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Recensioni

Indice

Quaderni Internazionalisti
Pater Handke, Un viaggio d’inverno ovvero Giustizia per la Serbia.
Bruno Bongiovanni, La caduta dei comunismi.
Cinema: Underground, di Emir Kusturica

QUADERNI INTERNAZIONALISTI, Torino, Editing.

Ad opera di un gruppo di ex-"programmisti" si ripubblicano, da alcuni anni a questa parte, vari testi della Sinistra Comunista (e, diciamo pure, al 99% di Bordiga) altrimenti inaccessibili. L’importanza di siffatta iniziativa non merita che il nostro più vivo apprezzamento. Non possiamo che raccomandare ai nostri lettori ed, a maggior ragione, ai nostri compagni di usufruirne come si deve.

Ritorneremo successivamente sul complesso di quest’iniziativa editoriale, segnalandone i singoli titoli con qualche suggerimento di lettura.

Ci limitiamo qui a ricordare alcuni di essi, tra i più recenti. Innanzitutto il corposo Comunismo e fascismo, che raccoglie testi e documenti dal ’21 al ’74, con un supplementino complementare dal titolo Marxismo contro fascismo ed antifascismo.In secondo luogo La questione meridionale e Chiesa e fede, individuo e ragione, classe e teoria. Quest’ultimo, in particolare, offre un quadro completo del tema da noi trattato, per forza di cose per punti sommari, nel n° 38 del nostro giornale e ad esso rimandiamo chi non si accontenti dell’antipastino da noi confezionato.

Tutti questi volumi ed opuscoli possono essere richiesti direttamente al nostro indirizzo.

Qualcosa va detto, però, sulle introduzioni ai testi curati dal gruppo.

Non mancheremo di riconoscere ad esse un riferimento fermissimo (e molto addottorato) alla lettera delle posizioni teoriche in cui noi ci riconosciamo. Ma diciamo, per l’appunto, alla lettera, non alla sostanza, perché qui lo snocciolamento delle grandi questioni teoriche assume l’aspetto di una astratta formulazione di principi e di "idee" quasi iper-uraniche, senza alcun riferimento visibile alla battaglia politica. Ad esempio, nelle note sul fascismo non appare una sola parola su ciò che significhi svolgere quelle posizioni (permanenti) oggi, sì che si ha l’impressione di un esame di fatti e posizioni retrospettive. Idem per la questione del meridionalismo, quasi si trattasse di materiale da archivio. Peggio ancora per le note sulla questione della religione, pur inappuntabili, e spesso felici, come "battaglia di idee" (per l’appunto, un terreno che non è il nostro).

Si dirà: ma, per l’appunto, la chiave dell’attualità è racchiusa nello scrigno della teoria (non siamo "attualisti", si dice, mal comprendendo il senso dell’espressione di Amadeo). Giusto. Ma una viva teoria non nasce, non vive, non agisce se non in rispondenza dialettica con la lotta politica. Tutti gli scritti di Amadeo nascevano da questa esigenza concreta ed attuale di lotta (contro ogni concretismo ed attualismo, che è altra cosa). Nelle Considerazioni sull’attività organica del partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole, del ’65, sta chiaramente scritto che "dato che il carattere di degenerazione del complesso sociale si concentra nella falsificazione e nella distruzione della teoria e della sana dottrina, è chiaro che il piccolo partito di oggi ha un carattere preminente di restaurazione dei principi di valore dottrinale", ma "tuttavia, non per questo possiamo calare una barriera fra teoria e azione pratica; poiché oltre un certo limite distruggeremmo noi stessi e tutte le nostre basi di principio" e si mette bene in guardia dal concepire l’attività di partito come una pura "attività editoriale" (un certo milieu è anticipato di quasi mezzo secolo!).

L’esatto contrario della strada percorsa da gruppi di "studiosi" come quello di Torino, che si rifugiano in un proprio cenacolo a "scolpire i chiodi" nella convinzione che questi costituiscano un prima in attesa del dopo, o piuttosto un tutto in previsione del niente a venire (o di qui a centomila anni, come scrisse qualche altro "bordighista" della lettera).

Per noi, quei testi sono delle armi di battaglia, qui ed ora. In questo senso li raccomandiamo ai nostri e, come organizzazione, ci sforziamo di trasmetterli come forza viva, materiale al corpo collettivo dei militanti. Che è, poi, quel che ci dice la nostra teoria (sempre eminentemente pratica, al solito...).


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Peter Handke, Un viaggio d’inverno ovvero Giustizia per la Serbia. Torino, Einaudi, 1996.

Questo libricino affronta la questione della guerra nella ex-Jugoslavia focalizzandosi sulla cosiddetta "questione serba" da un punto di vista che non è, come impianto, quello politico del nostro Jugoslavia: una guerra del capitale. Handke (un mezzo austriaco e un mezzo sloveno per nascita e formazione culturale) affronta il tema da letterato, da artista, immergendosi nella realtà immediata delle cose (dai sentimenti delle persone al paesaggio in cui essi respirano) tentando di risalire dalla "concretezza" a delle possibili "generalizzazioni" storico-politiche.

Sarebbe vano chiedergli di arrivare alle nostre conclusioni. La metodica e gli scopi del "viaggio" di Handke erano diversi. Ma, si badi, non in antitesi. La sonda di Handke, in qualche modo, può servire anche da integrazione al nostro lavoro, che per forza di cose parla di politica e non, alla superficie almeno, di "uomini", ma non ne prescinde affatto -al contrario!- e trova precisamente in questa realtà immediata la propria conferma.

Allorché Handke smantella tutto il cumulo di menzogne antiserbe della propaganda occidentale presentandoci (prima e più che il ripasso di qualche capitolo di storia autentica) i suoi serbi in carne ed ossa a palpabile negazione di esse, egli non produce la nostra spiegazione dei fatti, ma ad essa offre un prezioso apporto complementare (quello su cui noi stessi dovremmo di più fermarci se ne avessimo i mezzi, perché questo lato della realtà rientra nella nostra visione della politica; ma tant’é, facciamo quello che possiamo e dobbiamo qui ed ora). Né, d’altra parte, Handke si limita a ritrarre personaggi. Per forza di cose egli è costretto ad esprimersi su alcuni temi di politica che stanno sotto gli occhi di tutti: il ruolo dell’imperialismo tedesco nello scatenamento e nella gestione della guerra, la colonizzazione culturale, oltre che economico-politico-militare, in atto, ritratta con immagini efficacissime per la Slovenia in particolare. Così come non manca di interrogare il lettore sul valore delle "prove" antiserbe veicolate dai mass-media, tipo quella della strage al mercato di Sarajevo, di fattura ben nota, o quella delle fosse comuni di Srebrenica, opportunamente sparite oggi dalle prime pagine dopo tanto strombazzare terroristico.

Il coro d’indignazione dei manutengoli dell’imperialismo occidentale contro questo libretto (a partire dal "progressista" Le Monde per concludersi nell’immondezzaio dei nouveaux philosophes) dimostra che esso comunque ha un valore politico che "disturba". In Germania c’è stata una vera sollevazione contro di esso, e se ne possono ben intendere le nobili ragioni... Vuol dire che si è colpito nel segno, che il libro pone i giusti quesiti sulla faccenda jugoslava e che di qui a trovare tutte le risposte appropriate (facciamo un po’ di propaganda al nostro libro) ci corre poco.

A riassunto del "viaggio" (e del viaggiatore) citeremo questo passaggio, letterariamente molto bello e politicamente molto significativo, in cui si descrive l’atmosfera della vita al mercato di Belgrado e se ne tirano alcune riflessioni:

"Ma ciò che di questa vita sul mercato, per quanto visibilmente segnata da un tempo di penuria, rimaneva impresso e persuadeva al massimo grado era, e non solo nelle cose appetitose ma allo stesso modo nella molta roba forse davvero quasi inutile (chissà?), una vivacità, qualcosa di allegro, di leggero, quasi di alato nel processo di compra-vendita diventato altrove troppo spesso pomposo e sostenuto, anche sospettoso, mezzo sprezzante... qualcosa come un originario e, sì, popolaresco piacere... E allora mi sorpresi addirittura ad augurarmi che l’isolamento del paese -no, non la guerra- potesse durare; che potesse durare la chiusura al mondo monopolistico e di mercato..." (pp. 42-43).

E’ precisamente questa chiusura che il sistema capitalista non può tollerare e deve distruggere, trascinando nella distruzione connotati antichi di un’umanità in cui ancora vivono resti di socialità precapitalista.

Noi, evidentemente, non ci auguriamo (né varrebbe a nulla) una "chiusura" al mondo monopolistico e di mercato per rimanere all’indietro nella storia, ma l’integrazione nella lotta rivoluzionaria internazionalista contro questo sistema, uscendo dai confini, ormai definitivamente devastati, del "proprio" mercato, del "proprio" mondo "sano ed originario". Non ci aspettiamo che questo riconosca e ci dica Handke; l’importante è che quel che egli dice pone in modo stringente quei problemi ai quali noi abbiamo la sconfinata presunzione di aver già fornito delle risposte.


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Bruno Bongiovanni, La caduta dei comunismi. Milano, Garzanti, 1995.

Nel ’75 il Bongiovanni aveva curato il libro, saggio ed antologia, L’antistalinismo di sinistra e la natura sociale dell’URSS (Milano, Feltrinelli) che, per quanto lontano dalle nostre posizioni, offriva un quadro documentato e ragionato della questione a tutt’oggi indispensabile ai compagni.

Questo libro è, se possibile, ancor più documentato da un punto di vista bibliografico (l’accademico universitario, si sa, deve "saper tutto", anche a costo di non capirci nulla), ma con un solo scopo: diffamare il marxismo -non ci si inganni sui titoli... accademici che l’autore rilascia a Bordiga!- e, quindi, apologizzare la società presente.

La storia dei "comunismi" è qui ridotta a storia metafisica dell’Idea Totalitaria, regressiva rispetto a quella democratica del capitale, e le sorgenti di tale Idea sono naturalmente ascritte alla responsabilità di Lenin ("concezione del partito in chiave elitistico-oligarchica", "sostituzione" del proletariato da parte del partito etc. etc.). Il tonfo di quei "comunismi" deve segnare la fine del comunismo, qui sta il succo: l’"antistalinismo di sinistra" fa pur sempre parte della "deformazione totalitaria" (salvo le varianti anarco-consiliariste che, come da copione, si concludono nell’ideologia del sistema borghese).

Non è il caso di polemizzare qui con le singole "idee" dell’autore: il senso di esse, e ciascuna di esse, sono state più volte oggetto, da parte della nostra corrente, di regolare e definitiva smentita.

Vogliamo solo spulciare, a dimostrazione del forcaiolismo del libro, alcuni passaggi del capitolo conclusivo sulla Jugoslavia, senza bisogno di commenti.

"Il mito politico jugoslavo... ha potuto sussistere, lungo un intero secolo (1880-1980), unicamente in forma "negativa", in opposizione cioè all’impero ottomano, a quello austro-ungarico, al Terzo Reich... e infine all’URSS"; "La Jugoslavia, in quanto tale, si è trovata nuovamente priva dei collanti politici ed artificiali positivi, quelli che consentono e promuovono la convivenza"; "Lo jugoslavismo, di fatto decomunistizzatosi e quindi dejugoslavizzatosi, riprese, in tutte le repubbliche, il volto, temuto ed odiato fuori della Serbia, del "panserbismo""; "La guerra interetnica non sembrava avere mandanti ragguardevoli fuori dei Balcani... In realtà, se la prima questione balcanica era stata incentivata (!) dalla presenza di imperi che facevano affidamento su questo o quel soggetto politico, statale, etnico o religioso, la seconda questione balcanica è esplosa quasi (!) esclusivamente negli spazi ex jugoslavi" (l’imperialismo maturo è più disinteressato di quello dei primordi!). E si conclude naturalmente con la "pulizia etnica" "praticata soprattutto (!) dai serbo-bosniaci", "con maggiore efferatezza".

Se di una cosa si fa colpa all’Occidente è di non essersi a tempo e nei modi dovuti mosso per portare la civiltà in queste plaghe squassate da oscuri istinti barbarici o dalle code del totalitarismo leninista. Il quale sembrerebbe, tra l’altro, esser colpevole anche del "totalitarismo" el’tziniano (un "vecchio comunista" celato sotto altro nome). Per fortuna, ci si avverte in ultima di copertina, "con quell’impero (sovietico, n.) è caduto anche il comunismo". Rimangono per sempre il piedi il capitalismo e le università.


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Cinema
Underground, di Emir Kusturica

Non ci apprestiamo ad inaugurare una rubrica di "cultura" né tantomeno ad esporre come espressione dell’organizzazione dei gusti estetici che potrebbero appartenere soltanto a chi li espone, per quanto "politicamente corretti" (che è una fregnaccia).

Tuttavia, lasciando impregiudicata la questione della valutazione estetica di questo film (come di altri prodotti artistici e letterari di cui potremo in seguito occuparci) qualcosa la possiamo dire, entro i limiti che ci sono concessi e rispettiamo.

Nel film di Kusturica il periodo della lotta di liberazione nazionale e del successivo regime titoista è rappresentato come un sotterraneo in cui le masse si trovano in due sensi chiuse: materialmente ed ideologicamente, mentre al di sopra i rappresentanti del potere trafficano e lucrano indisturbatamente e senza veli.

Quest’immagine ha disturbato, in Jugoslavia i residui fautori del "socialismo" titoista. Una responsabile di non sappiamo quale nuova Lega dei Comunisti ha rimbrottato il regista: ma quale sottosuolo!, e tu dove hai studiato per fare il tuo mestiere?, e chi te ne ha dato i mezzi? (Nessun sospetto sul fatto che altrettanto potessero dire Stalin o Benito).

Invece, questa è un’immagine estremamente felice che anche noi possiamo fare nostra (a nostro modo): il "socialismo reale" ha realmente sotterranizzato la "gente" (noi diciamo: il proletariato), sottraendola al proprio protagonismo di classe ed asservendola allo scopo della costruzione di un sistema in realtà capitalista attraverso lo sfruttamento di attese di classe reali a cui esso "socialismo" si presentava come rappresentante.

Naturalmente, l’angolo visuale di Kusturica è diverso. Lui non parla di proletariato, di prospettive di classe, ma della gente, degli individui traditi. La sua è la protesta, sarcastica ed amara, dell’anarchico defraudato della propria "personalità" e che, arrivato al capolinea della guerra attuale, ne dà una spiegazione del tutto fantastica così come non sa darsi una prospettiva di via d’uscita.

Né noi glielo possiamo imputare, mettendo sul conto della sovrastruttura ideologico-artistica quel che spetta alla struttura materiale su cui essa poggia. Il suo smarrimento va, pertanto, messo a carico del sistema che l’ha prodotto ed alimentato. L’importante, quanto a prodotto artistico, è che esso sia dichiarato e svolto con le armi del cinema evidenziando, per questa via, la ricaduta di una data realtà sociale sugli uomini (per quanto intesi come individualità astratte al di fuori della loro stessa storia). Far uscire la gente dall’underground titoista, senza farla ricadere in quello, ben più pericoloso, del "libero Occidente" (cosa che Kusturica dimostra di avere inteso), è compito di altri, è compito nostro. Di noi che non ignoriamo i problemi dei singoli, ma li poggiamo concretamente sui piedi e non sulla testa o il cuore.

Una notazione sullo stile, infine, per quel che esso ha a che vedere con questioni di dimensione politica. Il film di Kusturica, comunque lo si voglia giudicare, appare espressivamente legato ad una tradizione culturale -nel senso più ampio del termine- balcanica che orgogliosamente rivendica il suo diritto ad esprimersi fuori da ogni condizionamento culturale (leggi: politico, sociale) occidental-colonialista. Vi si respira una cultura diversa, non ancora omologata agli schemi hollywoodiani che dettano legge alla produzione di mercato internazionale. Ed è questo, forse, il dato che più ha infastidito i tirapiedi dell’Occidente di fronte al film di Kusturica: i suoi contenuti ideologici sarebbero anche potuti far passare, con qualche accorgimento, come "condanna del totalitarismo comunista" (qualcuno ci ha provato), senonché il suo linguaggio si presenta assolutamente impermeabile a qualsiasi modello di mercato occidentale ed è questa refrattarietà che disturba. Il linguaggio è sostanza politica, oseremmo dire; non a caso, i neo-artisti sloveni parlano alla jankee o alla deutsch e già questo, prima di ogni e qualsiasi considerazione sulle tematiche da loro svolte, è il contrassegno di una loro sudditanza all’Occidente che non si racchiude entro i puri recinti dell’arte, ma vale come immagine sovrastutturalmente riflessa della generale svendita all’Occidente da parte borghese dell’insieme sociale sloveno.

Esiste, dunque, la possibilità di esprimere modi di vita e sentimenti non omologati, "al di qua" dell’ordine vigente, e questa è la sfida che Kusturica ha accettato e vinto. Essi non si salveranno, noi lo sappiamo, in una qualche riserva indiana, rimanendo "sé stesse" (vedi sopra la nota al libro di Handke), ma che essi si manifestino in questo vivissimo modo ci dice che non devono essere lasciati in consegna alla macchina per far dollari del capitale per essere da essa "reificati". Noi, che non siamo artisti (se non della rivoluzione, si spera), ne rivendichiamo le ragioni spostando in avanti le ragioni dello scontro. Non al cinema, ma nella realtà dell’antagonismo sociale (che avrà anche un suo cinema ad esprimerla: il che non significa un’arte "a servizio del partito", vuota formula stalinista, epperciò borghese).

Vogliamo aiutare l’arte, visto che ne abbiamo bisogno? Facciamo il nostro dovere di rivoluzionari per fare uscire la società dall’underground in cui essa è (soprattutto a partire dalle metropoli) rinchiusa e non ci mancherà un’arte che sappia esprimere anche questo movimento di liberazione.


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