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Speciale elezioni

HANNO VINTO TRE DESTRE!


Indice


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E' scemato il consenso al Polo?

Una seconda destra ha vinto, ed è quella del Polo "sconfitto". Un altro paradosso? Vediamo.
Il Polo è andato ovviamente deluso nelle sue speranze di andare al governo, ammesso che ci credesse.
Ma il consenso al Polo è tutt’altro che diminuito, soprattutto nei centri nodali del sistema, a cominciare dalla Lombardia, anche se ciò non è bastato a recuperare le posizioni del ’94, quando esso correva assieme alla Lega (e dici niente!). Di sicuro Berlusconi non ha potuto ripetere il "miracolo" di due anni fa, allorché esso aveva potuto fare il pieno dei voti garantitogli dal suo personale "carisma" (ahinoi!, quanto si è svalutato questo termine se si può applicare a personaggi di tal calibro!) ed ha soprattutto pagato l’assenza di una reale struttura di partito radicata nella società -problema del quale finalmente FI sembra oggi accorgersi quando i buoi son già scappati dalla stalla-. Il commendatore ha fatto scarso tesoro delle lezioni derivanti dalla caduta del suo breve governo, dovuta non solo e non tanto al "tradimento" della Lega, quanto all’incapacità di contrapporre, al momento decisivo, una propria piazza a quella dei proletari che ne hanno imposto il licenziamento (pur nell’incapacità di capitalizzare la propria forza per una conseguente prospettiva politica). Anche AN ha largamente disertato questa decisiva prova d’azione, preferendo l’abito del ministerialismo a quello dello scontro. Entrambi hanno pagato, e ben gli sta.

Nondimeno, la complessiva tenuta del nocciolo sociale del Polo, in un’atmosfera nel frattempo assai surriscaldatasi, è un indicatore estremamente significativo, e preoccupante.

Era pressoché impossibile, per il Polo, vincere in una situazione in cui tutti, o quasi, i pezzi forti della borghesia nostrana optavano per l’Ulivo, ed in cui tutto, o quasi, il proletariato guardava ad esso come la peste, ed a giusta ragione. Lo era tanto più in quanto l’assedio giudiziario contro Berlusconi proseguiva inesorabile, colpendone l’immagine dinanzi ai fanatici delle "mani pulite". Laddove invece le invettive berlusconiane contro la "giustizia bulgara" non potevano suscitare, nella situazione attuale, echi di entusiasmo neanche in chi nutra dei dubbi sulla "neutralità" di questa giustizia.

Si è detto che il Polo ha pagato il prezzo di una "campagna eccessivamente aggressiva". Noi pensiamo, all’opposto, che esso ha pagato per un’aggressività di sole parole cui non è corrisposta alcuna reale capacità di traduzione in dimostrazioni concrete di forza della mobilitazione delle categorie antiproletarie "incazzate" o, sull’altro versante, dell’incazzatura protestataria incanalabile nell’alveo di uno strutturato populismo di destra presente in larghe masse "popolari", soprattutto al Sud. Il Polo ha disertato il terreno dello scontro reale, badando piuttosto a mettere assieme una eterogenea compagnia acchiappa-consensi elettoralistici, dall’infida accoppiata Casini-Buttiglione (con contorno di "appello ai cattolici" stile ’48, del tutto fuor di luogo) a quella, non meno infida, e storna-voti, "radical-laico-libertaria" Pannella-Sgarbi. E’ con questa illusoria operazione di raccolta di schede d’"opinione" che si spiega come l’uno e l’altro dei soggetti da cui pescare siano stati lasciati in parziale appannaggio della politica "buonista" dell’Ulivo, che prometteva con una mano la difesa dei commercianti e con l’altra il "riscatto del Sud", del lavoro etc. etc. Non c’è stata mobilitazione di massa, e ciò non poteva che indurre larghe fasce sociali, pur disponibili ad essa, alla ricerca del massimo profitto (ipotetico) col minimo sforzo. Il fenomeno è stato ben visibile al Sud, dove la "plebe" che nel ’94 aveva votato Polo si è in parte trasferita all’Ulivo, paga della scarpa destra offerta prima delle elezioni ed ora in attesa di quella sinistra dal Lauro progressista di turno; ma non è mancato neppure al Nord (vedi il buon risultato della Lista Dini tra la plebaglia borghese delle metropoli).

Evidentemente, i tempi non sono ancora maturi per dissipare simili illusionismi, fatto sta che il Polo non ha fatto nulla per toglierceli di torno.

Ad urne svuotate all’interno del Polo si fanno i conti. Risultato? Un soprassalto di "moderazione", la "vittoria delle colombe" sui "falchi". L’Ulivo si mostra largamente "aperturista", e buona parte del Polo si affretta ad andare all’incasso. Ciò ritarda e complica ulteriormente i tempi e i modi della costituzione di un reale schieramento di destra, qual è, per la borghesia, nell’ordine delle cose. Fin qui niente di male per noi. Il male vero è che questa disponibilità dell’Ulivo importa al "centro" tutte le ragioni materiali su cui si basa il Polo, le introietta nei programmi del nuovo governo in un vano tentativo di "stabilizzazione" acchiappa-tutto, un tantino spostata a destra, che ritarda e complica la necessaria chiarificazione politica (e sociale) di cui hanno bisogno sia la borghesia che il proletariato.

Se ne stanno accorgendo anche certi borghesi di "sinistra", attenti al busillis in questione, anche se essi lo concepiscono in modo riduttivo, come una "scomposizione del Polo" da riportare al centro per dar luogo ad una "nuova stabilizzazione" da cui espuntare, oltre che le falci e i martelli, le querce. L’Espresso del 17 maggio suggerisce il sospetto di un inciucio D’Alema-Berlusconi i quali avrebbero "ragioni profonde che consigliano a entrambi di sopportarsi e, possibilmente, di sostenersi a vicenda". La Stampa del 27 aprile dice che D’Alema "non perde minuto per legittimare il ruolo del Cavaliere". E sempre sulla stessa P. Guzzanti va al sodo: "E’ vero: non disponiamo di un partito conservatore" e "manca all’appello una borghesia nazionale fiera di sé, come modello desiderabile per tutte le classi (!) e consapevole di essere la produttrice (!!) della ricchezza delle nazioni. Abbiamo viceversa una borghesia balbettante... Forse se un'alleanza richiamasse i borghesi dal loro torpore comatoso, quell’alleanza potrebbe vantare titoli per dichiararsi antagonista legittima della logica bipolare dei vincitori del 21 aprile".

In breve: il Polo va scomposto per ricollegarlo al centro, così da poter eliminare i residui di una sinistra sempre troppo "popolare" e "comunista" per una borghesia chiamata alle sfide che su di essa incombono. Più "antiberlusconiani" di D’Alema, costoro! Ma non per evitare l’inciucio Ulivo-Polo, bensì quello Ulivo centrista-Quercia! Borghesemente ineccepibile, salvo che un’operazione del genere non si fa spostando delle pedine elettorali; ad essa la borghesia può assolvere, come dice Ferrara, solo rifiutando la filosofia dello "stendere sul Paese un torpore generale, sedare i conflitti, immergere l’Italia in una grande melassa". Qui sta il terreno di verifica, perché il sottosuolo sociale non ammette, alla lunga, inciucio alcuno. E questo è il problema irrisolto e rinviato da parte del Polo come dell’Ulivo.

Già la presenza di un Dini nell’Ulivo era un fatto altamente istruttivo, per chi volesse capire. Speriamo (ma non c’è da giurarci) che l’operazione di "scomposizione del Polo" a cui egli, non da solo, sta giocando, con l’amo gettato, per ora, oltre a CCD-CDU, alla parte "responsabile" di FI e della stessa AN, se dovesse andare in porto -e ve ne sono le possibilità-, non venga letta dai proletari come un’ulteriore prova della capacità di persuasione dell’Ulivo, bensì come una più patente dimostrazione dell’oggettiva convergenza di vincitori e vinti borghesi attorno ad un’unica piattaforma antiproletaria.Questa operazione non segnerà certo la conclusione della vicenda politica italiana, ma è volta intanto a conseguire l’allargamento di un’area borghese libera, in prospettiva, da ogni condizionamento "di classe" al proprio interno (parliamo non solo di Rifondazione, ma di quel tanto o poco di anima operaia che resta nel PDS). In poche parole: non c’è dubbio che negli immediati equilibri politici e sociali che il governo Prodi si appresta a garantire, il Polo "perdente", o una sua parte, è destinato a contare di più della "vittoriosa" Rifondazione. E questo dà il senso esatto della realtà del nostro iniziale "paradosso": il Polo ha tutt’altro che preso cappotto; la sua base di consenso reazionaria è tutt’altro che venuta meno, e le sue "ragioni legittime" si apprestano oggi a far capolino sin dal di dentro dell’Ulivo, per interposta persona sia, forse, direttamente, con supplementi replicanti dell’esperienza-Dini. L’unica cosa che è venuta meno, per il momento, è la resa dei conti del proletariato con gli interessi che attorno al Polo si sono coagulati, sul terreno dello scontro aperto di classe, il che non è affatto un bene.

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La Lega: un vincitore vero e a tutto campo.

Ma c’è un terzo, e ben più corposo, elemento che ci obbliga a mettere i proletari in guardia sui pericoli incombenti di destra, che queste elezioni, in luogo di esorcizzare, hanno esaltato al massimo, ed è il risultato della Lega. Con la Lega abbiamo una terza forza di destra vittoriosa, concorrente con quelle dell’Ulivo e del Polo, ma in perfetta "santa alleanza" con esse per quel che riguarda la sua azione antiproletaria.

Non occorre riandare troppo addietro nel tempo per ripescare la memoria della leggerezza, non si sa se da imbecilli o mascalzoni (e nulla vieta il tandem), con cui la nostra sinistrata "sinistra" lanciava baci ed abbracci alla Lega. Non occorre perché, persino dopo queste elezioni, degli alti responsabili del PDS si sono affrettati a rilanciarli. Alla Lega, si è detto, va anzitutto il merito di aver contribuito alla sconfitta di Berlusconi (come dire: grazie al tagliagole che ci libera dal mariuolo... per farci poi la pelle in sua vece). Alla Lega il merito di aver sollevato il tema del federalismo che è, dev’essere innanzitutto nostro, della sinistra. Alla Lega persino il merito di aver interpretato il "legittimo disagio del Nord", se proprio non si vuol dire Padania... Il più antileghista di costoro giura sulla tavola dei comandamenti della Lega come su un testo sacro, salvo ritrarsi dalle sue conseguenze "estreme". Tutti federalisti all’ennesima potenza. Ci si è messa anche la Chiesa che, scimmiottando la sinistra, si richiama all’unità d’Italia come "bene supremo", ma poi riconosce che essa va salvata con forti iniezioni di federalismo (e, intanto, anch’essa, come la sinistra, è federalizzata al proprio interno...).

Abbiamo riconosciuto a Bossi ed ai suoi un merito indiscutibile: di parlar chiaro e andare dritti per la loro strada, di avere un programma inequivoco, di battersi per esso con armi acconce. Altrettanto nettamente riconosciamo in costoro, non da oggi, ma dal dì che le bandiere della Lega si mescolavano a quelle del PDS e PRC nelle piazze, e ancora da prima, l’esiziale minaccia di cui sono i vessilliferi: non la spaccatura dell’Italia in quanto stato borghese (ce ne frega altamente di essa, in sé e per sé!), ma la divisione e la contrapposizione fra le diverse sezioni territoriali del nostro proletariato a vantaggio di una prospettiva borghese che non è diversa o più infame di quella delle altre forze politiche in campo, ma soltanto più micragnosa e aggressiva insieme.

(Diciamo "vessilliferi" e non causa, perché dal punto di vista oggettivo il programma e la forza della Lega discendono dai dati strutturali del capitalismo italiano, e da quello soggettivo dai guasti prodotti dalle sue forze politiche, a cominciare dalla sinistra. Questa è la lezione che abbiamo a tempo tirato dal caso jugoslavo, dando del fesso a chi ha imputato le colpe alle "intenzioni" o "manovre" di questo o quel Tudjman, per quanto da noi odiatissimo. Un conoscente ci ha suggerito un proverbio: "Se l’acqua bolle, sotto c’è il fuoco", proverbio... marxistissimo)

Dal punto di vista economico, Bossi si presenta sotto le insegne di un liberismo spinto agli estremi. In qualità di rappresentante della Padania, non ha, o crede di non aver, bisogno di farsi carico di onerosi "assistenzialismi" che gravino, bontà sua!, sul capitale padano. Non promette tutela per finti invalidi, finti lavoratori buoni solo a tirar la busta paga. Il suo problema consiste semplicemente nel "liberare" la Padania dai lacci e lacciuoli di Roma ladrona (e razzista, colonizzatrice, fascista -che non sta mai male!-). Parte dalla presa d’atto che, nello scombinarsi dell’attuale struttura produttiva e istituzionale del paese, il Nord può e deve fare da sé quale soggetto statualmente indipendente (il che non significa sganciato del tutto dal Sud, ma in grado di agire sul Sud secondo le regole dello sviluppo combinato e diseguale, passando da forza... colonizzata -!!- a forza colonizzatrice).

Un tale programma ultra-liberista sembrerebbe dover aver poca presa sul proletariato del Nord. Ed invece... Ed invece, proprio grazie all’opera di annientamento del proletariato complessivo italiano quale forza antagonista unitaria che la "sinistra" ha lasciato passare, o di cui s’è fatta persino complice, egli può dire impunemente ai proletari del Nord: venite con noi, un Nord libero premierà anche voi, restituendovi quello che Roma ladrona vi ha sottratto con la corruzione, la mafia, l’assistenzialismo del Sud. E molti ci abboccano, se è vero, com’è vero, che la Lega si conquista un buon secondo posto nel consenso operaio metropolitano e fors’anche di più nell’hinterland ed alla periferia.

Potrebbe essere diversamente dal momento che la "sinistra" si rivolge ad essi dismettendo sempre più platealmente un discorso di classe, e li chiama all’abbraccio con i capofila del grande capitale o li annega in quello con ceti sociali che al massimo li considerano come polli da spennare o bestie atte solo alla soma?

L’educazione alle ragioni del "proprio" capitalismo producono di questi effetti: nell’incapacità provata del blocco borghese tradizionale -quello di sinistra in prima linea- di affermare un’aggressiva prospettiva di sviluppo imperialista per il paese; nella sua altrettanto provata impotenza a risolvere in un modo utile per "tutti" il problema dello sviluppo "duale" dell’economia (e della società) italiana; questa stessa educazione a subordinarsi alle regole del "proprio" capitalismo determina la possibilità di uno spostamento di settori rilevanti del proletariato dietro le bandiere della sua versione ridotta, ma più "vicina" ad esso, più -apparentemente- consentanea ad esso, più per esso profittevole: quella del micro-nazionalismo. L'abbiamo visto e denunziato per il laboratorio jugoslavo, gridando, soli!, che esso parlava anche per noi. Oggi lo registrano in tanti, con viva preoccupazione in molti settori borghesi "nazionali", a cominciare dalla sinistra, ma traendone lezioni disastrose.

Infatti. Dopo aver spianato in precedenza le porte a Bossi, solo ora, tardivamente e in controsenso, se ne prendono le distanze. Nettissime, si giura. Tanto nette che, appena chiuse le urne, un rivoltante Fassino si sbracciava in TV in profferte alla Lega, ricambiato a pernacchie.

Ed anche dopo l’"improvvisa virata secessionista" di Bossi (il quale in effetti tira le conclusioni di una sua politica coerente e ne incassa i calcolati frutti), cos’è che si dice?

Primo. Che Bossi è il nemico del... vero federalismo, che proprio la sinistra ha fatto suo e garantisce come primo impegno del governo Prodi. Secondo. Che il secessionismo è un’esiziale minaccia per tutto il paese, da respingere (per i più "duri" con mezzi giudiziari e di polizia). Terzo. Che contro tale minaccia si può stringere un patto tra destra e sinistra nazionali e responsabili.

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Leghismo generalizzato

Sul primo punto. Bastava seguire il convegno dei sindaci del Nord-Est per avvertire come la Lega ha già vinto la parte centrale della propria battaglia penetrando coi suoi temi nelle stesse file degli avversari (o dei... diversi). Era un sindaco dell’Ulivo a lanciare allo stato centrale in nome del "movimento dei sindaci" l’aut aut: o il federalismo completo subito, o -se non sarà dato- il passaggio a "più incisive forme di contestazione e di lotta". E Cacciari ci metteva di suo l’invito a Prodi a far leva sulla Lega per rendere federalista sul serio l’Ulivo, tuonando contro "le resistenze degli apparati romani". Il tutto in nome dell’unità del paese, non del suo smembramento. Insomma: dateci subito una costituzione federale come quella jugoslava del ’74, perché "senza federalismo e riforma dello Stato ogni scenario diventa ipotizzabile" (Il Gazzettino, 5 maggio). Già: per evitare il secessionismo, dateci precisamente quel tipo di riforma federale che in Jugoslavia lo ha covato ed allevato!

E va addirittura aggiunto che parte di questi bei campioni di ultra-federalismo se la prendono con Bossi, come già segnalavamo in passato, per un suo "nuovo statalismo centralista", gli uni sollevando le ragioni dell’autonomia dalla stessa Padania di determinate regioni o sotto-regioni (del Veneto, per G. Lago del Gazzettino;del Friuli "oppresso" da Trieste e in odore di "oppressione" da parte del Veneto per molti, e perfino per parte di Rifondazione, in buona compagnia della pretaglia locale). Il tutto in nome di una piena autonomia locale a livello di micro-regione, cittadina e baraccopoli, se possibile. Bossi ci fa la figura dello statista nazionale di fronte a simili microbi ultrapassatisti ed ultrareazionari (anche questa l’abbiam vista in Jugoslavia, col proliferare di mille varianti di sotto-indipendentismi micidiali, a cominciare dall’Istria).

"La pubblica amministrazione è diventata un peso insostenibile", dicono tutti costoro. Dunque: passiamo al federalismo per evitare il peggio (verso cui si corre a vele spiegate). E non ci si rende neppure conto che una riforma federalista che spezzi il vincolo della pubblica amministrazione centrale non è assolutamente concepibile senza un completo rivoluzionamento delle strutture economiche, politiche e sociali del paese, con tutti i suoi prevedibili costi, conseguenze a parte. Mentre una "mezza" riforma, qual è quella su cui paiono indirizzarsi le nuove forze di governo, comporterebbe insieme la non-soluzione del problema, e l’aggravarsi di tutte le ragioni di disparità e di scontro tra i vari settori del paese, e inietterebbe linfa ulteriore alla spinta secessionista.

E’ un vicolo cieco, dal quale la borghesia nostrana sembra non riuscire a sottrarsi, incapace com’è, per ragioni oggettive e soggettive insieme, di darsi un quadro nazionale organico e conseguente d’azione. Il rischio maggiore per noi è che, a sua volta, cada nello stesso vicolo anche il proletariato, se non riuscirà a cominciare a svellersi dalla tutela della "sinistra" che lo rappresenta.

Quanto alle "concrete misure" per parare la minaccia Bossi con provvedimenti d’ordine pubblico, ci limitiamo a sottolineare che nessun movimento eversivo di solide radici economico-sociali si può fermare a suon di notifiche giudiziarie o con le manette affidate ad una brigata di carabinieri. La sfida, qualora se ne sia capaci, va affrontata aggredendo quelle radici profonde, mettendo in campo un movimento di classe. La ventilata possibilità d’intesa anti-Bossi tra Ulivo e Polo la dice lunga sul carattere di una risposta tutta affidata alle istituzioni, ai giochi parlamentari, ad uno spostamento sempre più marcato sul terreno scivoloso di una politica di destra, a vuote insegne "nazionali", che si dimostrerebbe di per sé del tutto inabilitata a risolvere i nodi di fondo e creerebbe, anzi, ulteriori motivi di scollamento tra basi sociali vive e vertici confusionisti. Battersi contro il secessionismo è per il proletariato necessario e possibile, ma comporta il battersi contestualmente contro l’insieme delle strutture centralizzate dello stato borghese. Un po’ troppo anche per Bertinotti, non a caso più sensibile agli accordi con tutti i "sinceri" (e "nazionali", per dio!) democratici e più incline, per vecchia tradizione, ad appellarsi alle forze dell’ordine statale che alla sciagurata eventualità di un’azione anticapitalista delle masse... Un episodio istruttivo: i deputati regionali di Rifondazione del Friuli-Venezia Giulia hanno contestato la Pivetti uscendo dall’aula del Consiglio regionale assieme a quelli del Polo al grido di "Viva l’Italia!". E poi si lamentano se Violante, nel suo discorso d’investitura (per il quale L’Unità -11 maggio- afferma che "il termine appropriato è un solo, anche se insolito a sinistra: patriottico") , si fa applaudire da Fini quando riconosce le ragioni -patriottiche- dei vinti della RSI. Quello è il fronte, quella la bandiera! Il vero comunista non risponde alla Lega col tricolore borghese, non si appella a questo stato nazionale che è da spazzar via. All'organizzazione comunista, non interessa la difesa dello stato unitario borghese garantita, all’occorrenza, dalle forze armate; interessa la propria unità antagonista, dal Nord ad Sud, dall’Italia a tutti gli altri paesi, contro il nazionalismo borghese micro, macro e "mondiale". Altrimenti, piaccia o no, ci si ritrova anche con quelli di Salò (e non è detto sia la compagnia peggiore).

Nessuno dei tardivi anti-bossiani si rende conto del fatto che le forze attorno alla Lega non costituiscono un dato statico, ma sono i catalizzatori di un processo dinamico che, non aggredito alle sue radici, è destinato a ulteriori "imprevedibili" sviluppi. Se se ne potessero render conto, constaterebbero che essi per primi sono infettati dal morbo leghista e se ne fanno portatori insani. Vedrebbero che questo primo decisivo successo conseguito dalla Lega rimette in moto tutti i precedenti equilibri all’interno delle stesse formazioni nominalmente anti-Lega.

C’è poco da sperare. In assenza di un rilancio corposo e pagante delle ragioni del capitalismo nazionale, dell’"azienda Italia" (per il quale sembrano mancare numeri oggettivi e teste), una buona fetta dell’elettorato attualmente parcheggiato negli altri schieramenti provvederebbe a ricollocarsi in tutta fretta e con una ulteriore buona dose di radicalità.

La contiguità tra le pulsioni di fondo di buona parte dell’elettorato di Forza Italia, ad es., e la Lega è evidente, ad onta della provvisoria contrapposizione. In Friuli, un’assemblea di 250 "autoconvocati" di FI ha individuato le ragioni della propria sconfitta nel non aver saputo innalzare la bandiera del federalismo autentico e ad esso chiede oggi di richiamarsi per parare Bossi sul suo terreno. E’ solo un esempio degli umori in via di trasformazione.

Ed è notevole che persino da AN siano arrivati, con Gasparri, dei segnali volti a farsi carico delle ragioni del Nord: il che preannunzia una possibile spaccatura tra la forte impronta "meridionalistica" di questo partito e l’animus del suo elettorato del Nord, sin qui tenuti assieme con pure operazioni artificiali, di facciata. Chi, al Nord, vota AN respira, al pari di chi vota FI o Lega, la stessa aria liberista ed antiproletaria, nutre lo stesso bisogno di ordine. Lo concepisce sì in un ambito nazionale, ma se questo non saprà far quadrare i conti a questa scala -tutto lo fa prevedere-, lo cercherà in un Nord indipendente. Il supernazionalismo bottegaio può diventare d’un colpo bottegaio micronazionalismo. Il cuore batte dove batte la cassa.

Basta essere a contatto con la "gente" per avvertire come, all’indomani delle elezioni, ed allorché si profilano nuove stangate e stangatine vecchia maniera, gli umori si vadano spostando e radicalizzando tumultuosamente. E non solo, per disgrazia!, tra i ceti extra ed antiproletari, ma anche tra fasce di proletariato che, paradossalmente, trovano in Bossi chi rivendica le loro ragioni immediate contro gli ennesimi giri di vite a loro danno, mentre nessuno indica ad essi una via d’uscita sulle proprie gambe. Anzi: poiché da "sinistra" si giura che la soluzione è il federalismo vero e dal momento che è scontato che questo non si farà, è naturale che questo tipo di attese e promesse deluse andranno a far crescere il risentimento e lo smarrimento sulla via da lui anticipata.

(Una parentesi: un modo sciocco di veder le cose ha indotto in passato a identificare il movimento leghista con una sola e ristretta rappresentanza sociale immediata di riferimento; oggi ci si accorge che esso si è socialmente rinnovato ed allargato sino a diventare il secondo, e talora persino il primo partito, tra -non: del- proletariato, nel mentre la sua connotazione programmatica borghese si è rafforzata e non indebolita. Esso potrebbe rinnovarsi ancora su questa via e non gli mancherebbe, all’occorrenza, il sostegno "persino" di certo ribellismo radicale "estremista", come la vicenda del fascismo insegna. Per averne un’avvisaglia andatevi a leggere S. Bologna sul Manifesto del 4.5: un articolo "acuto", al solito, che tira a tutta forza in una certa direzione, come s'addice ai soreliani di sempre...)

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"Nord-Sud uniti nella lotta"

Il leghismo del Nord richiama a sua volta quello del Sud, ancora in incubazione, ma non per questo meno avvertibile all’occhio del marxista. Neppure a quello di Bossi, a dire il vero. Bossi non dice: Nord contro Sud, ma: federalismo ed indipendenza per tutti (per tutte le sotto-borghesie). Dice: la causa della nostra liberazione è anche la vostra; abbiamo uno stesso nemico: Roma, lo stato centralizzato. E questo discorso va avanti che è un piacere!

Il governo Prodi, è scontato, non potrà soddisfare alcuna delle aspettative fondamentali del Sud e quest’ultimo è già di per sé un cratere pronto ad esplodere. Se esso dovesse deflagrare, è per noi scontato che non lo farà convergendo su "Roma", ma contro Roma (e contro il Nord borghese, nei confronti del quale ha mille ragioni di legittimo risentimento), convergendo con Bossi nell’opera di dissoluzione del tessuto proletario nazionale. (Sempre "a meno che": a meno che non si realizzi una reinversione di tendenza politica all’interno del proletariato, che è quanto appunto noi cerchiamo di spingere innanzi). I Bassolino possono immaginarsi di far da argine a ciò minando la diga, ma quel che viene avanti, grazie anche ad essi, sono i Cito, è la rivolta che cova nel profondo della disgregata società meridionale (potremmo persino localizzare un epicentro: che ne dite della Calabria, ad esempio?). Ed è la ripresa -in Sicilia anzitutto, nella Sicilia dei 60 raggruppamenti "autonomisti"- di antiche tendenze separatiste supportate da corposi, modernissimi intrecci d’interessi legali-"illegali" finanziari e commerciali (vedi il Progetto Federico II stilato dai vertici siciliani di FI che vorrebbe fare dell’isola la Las Vegas del Mediterraneo).

Bossi l’intuisce perfettamente quando dice, solo un po’ enfaticamente, che al Sud siamo alla vigilia di un’insurrezione. L’insurrezione che gli serve e che egli fomenta (e nessun altro è capace a parare). Anche questo come da scenario jugoslavo. Uno scenario che va riproducendosi ben oltre l’Italia, gettando di continuo altra benzina sul fuoco distruttore del leghismo. Basti solo pensare alle vicende della Spagna in cui un partito catalano (nelle Cortes ben 8 partiti su 11 sono regionali e autonomisti) assai meno consistente di quello di Bossi tiene in ostaggio il nuovo governo di centro-destra, e più vede accolte le proprie richieste federaliste (finalizzate sempre più esplicitamente alla formazione di uno stato di Catalogna indipendente), più chiede. O a quelle di uno stato per lunghissima tradizione assai coeso come la Francia, in cui alla sempre più esplosiva (nel senso letterale del termine) "questione corsa" si sommano già la spinta indipendentista della Savoia ed i fermenti autonomistici della Bretagna...

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Il che fare

Il quadro che abbiamo dato della situazione attuale richiama, per il lettore non sborniato o prossimo ad uscire dalla ciùcca, degli assai "semplici" imperativi.

Primo: uscire dal pantano dei discorsi codisti sulla sinistra borghese che sarebbe migliore o meno peggio della destra, per riconoscere il burrone cui destra e sinistra ci stanno portando (noi proletariato).

Secondo: riconquistare la nozione-base di proletariato quale punto di riferimento della propria azione politica.

Terzo (e di conseguenza): lavorare a ricostruire l’organo-partito di classe in grado di guidare le battaglie che, comunque, saremo costretti ad impegnare per i nostri interessi immediati in coerenza col fine storico del comunismo. Per lunga e difficile che sia questa battaglia, il materiale su cui basarci non ci mancherà. Ed è a questa sola condizione che potremo assestare i dovuti calci nel sedere (ed anche "qualcosa" di più) dei Prodi-Dini-Berlusconi-Fini "nazional-unitaristi" e dei Bossi-Cito e di quant’altri mai "nazional-secessionisti". Se ciò non si dovesse dare, bisogna prepararsi al peggio. Onde essere più solidamente attrezzati nel prossimo futuro alle difficoltà della risalita, ed alle necessità di quella controffensiva rivoluzionaria di classe cui è, in prospettiva, consacrato tutto il lavoro dell’avanguardia comunista degna di questo nome.

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