questo partito (è bene ricordarlo, ferocemente anti-operaio!) ha mostrato anche in questa occasione di avere le idee chiare su dove e come arrivare, e sulla necessità conseguente di essere un'organizzazione militante, capace di rafforzare il senso di appartenenza dei propri militanti, di "educarli" alla disciplina e alla lotta in funzione della realizzazione del proprio programma. Capacità che mancano del tutto ai partiti "operaio"-borghesi (Pds e Rc), di fronte ai quali Bossi fa la figura del "leninista". Ma, soprattutto, la Lega Nord ha mostrato di saper vedere (in funzione degli interessi di classe che rappresenta, ovviamente!), oltre l'immediato, oltre il calcolo puramente elettorale, lo scontro che si prospetta, e a questo prepara le sue truppe d'assalto. La soluzione di correre da sola alle elezioni -soluzione intermedia tra l'alleanza elettorale con l'Ulivo, definito come il rappresentante del grande capitale, e il non presentarsi affatto, forti del parlamento di Mantova che "legifera e controlla"- va in questa direzione. Si può rinunciare a una buona dose di parlamentari (scontrandosi con e anche perdendo i "moderati", che sono poi anche i figuri più attaccati alla poltrona) solo se si pensa che così ci si mette nelle condizioni migliori per piegare a proprio vantaggio le difficoltà cui andranno incontro i vincitori della conta elettorale; solo se si prevede a breve scadenza un ulteriore incasinamento della situazione politico-istituzionale, che inevitabilmente rilancerebbe con più forza il leghismo.

Il ragionamento di Bossi è semplice e stringente: quale dei due poli si affermi, si troverà di fronte una situazione economica e politica complicatissima e per questo sarà costretto a prendere misure che gli alieneranno non pochi consensi. Se vincerà la destra si potrebbe scatenare una nuova protesta sociale (come già col governo Berlusconi); se invece vinceranno Dini e l'Ulivo, le contraddizioni non saranno da meno, in quanto andrà in ogni caso approfondita l'offensiva anti-operaia del precedente governo "tecnico", con ricadute certe sulla possibilità di mantenere indefinitamente la pace sociale. Nel caso più probabile, poi, che dal voto non emerga un netto vincitore, la forza di ricatto dei lumbard ne risulterà ulteriormente accresciuta. Comunque vada sul piano elettorale, la funzione della Lega Nord è dunque destinata a crescere, potendo contare su quegli elementi oggettivi e soggettivi che spingono, con sempre maggiore radicalità, verso la radicalizzazione del leghismo.

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I fattori oggettivi della spinta leghista...

Non è un mistero per nessuno che il quadro economico italiano vede un divario crescente -sotto tutti i punti di vista: produttivo, infrastrutturale, occupazionale- tra Nord e Sud. La ripresina degli ultimi anni, trainata dall'export, ha accentuato questa vera e propria polarizzazione. A essa concorrono -è bene dirlo- un insieme di fattori storici e strutturali, che abbiamo esaminato nel Dossier del n. 29 del Che fare. La crisi e l'accresciuta concorrenza economica internazionale non solo li acuisce, ma può "improvvisamente" esasperarli fino al punto di non ritorno. Da un lato, infatti, un mercato mondiale, dagli equilibri sempre più instabili e dai rapporti sempre più tesi, sposta a scala amplificata risorse dalle zone più povere a quelle più ricche (e dal proletariato alla borghesia) all'interno degli stessi paesi economicamente più forti (e l'Italia è pur sempre tra questi). Dall'altro lato tende a disarticolare e lacerare le compagini meno in grado di reggere i nuovi, esasperati livelli dello scontro capitalistico, fino a metterne in discussione la stessa unità nazionale a favore degli stati più forti e concentrati. In questo modo si spiegano processi come quelli del Canada, Belgio, ecc. oltre, ovviamente, alla ex-Jugoslavia. E ciò spiega pure la crescente forza di attrazione che il capitale tedesco o quello americano esercitano, rispettivamente, sul Nord-Est e sul Sud dell'Italia.

In questo quadro si inseriscono (conseguenza e concausa a un tempo) le crescenti difficoltà del sistema politico italiano nel rispondere a tali problemi, difficoltà messe a nudo dalla mancanza in tutti i partiti di un programma complessivo e organico per il rilancio del capitalismo italiano (dentro e fuori i confini nazionali) contro i concorrenti-"alleati". Così le deficienze di lunga data dell'apparato statale nel sostenere e rilanciare il "sistema-Italia", diventano un forte handicap per quest'ultimo, e rischiano, anche, di farne perdere per strada pezzi importanti a favore dei vicini più potenti (v. il Nord-Est, divenuto quasi un indotto del grande capitale tedesco).

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...e le spinte soggettive.

La grande borghesia italiana, il grande capitale, corre, dunque, il serio rischio di trovarsi scavalcato dalla miopia del piccolo capitale, dei ceti medi, della piccola borghesia, sensibili -nel bailamme del "si salvi chi può"- ai richiami dei più concentrati capitali stranieri (che non si limitano, certo, a fungere da poli oggettivi di attrazione, ma dispiegano da tempo un'azione soggettiva mirata). Segnale di ciò è la palese incapacità di guidare e piegare ai propri fini la crescente attivizzazione a destra dei ceti intermedi, colpiti dalla crisi. Anzi, le concessioni fatte loro dalla grande borghesia -da ultimo, e non di poco conto, l'elezione del "piccolo" e "leghista" Fossa alla presidenza della Confindustria- ne stanno rinfocolando tutte le pretese.

Ben lo comprende Bossi, che non lesina espliciti e bellicosi attacchi al grande capitale, chiamato per nome e cognome (FIAT, Cuccia, ecc.), bollandone la presenza (di interessi, ma anche di rappresentanti in carne e ossa) nello stesso schieramento di centro-sinistra. Con ciò il leader della Lega mira anche ad attrarre la classe operaia del Nord alla prospettiva federalista-indipendentista, prospettandole la possibilità (fantasiosa) di una migliore salvaguardia dei propri interessi una volta recisi i legami con Roma "ladrona" e illudendola sulla coincidenza di interessi coi Brambilla padani contro la grande impresa. Se quest'ultima operazione ha dato finora scarsi risultati nel proletariato, è però, in prospettiva, pericolosissima, perché richiama una questione reale, cui dà una soluzione assolutamente illusoria, non vedendo dietro l'eventuale eclissi di Agnelli la presenza tutt'altro che rassicurante della Deutsche Bank. Ma tant'è. E' questa la prospettiva storicamente impotente delle classi intermedie nella società capitalistica: vendersi al miglior offerente (il grande capitale; del caso, non di casa propria) credendo di acquisire "autonomia" e "indipendenza". E la situazione è giunta al punto che il problema di Bossi è, semmai, quello di contenere e controllare le spinte autonomistiche, localistiche e centrifughe che si fanno sempre più forti nei confronti della stessa prospettiva della Padania indipendente (e che hanno trovato una prima manifestazione trasversale nel cosidetto partito del Nord-Est). Salvo il poterlo fare solo accentuando -e non frenando- il messaggio indipendentista e secessionista, che quelle spinte rinforza. E' ormai sotto gli occhi di tutti l'affermarsi di un leghismo oltre la Lega Nord, come lei espressione di ben determinate classi sociali: ceto medio accumulatore, commercianti, artigiani, lavoratori autonomi, professionisti. Questi settori, diffusi in tutte le forze politiche, premono non più solo sulla base di un sentimento "nordista" vieppiù diffuso, ma ormai anche con primi momenti di attivizzazione "spontanea" e militante contro uno stato considerato inutile ingombro allo sviluppo economico, esattore per conto di un Sud "assistito" e di un proletariato ancora troppo "garantito" e "protetto" nei confronti del libero svolgersi del mercato. La serrata e le manifestazioni di commercianti, artigiani e lavoratori autonomi a Torino e Milano danno solo una pallida idea della rabbia "leghista" e anti-operaia che covano in questi settori. Che siano FI e AN a cavalcare nell'occasione la tigre della protesta, nulla toglie al senso separatista che vi sta dietro; semmai conferma come il leghismo sia ormai trasversale a tutte le forze politiche, tanto è vero che sia Fini a Torino che Tremonti a Milano hanno sposato la richiesta di federalismo fiscale e istituzionale (Tremonti: "l'Ulivo è una pianta mediterranea con limiti geografici, che speriamo non arrivi al Nord").

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Reazioni nulle

Il vicino passaggio elettorale sta esaltando tutti gli ingredienti di questa miscela di forze, sempre più arrabbiate e in via di radicalizzazione, a misura che si sentono (e sono realmente) precarizzate, penalizzate e colpite, con l'incedere della crisi, dalla grande industria, dalla grande finanza, dalla grande distribuzione. Con esse è l'America che irrompe prepotentemente in Italia: l'America del reaganismo, della rivolta fiscale, della mobilitazione reazionaria di piazza, delle campagne anti-immigrati, in una parola del partito anti-proletario dell'ordine e della proprietà.

Il Polo blandisce, comprensibilmente, questi settori (altro discorso è se riuscirà a disciplinarli a un progetto sciovinista a scala nazionale o se ne subirà, invece, i contraccolpi in senso disgregatore). L'Ulivo (Rifondazione comunista compresa) corre loro dietro, promettendogli concessioni su concessioni (e già il tentativo di Maccanico per un governo di "grandi intese" prevedeva ulteriori misure di stampo federalista).

Per il proletariato sarebbe suicida imboccare questa strada che finirebbe con l'incoraggiare l'attivizzazione a destra di questi strati, che se attaccano il grande capitale, si mobilitano nei fatti a che i costi della crisi vengano scaricati da esso esclusivamente sui proletari. Per neutralizzare questa attivizzazione e attirare al nostro fronte parte delle mezze classi effettivamente rovinate dal capitalismo, il proletariato deve imboccare un'altra via: la ripresa di lotta e di autonomia di programma di classe, in netta e militante contrapposizione alle concessioni verso le mezze classi e ai cedimenti verso il grande capitale. In questo modo, sul terreno della lotta al capitalismo, è possibile "egemonizzare" quell'infinità di strati e ceti non proletari schiacciati dalla crisi, coagulandoli dietro l'unica prospettiva non illusoria di emancipazione. La lotta dell'autunno '94 contro Berlusconi e, con maggiore radicalità, quella dei lavoratori francesi di questo inverno, hanno iniziato a indicare concretamente i passaggi di questo percorso.

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Impotenza del solidarismo

A prescindere dei destini della Lega -peraltro, rosei- è incontestabile, dunque, che il leghismo ha fatto passi da gigante. Nella base sociale di cui è espressione e nelle forze politiche, anche in quelle che, in teoria, vorrebbero o dovrebbero contrastarlo. Federalisti, infatti, o comunque d'accordo a riformare lo stato in senso decentralizzatore-regionalistico, sono tutti i partiti. E il federalismo conduce diritto diritto alla divisione e all'indebolimento del proletariato, ma anche, a date condizioni (dalle quali l'Italia non è lontanissima), a uno sbocco jugoslavo. Non a caso il dibattito sul federalismo è andato a tal punto avanti (spinto dalla Lega o dal "partito dei sindaci", dal Polo o dall'Ulivo poco importa) che la stessa eventualità della secessione non è più considerata un tabù. Su una posizione apertamente "indipendentista" è schierata una minoranza, almeno per ora, della stessa (sotto)-borghesia del Nord, ma è, comunque, largamente diffusa (purtroppo anche tra i proletari) l'idea che il Nord avrebbe da guadagnarci "in termini puramente economici" dallo sganciamento della Padania. In maniera speculare, intanto, si va diffondendo e si rafforza una ipotesi del tutto simile anche al Sud.

E' questo il risultato dell'assenza di una vera azione di contrasto da parte della classe operaia, che ha lasciato agire i meccanismi "spontanei" del mercato, prima ancora che le spinte soggettive della piccola e media borghesia padana; e dei guasti provocati da una "sinistra", politica e sindacale, per la quale il federalismo è diventato il nuovo verbo. Né, d'altronde, il grande capitale italiano è stato in grado di contrastare pro domo sua questa linea di fuga. Secondo un sondaggio di Limes, nelle regioni settentrionali chi considera l'indipendenza del Nord un vantaggio dal punto di vista strettamente economico ormai è già maggioranza, con una presenza trasversale tra i vari partiti, perchè trasversale a essi è la base sociale della protesta leghista. Le perplessità riguarderebbero solo l'opportunità "morale" di abbandonare chi sta peggio; un mero problema di solidarietà. Ma, se qualcosa è considerato concretamente vantaggioso, gli ostacoli "morali" prima o poi si superano.

Una vera battaglia contro il leghismo non può essere fondata sul semplice "solidarismo" (senz'altro più degno della petizione secessionista, ma assolutamente inefficace alla bisogna) coniugato, oltre tutto, a una versione che si pretende soft della medesima ricetta federalista. Come il leghismo è questione non "geografica", ma di classe (di interessi borghesi), così una contro-risposta non può che essere in termini di classe. Solo mostrando come la prospettiva leghista -nella variante federalista come in quella secessionista- rappresenta non già un vantaggio, ma una perdita secca, una sconfitta per la nostra classe, e come tale va combattuta. Il federalismo spinto, infatti, esprime gli interessi della piccola e media borghesia padana (e dietro di essi del mercato, che centralizza i capitali più deboli verso quelli più forti) che tenta di spaccare il proletariato in due poli materialmente e politicamente sempre più distanti, in modo da meglio controllarlo e così scaricare su di esso i costi della crisi e dell'acuita concorrenza internazionale. Ma su chi debba pagare la crisi concordano tanto le mezze classi separatiste quanto la grande borghesia unitarista, cui un federalismo gestito centralmente e non minante l'unità nazionale servirebbe per sfruttare a proprio vantaggio la differenziazione di condizioni tra proletari del Sud e del Nord, secondo la vecchia, ma sempre valida politica, del divide et impera.

Che possa, poi, esistere un federalismo "solidale" (quello invocato da "sinistra") è una assoluta falsità. A parte il fatto che la crisi capitalistica sta tagliando ogni spazio a qualsiasi forma di "solidarismo" e di rilancio del welfare state, lo stesso federalismo "solidale" non viene richiamato per unire le varie parti d'Italia, e tanto meno per omogeneizzare la condizione operaia. Esso viene richiamato -e qui sta il punto- per far passare come utile a tutti una diversificazione , ancorchè "controllata", della condizione del proletariato, e dunque una frammentazione della sua organizzazione, che allungherebbe ulteriormente le distanze tra i proletari del Nord e quelli del Sud, col solo effetto di indebolirne l'unità materiale e politica. Anche sul terreno fiscale (reclamato da tutti, e , se possibile, da sinistra con ancor più forza: ricordate la "rivolta dei sindaci"?) il federalismo significherà -e già significa dopo le prime misure introdotte dalla Finanziaria di Dini- non un maggiore controllo e capacità decisionale dei "cittadini" sulla spesa, ma un taglio della spesa sociale, e in modo più pesante proprio là dove ci sarebbe maggiore bisogno di potenziarla. Dunque comporterà il togliere alle regioni più povere per dare alle più ricche e, contemporaneamente, lo spostare ricchezza dal proletariato alla borghesia.

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Non sottovalutare il pericolo leghista. Combatterlo con le armi di classe.

Tutte le questioni che il proletariato si trova di fronte, dal salario all'occupazione, alla guerra alle porte di casa, non sono problemi geografici, locali, e neppure principalmente problemi nazionali. In definitiva sono i problemi che ovunque (dalla Francia alla Germania, dall'Italia alla ex-Jugoslavia) gli vengono posti dal procedere stesso della crisi capitalistica. Sarebbe illusorio pensare di poter difendere in ambito localistico, federalista le proprie condizioni di classe. Un primo bilancio di questi anni di diffusione del federalismo (di fatto, e sempre più anche di diritto) non può che registrare quanto la classe operaia nel suo insieme ha perso terreno nella società e in fabbrica anche a misura che s'è indebolita la sua unità. Solo i momenti di lotta generale, unitaria, nazionale sono riusciti ad arginare questo processo di arretramento. Ma questa unità viene messa costantemente in discussione dall'azione soggettiva della borghesia (tanto quella secessionista che quella unitarista), nonché dallo stesso procedere oggettivo della crisi. Ne sanno qualcosa gli operai sloveni e croati che dalla frantumazione della ex-Jugoslavia hanno ottenuto non migliori ("europee", si diceva) condizioni di vita, ma, all'opposto, un drastico peggioramento materiale e un generale indebolimento politico. Il pericolo di una jugoslavizzazione della situazione italiana, della balcanizzazione del proletariato, è sempre più vivo.

In questo contesto la linea del minimo sforzo, del subire di fatto la deriva federalista, comporta per il proletariato il massimo danno. Non si può continuare a sottovalutare questo pericolo. Non si può continuare ad assistervi passivamente. Va data al contrario, e al più presto, una battaglia a fondo al pericolo leghista in tutte le sue varianti. Sul piano politico come su quello della difesa immediata, respingendo tutto ciò che mina l'unità materiale e politica della nostra classe. Non si può, infatti, rispondere all'offensiva capitalistica senza contrastare la differenziazione della condizione proletaria tra Nord e Sud, tra regioni, tra settori, tra aziende; senza battere le spinte localistiche e aziendaliste che vanno facendosi strada tra le nostre fila e nella stessa organizzazione sindacale; senza respingere la logica della compatibilità capitalistiche, della subordinazione dei nostri interessi al partito del mercato.

Si tratta di rimettere al centro della nostra azione l'obiettivo della più stretta unità del proletariato. Unità che non è semplice "solidarietà" tra soggetti che restano diversi, ma è piena identità di interessi di classe. Solo a queste condizioni potremo rilanciare la prospettiva di una battaglia coerentemente anti-capitalistica, per il socialismo, che sola può rafforzare oggi la stessa lotta immediata di difesa.


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