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Speciale elezioni

Di Pietro: l'importante non è partecipare
(alle elezioni), ma vincere (i ministeri).


Tra Ulivo e Polo c’è un navigatore "intermedio", che s'accosta all’una o all’altra riva facendo le mosse d'approdarvi, e poi se ne discosta.
Questo navigatore non ha partecipato alla gara elettorale, non è stato eletto, ma parrebbe comunque essenziale a fare il risultato ed entrambi i poli (o loro parti) se lo rimirano e coccolano da sempre.
Parliamo di Di Pietro, naturalmente, anche se non è l'unica anomalia dell'attuale tavolo da gioco, al quale il più onesto è un baro matricolato.
Cosa significa questa interscambiabilità di schieramenti?
Significa che i giochi elettorali attuali, se bene hanno sancito la vittoria "onnipolare" della borghesia, con l’espunzione di fatto di qualsiasi residuo proletario, di classe, in grado di contare qualcosa per davvero, non hanno in alcun modo portato alla costituzione di un vero direttorio borghese provvisto di una linea e di una forza decisive per affrontare le sfide che incombono.

Acutamente Sergio Romano annota: "In condizioni normali quale partito, in un Paese che ha appena votato, tratterebbe da pari a pari con un uomo che è, elettoralmente, nessuno? Ma le condizioni dell’Italia, evidentemente, non sono normali" (La Stampa, 28 aprile). Nessuno dei contendenti, scrive Romano, ha veramente e pienamente vinto; non c’è una leadership riconoscibile né a destra né a sinistra; da ciò instabilità e giochi sotterranei, o meno, per spostare post-elettoralmente le pedine necessarie a far riquadrare i conti. E, in questa situazione, "l’incognita Di Pietro assume, per la soluzione dell’equazione italiana, un’importanza determinante. Anche se gli italiani hanno votato destra, sinistra o Lega, una parte dei loro voti appartiene al vecchio procuratore di Milano. C’è un partito trasversale, suddiviso tra le diverse forze politiche, che è potenzialmente suo. Il risultato è un supplemento di elezioni a urne chiuse, in cui ciascuna delle due maggiori forze politiche cerca di conquistare quella parte dei voti di Di Pietro che è andata all’avversario".

Lo sappiamo: i coefficienti reali delle scelte elettorali stanno fuori delle presunte regole del gioco, e il "popolo" che deposita la scheda nell’urna lo fa sempre dal loggione da cui è chiamato ad assistere ad una rappresentazione su cui non ha potere effettivo. Le condizioni anormali dell’Italia non consistono in ciò, ma nella mancata maturazione di un efficiente, unitario schieramento borghese, nonostante che "a ben analizzare il risultato delle elezioni, si scopra che in termini di voti gli italiani (come dimostrano il trionfo della Lega e il successo di Dini) pendano più verso il centrodestra che in direzione del centrosinistra" (Mieli sul Corriere del 23.4). La barra vira a centro-destra, anche nell’Ulivo, ma un partito corrispondente al "pendere" degli italiani, dotato di linea e nerbo necessari, ancora non c'è. Questo il problema da risolvere.

Nella presente situazione di pantano, è naturale che le forze borghesi in campo giochino a spostare degli equilibri rimestando la melma in superficie. Ciò dà la misura di alcune cose che vanno ben al di là delle "regole elettorali". Primo: esiste, per la borghesia, il problema, segnalato nel ’94 da Berlusconi, di concentrare e centralizzare le proprie forze con una virata a destra su cui già esiste un consenso antiproletario di massa. Secondo: per quanto tutti i sensori facciano presagire l’approssimarsi di scontri sociali di ampia portata, il fatto di poter godere della sostanziale assenza politica del proletariato e di una non sfavorevole congiuntura economica (solidamente fondata sulle... sabbie mobili), porta una buona fetta di borghesia ad immaginarsi la scalata al "risanamento" che ci aspetta piuttosto come ad una passeggiata, e a rincorrere il consenso passivo del proletariato alle misure che gli si dovranno imporre piuttosto che a sfidarlo in campo aperto. Terzo: proprio perché la controparte se ne sta buona a cuccia, nessun incentivo esterno viene a essa per mutare rotta. Di qui gli "aggiustamenti" tutti interni ai due poli maggiori, e tutti in chiave parlamentare (o, se volete, persino extraparlamentare: solo che il trasformismo è, per definizione, una vecchia prassi parlamentare, particolarmente ricca di glorie per quel che riguarda l’Italia!).
L’operazione Di Pietro non esce, per ora, da quest’ambito, ma non per questo è meno insidiosa.
Coiro, militante storico di Magistratura Democratica (La Stampa, 5.5), la canta giusta: "Le rivoluzioni non le fanno i magistrati. Quanto agli effetti, sembrano più quelli di una congiura di palazzo... Altro che rivoluzione! Si rischia il Termidoro senza aver avuto i giacobini. (..) Se un equilibrio di potere ha dovuto lasciare il campo, non è cambiato nulla nell’ordinamento, e assai poco nei meccanismi di selezione della classe politica. Né tanto meno si è modificato l’equilibrio di forze economiche che di quel potere corrotto era connivente".

Proprio così. Gli assetti strutturali sono rimasti gli stessi (dacché la loro "modifica" può discendere solo dai risultati di uno scontro di forze -di classe-) e, quindi, sono rimasti immutati i meccanismi del potere e della cosiddetta "corruzione" (cioè del funzionamento normale del sistema capitalista). Contemporaneamente, il gioco di "mani pulite" ha contribuito, complice la "sinistra", a deprimere ulteriormente i coefficienti di battaglia del proletariato, mettendolo a rimorchio di questa "congiura di palazzo", che sa molto di 25 luglio, per rafforzare un esecutivo "termidoriano" dalle mani libere per fare le cose (antiproletarissime) che si debbono fare a pro’ del capitale. Già: le rivoluzioni non le fanno i giudici; ma essi, servitori leali del sistema, possono ben portare avanti la controrivoluzione se il soggetto reale della rivoluzione viene a mancare...

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