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COLLETTIVO E INDIVIDUO
NELLA VITA DI PARTITO


Indice

Il largo spazio che in questo numero dobbiamo al quadro che si delinea (su un piano tutt’altro che puramente o principalmente parlamentare) a partire dai risultati elettorali ci costringe anche stavolta a rimandare la pubblicazione della seconda parte dell’inserto sulla questione del partito, che troverà senz’altro posto nel prossimo numero.

In un certo senso, questo intoppo presenta anche dei vantaggi.

Lo scopo che ci prefiggevamo con l’inserto teorico era duplice: da un lato presentare un materiale su cui l’insieme della nostra organizzazione è chiamata a lavorare in profondità (cosa che essa sta ovviamente facendo), dall’altro "tastare" i nostri lettori, cogliere le loro osservazioni, in tutte le direzioni (richieste di chiarimento, approfondimento, critiche anche...) perché il nostro lavoro possa riuscire il più corrispondente possibile alla comprensione ed ai bisogni del nostro "pubblico".

Nessun testo marxista nasce utilmente al di fuori di un simile rapporto coi compagni vivi e reali a cui si dirige per condurre avanti la propria battaglia.

Per questo il ritardo nella pubblicazione della seconda e delle successive parti va colto non solo come un intoppo per ragioni di "forza maggiore", ma come risultato dell’attenzione che dobbiamo e vogliamo prestare a chi ci legge (ed anche ai nostri stessi compagni organizzati che su questo documento stanno lavorando sodo per farlo proprio innanzitutto e sino in fondo, per meglio definirlo, per portarne il contenuto militante all’esterno).

Stiamo raccogliendo, perciò, tutti i dati che ci vengono forniti in questo senso e già prevediamo, a cappello della parte già pubblicata, di fornire nel prossimo numero le necessarie integrazioni -e questo come metodo- in vista di una successiva rifusione di tutto il materiale in un documento più definitivo e organico.

Invitiamo caldamente i nostri lettori abituali, ma anche, perché no?, quelli che di noi hanno una conoscenza più recente, o tuttora occasionale, a farci pervenire tempestivamente tutte le osservazioni e richieste che credono. (Si tranquillizzino certi nostri critici: non è un "referendum", una messa ai voti delle nostre posizioni, in seguito al quale potremmo mutare la natura del prodotto; noi stiamo ben fissi sul nostro terreno, da cui non decampiamo di un millimetro. Ma consideriamo questo come il terreno su cui altri sono chiamati a combattere: altri che dobbiamo convincere, ma anche ascoltare, da cui "persino" dobbiamo imparare certe cose, come mai ci vergogniamo di ripetere. E’ chiaro?)

Per favorire questo lavoro, tracciamo qui di seguito una sorta di schema di quanto andremo svolgendo nel secondo inserto sul tema-partito, dando per scontati gli inconvenienti derivanti da ogni riduzione in pillole di un discorso ben altrimenti complesso ed articolato.

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Caratteri della milizia comunista

E’ un principio fondamentale per il marxismo che il militante comunista non aderisce all’organizzazione in quanto individuo, e peggio "personalità", ma in quanto aderente alla propria classe, espressione collettiva di essa, in quanto membro dell’organo collettivo di direzione della classe che è il partito (e nulla cambia che, oggi, il partito tuttora non esista; esiste un’organizzazione strettamente orientata in tal senso e che meno che mai potrebbe rinunziare a questo suo modo collettivo di essere comportandosi, in attesa del partito "a venire", quale club di singole, indipendenti unità individuali).

Il concetto può esser difficile da esprimere, e digerire, dato il costume attuale d’intendere l’adesione alla militanza come una "libera scelta individuale", dopo di che ciascuno vi porta dentro quel che meglio individualmente crede in quanto "opinioni", disponibilità alla milizia (quella... finanziaria compresa) e preservandosi, sempre, il diritto di sentirsi e agire come "potere indipendente e sovrano", nell’organizzazione e al di fuori di essa, nel "proprio privato". Un partito come quello di Rifondazione può addirittura teorizzare e metter nero su bianco negli statuti tutto ciò richiamandosi ai sacri "principi della democrazia" e fissando, perciò, per principio tanto il valore "particolare" di questa o quella "tematica" rispetto all’unitarietà di teoria, programmi e organizzazione quanto, alla fine, i "diritti dei singoli" ad esserne sciolti.

Noi affermiamo che cotesta "democrazia" non è che il riflesso e l’agente della riduzione dell’organizzazione a specchio della società borghese, che si autorappresenta come composta da un’infinità di individui formalmente indipendenti (e in realtà al giogo del dominio delle leggi del capitale che li sovrastano e determinano, a cominciare proprio dall’ideologia, dal "libero pensiero").

Il comunismo e la sua organizzazione militante non nascono da un’insieme informe di "libere opinioni" ed attività, ma dalla comprensione scientifica delle leggi storiche oggettive che determinano le collettività sociali in campo ed il loro carattere antagonista; quindi: dalla necessità e capacità di agire in quanto forza collettiva necessariamente vincolata ad una coerenza centralizzata di teorie, programmi, organizzazione. All’essere collettivo della classe non si conviene una sua rappresentazione politica individualistica. Il problema è "filosofico", e perciò eminentemente pratico.

Questo riflesso dell’ideologia e dell’essere borghesi in seno ad organizzazioni che osano professarsi nominalmente comuniste è il portato di un lungo ciclo controrivoluzionario (che andrà analizzato a parte), nel corso del quale ed in seguito al quale il proletariato è stato non solo sconfitto dall’esterno, ma ha finito per infettarsi al proprio interno (nel proprio sangue e sin nelle ultime fibre del cervello) dei virus trasmessigli dal suo nemico storico di classe, smarrendo con ciò le ragioni stesse del proprio essere in quanto tale, in quanto cioè classe antagonista.

Rispondiamo con uno sberleffo a chi ci obietta di presentare un "modello" di organizzazione in cui si smarriscono le libertà individuali, una sorta di prigione in cui tutti sono costretti a pensare e agire allo stesso modo, secondo imposizioni esterne.

Non ricalcheremmo in ciò, a nostro modo, gli orrori dello stalinismo? Noi dimostriamo che lo stalinismo, se di questo si vuol parlare, non è il frutto di un eccesso di centralizzazione collettiva, ma esattamente, all’opposto, di una scentralizzazione rispetto alla teoria ed al programma comunista (conseguita, tra l’altro, grazie ad un voto democratico del partito degenerato contro la linea rivoluzionaria della sinistra, al diritto altamente democratico di liberarsi da quest’ultima in nome degli "interessi concreti" pressanti, singolarmente, anarchicamente, dal profondo di una società reclacitrante al comunismo). Il modello di "dittatura staliniana" veicolato nel partito altro non è se non la rappresentazione -"democratica", al di là degli orpelli dittatoriali- di queste forze collettive agenti contro il comunismo. L’iperdemocraticismo degli attuali figli dello stalinismo non è che la conclusione coerente di questo percorso anticomunista iniziatosi all’ombra del knut di Baffone (vale a dire della personificazione di forze sociali controrivoluzionarie agenti dal profondo). Il rovesciamento apparente dei "modi" costituzionali di essere del partito corrisponde alla deriva ultima cui si è arrivati a partire da quella strada.

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Basi della centralizzazione e della disciplina comuniste

Il partito comunista, dunque, può solo presentarsi come un organismo indeffettibilmente centralizzato e disciplinato. Ma questa centralizzazione, questa disciplina non hanno nulla a che fare con un modello astratto, idealisticamente sempre eguale a sé stesso, di dittatura cieca calata dall’esterno e dall’altro. (Questa è, piuttosto, la caratteristica propria delle organizzazioni politiche borghesi, costrette a legare a sé delle forze per loro natura frantumate e discordanti, com’è nella regola di una società intimamente "anarchica", sia che ciò avvenga attraverso mezzi dittatoriali, sia, e tanto più -affermiamo con Lenin- che ciò si verifichi attraverso l’"assoluto" rispetto formale del libero gioco democratico: d’altra parte, quale miglior esempio di esautorazione non delle libertà individuali, ma del potere reale degli interessi collettivi di classe se non quello offertoci dal cosiddetto "sistema dei partiti" borghesi, in cui tutti sono liberi statutariamente di starnazzare per... non decidere nulla di quanto realmente conti? Disgraziatamente, e proprio da parte di furfanti di "sinistra", l’insegnamento che da ciò si deriva non è quello della necessità di un vero partito comunista, ma l’antipartitismo di fatto "in generale"...).

La centralizzazione e la disciplina ferree cui obbedisce il partito comunista in tanto sono diverse da quelle proposte dai partiti borghesi (o da essi negate nelle forme per meglio farne passare i contenuti) in quanto fanno riferimento a basi materiali, sociali, storiche diverse ed antitetiche.

Là si tratta di tenere assieme spinte che, di per sé, si muovono in ogni direzione per sottoporle alla dittatura sostanziale delle leggi del capitale; qui si tratta di rendere coscienti e coesi interessi che lo stesso capitalismo rende unitari ed antagonisti ad esso.

Il partito comunista non "deprime le libertà dei singoli" che vi aderiscono, ma sottrae l’individuo dalla schiavitù della sua riduzione a "cittadino" schiavo impotente del capitale, lo eleva ad una coscienza ed una milizia collettive; gli restituisce la socialità sottrattagli dalla società presente, ne fa un’arma di battaglia e, da questo punto di vista, anticipa la società futura senza classi, di specie umana (la Gemeinwesen, la comunità umana, di cui parla Marx). In tanto il militante di partito è comunisticamente libero in quanto cellula vivente di questa collettività, in cui non si entra a mezzadria lasciandovi fuori, putacaso, la sfera del "privato" (cioè la facoltà di comportamenti antisociali nell’ambito del "proprio" quotidiano: il comunismo non ammette di tali "proprietà" borghesi; il comunista nega qualsiasi forma di proprietà, per prima quella della propria carcassa individuale di conformarsi ai contenuti ed ai modi di essere antiumani della società presente).

Perché queste affermazioni abbiano un senso occorre -altro concetto di difficile masticazione!- che il partito escluda da sé, a tutti i livelli, a cominciare dall’alto (il che non significa: "proibisca", che sa di regole giuridiche) la libertà di "opinioni" e direttive individuali, peggio se provenienti dai cosiddetti "capi".

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Le basi reali della disciplina comunista

La disciplina del corpo militante del partito, che concepiamo come dedizione assoluta, non condizionata da alcuna remora di "valori" atomizzati personali, individuali, alla causa del comunismo implica una precisa condizione vincolante per tutti: che il partito sappia restare fermo sui propri cardini marxisti, che s’impegni nei fatti a non schiodarsi mai da essI, ma a riconfermarli nella lettura dei fatti sociali, nella propria azione tattica e strategica. Per noi non esistono "fatti nuovi" in grado di smentire tali cardini o da renderne necessaria -il che è lo stesso- una "revisione"; esistono bensì fatti nuovi perfettamente inquadrabili in essi, ed in grado di apportare ad essi la forza di un’ulteriore verifica. La dottrina marxista è, per noi, in questo preciso senso, invariante. Lenin, Trotzkij, Bordiga non innovano, ma sviluppano i presupposti del marxismo contenuti nel corpo teorico originario; e ciò per la semplice ragione che il capitalismo, e con esso l’antagonismo borghesia-proletariato, nel corso del loro svolgersi non mutano di segno e direzione, ma, per l’appunto, si sviluppano sul binario già segnato a partenza-corsa.

Ci si dirà che vogliamo "fermare la storia". In realtà, lavoriamo a non farci fermare dalla pressione delle forze sociali e dall’ideologia avversa. La "libertà" in campo politico e teorico è sempre stato il contrassegno, nel nostro campo, dell’influenza del nemico di classe. Il revisionismo "marxista", ammantatosi agli inizi della pretesa di "ammodernare" il marxismo, non è stato che la ripetizione, con finto linguaggio di classe, di precise ideologie borghesi, e non poteva essere altro. Oggi, non a caso, esso si risolve nella smentita del marxismo dalla a alla z, nel suo ripudio di fatto (peggiore persino quando si colora di falce e martelletti quali innocui gadget).

E’ proprio di un partito fondato su questa "libertà" licenziosa di revisionare di continuo (in termini classici: l’opportunismo) il bisogno di canoni di disciplina "democratici" formali, giuridici, per tenere assieme e governare l’anarchia derivante dalla rappresentazione di ideologie ed interessi borghesi di cui s’è infettato. Il "centralismo democratico" (da Stalin all’ultimo scalzacane "comunista" attuale) questo significa: la dittatura del nemico di classe all’ interno del partito che dovrebbe rappresentarne la negazione. Con tutto quel che a ciò si accompagna: l’amministrativismo burocratico nella conduzione della vita del partito, la compressione disciplinare per imporre continue svolte in luogo di una naturale disciplina ad un programma organico noto ed accettato spontaneamente da tutti i militanti, l’onnipotenza incontrollabile degli apparati, il culto di capi e sottocapi.

La famosa "bolscevizzazione" staliniana dei partiti comunisti questo ha significato, e a essa noi non abbiamo mai risposto contrapponendovi, con rovesciamento dei termini del problema, la rivendicazione di una "vera democrazia" di partito, ma contrapponendo al suo contenuto di fondo quella di una vera organica coerenza di dottrina, tattica, politica e vita di partito. Ciò che traduciamo, con Bordiga, nella formula di centralismo organico a designare il contenuto ed il modo di vita del partito.

Dev’essere evidente che una simile aspirazione non ha nulla a che fare con espedienti di ingegneria costituzionale di diritti e doveri, divieti e permessi formali. Un partito marxista vive e si realizza in quanto tale se riesce a tenersi stretto a questa coerenza, se su di essa riesce a svilupparsi un lavoro realmente collettivo al proprio interno, se nel suo corpo militante si respira l’aria fraterna di una comunità pensante ed operante in cui a nessuno in particolare è attribuito il "potere" di comandare e tutti sono egualmente invece (sia pure con l’ovvia diversità di funzioni) comandati dall’obbligo di coerenza ad una teoria, un programma storico ed un’azione politica coerente ad essi che ci è già data. (Sottoponiamo ai lettori un rebus dialettico. In una stessa lettera, Bordiga scrive: "Se il centro -del partito, n.- è X o Pinco Pallino, non si obbedisce quando si pensi che X è in gamba, ma si obbedisce e stop" e: "Male che i compagni non siano educati a capire che (per attenersi alla disciplina, n.) non è un argomento decente quello che dice: Amadeo pensa così". Le due frasi, che il balordo costituzionalista troverà antitetiche, sono perfettamente corrispondenti ad uno stesso criterio)

Non ci sono ricette assicurative per garantire che così debba essere "per definizione". Le tossine della società borghese premono sempre per penetrare nell’organismo del partito di classe. L’unica garanzia relativa è data dalla permanente formazione dei necessari anticorpi. Dove andare a pescarli abbiamo detto. Le "regole di comportamento" all’interno dell’organizzazione -regole che certamente abbiamo- in tanto valgono, in quanto traducono e permettono lo svolgersi, sul piano organizzativo, dei contenuti cui ci riferiamo, non in quanto formalismi organizzativi in sé efficaci.

Ci rendiamo perfettamente conto che questo discorso, così com’è solamente enunciato, può indurre a sospetti di "astrattezza", di "metafisica". Perciò sarà necessaria, anche dopo una più argomentata esposizione teorica dei problemi, sostanziare il discorso coi dati dell’esperienza storica dei partiti comunisti -come diceva Marx- "formali" (per distinguerli dalla nozione di "partito storico" invariante).

L’importante è, qui, che si cominci a ragionare sulla attuale spaventosa assenza del partito, ci si interroghi sulla sfida storica che ci aspetta, sulle armi che per essa ci dovremo dare (andandole a ripescare da quel benedetto arsenale stipato "in soffitta"). Che dalla constatazione di essere, in quanto proletariato, una collettività sfruttata ci si prospetti il compito di darsi quel collettivo organo dirigente dell’antagonismo sociale (ed umano) che è il partito, rigettando ogni federalismo, settorialismo, individualismo al suo interno.

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