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SI RIAPRE IL CAPITOLO-FOIBE: E' ALTRO CONCIME
PER IL NAZIONALISMO E L'ANTICOMUNISMO

Il post-PCI non finirà mai di stupire. Il 20 settembre di quest’anno la dirigenza triestina del PDS annuncia coram populo che va riaperto il capitolo delle foibe "titoiste" ai danni della "popolazione" italiana. Per troppo tempo, si dice, su di esso la sinistra ha steso un velo di prudente, omertoso silenzio, col risultato di lasciarne la gestione ai circoli nazionalistici ed irredentistici locali; è giunto, ora, il momento di riappropriarsene per... battere la concorrenza di destra. Perché le foibe furono un’azione anti-italiana, cioè contro lo stato italiano (quello di sempre, fascista, ciellenista, democristo ed ulivoide; mutino pure le insegne politiche, la nostra Patria è una!), ed essa va imputata ad un cieco livore nazionalista (il nazionalismo altrui è sempre una brutta cosa) coperto o fomentato da un’ideologia totalitaria (quella del "comunismo" di Tito). Il PDS, in quanto arci-italiano ed arci-anticomunista deve rispolverare la questione-foibe per dimostrare sino a qual punto abbia tutte le carte in regola in materia.

Con un sol colpo di spugna vengono cancellate non solo le mille voci della precedente bibliografia picista contro le "ignobili speculazioni della destra" a difesa dell’immacolata resistenza comune italo-jugoslava, ma tutto il concreto passato in ciò speso. Per fortuna, i Togliatti sono morti ed il codice penale, si sa, stabilisce che la morte del reo estingue il reato, col che ci si toglie il disturbo di azioni penali -autopromosse?- contro i propri (ex) "gloriosi capi". I sopravviventi della vecchia guardia compromessa con gli infoibatori sono dei tenentini di mezza tacca, dei Priebke, cui si può anche applicare la grazia. D’altronde, anche il post-MSI di Trieste non solleva in merito problemi di sorta dichiarandosi, per bocca della camicia nera Morelli, pago del fatto che il PDS si sia portato sul suo terreno di sempre e, casomai, chiedendogli di dimostrarsi in ciò consequenziale con la rivendicazione dei diritti italiani sull’Istria e dintorni strappatici dagli "infoibatori". Slavi e comunisti (quasi un sinonimo): brutte bestie, anche il PDS lo riconosce; un alleato in più -chi mai se lo sarebbe immaginato?!- sotto le bandiere di una Patria cui vanno stretti gli attuali confini.

Due parole nostre sulla questione.

Il fascismo mussoliniano, una volta giunto al potere, aveva sempre trattato relativamente coi guanti i propri oppositori connazionali e lo stesso Tribunale Speciale, una volta comminate pene severissime, lasciava poi adito a successivi atti di clemenza sparsi a piene mani salvo che ai (pochi) comunisti irriducibili. Ma nei confronti delle popolazioni slave il fascismo si comportò sin dall’inizio da feroce aguzzino, da colonizzatore sprezzante e feroce. Per gli oppositori slavo-comunisti non ci fu solo il carcere; ci furono i plotoni di esecuzione. Le terre appartenenti alle popolazioni slave furono sottoposte al controllo di una massa di burocrati occhiuti, magistrati e poliziotti inesorabili. Con la guerra l’occupazione militare italiana si estese sino alla "provincia (italianissima) di Lubiana". La popolazione slava fu ridotta, senza bisogno di foibe, di due milioni di unità -dai camerati tedeschi in primo luogo?, in ogni caso da camerati e, comunque, anche l’Italia seppe fare la sua parte!-.

Perciò l’odio contro quest’oppressione non poteva dirigersi soltanto contro la sovrastruttura fascista, ma contro l’oppressore italiano.Questo era quello che, inevitabilmente, sentiva l’operaio, il contadino, l’intellettuale, il piccolo-borghese, persino il prete slavo.

Non era (non sarebbe stato) un dato conclusivo: la permanenza di un movimento comunista in Italia e nel mondo capace di sollevare la questione dei "diritti nazionali" negati alle popolazioni slave, di mostrarne il nesso con la causa dell’emancipazione proletaria mondiale, di legare concretamente nella lotta emancipatrice le diverse frazioni proletarie nazionali del proletariato e degli sfruttati avrebbe stroncato sul nascere ogni velleità della borghesia nazionale jugoslava di volgere ai propri fini una "lotta di liberazione" entro i propri confini e per essi soltanto.

Così non fu. Cancellate ed infangate le tradizioni di lotta classista plurinazionale del passato (e della quale proprio la "regione giuliana" aveva offerto le migliori prove), ai singoli partiti "comunisti" ed ai singoli fronti nazionali di resistenza fu dato in consegna di battere ciascuno la propria via nazionale. Non era una semplice frammentazione per dividersi meglio il lavoro "comune", ma il sovvertimento dei principi stessi del comunismo. Anche con armi alla mano e garrire di bandiere rosse con tanto di falce e martello, si era chiamati ad una lotta borghese, tanto in Italia quanto in Jugoslavia, per quanto in quest’ultima (come più volte abbiamo detto) con motivi "risorgimentalistici" storicamente non del tutto ingiustificati -ove si guardi alla realtà jugoslavia chiusa in sé stessa- e con una partecipazione attiva delle classi oppresse che non si limitava ad agire da semplice supporto agli indirizzi della (latitante) grande borghesia nazionale.

Il PCI e le sue formazioni partigiane si trovarono, per forza di cose, a stretto contatto con il partito di Tito e le sue -vere- armate partigiane. Lottarono anche insieme, sino al punto che i "garibaldini" picisti si sottoposero militarmente, in zone e situazioni cruciali, alla direzione armata e politica titoista. Tuttavia, questa "lotta comune" doveva essere tale, nelle intenzioni del PCI, solo in quanto comune interesse a far fuori il nemico nazi-fascista per poi vedersela ciascuno in casa propria a seconda dei propri interessi nazionali. Trieste non tardò a diventare l’emblema vivente di questa contraddizione: la Jugoslavia di Tito la reclamava per sé ed altrettanto faceva l’Italia di Palmiro; non c’era, a volerla, nessuna Internazionale del proletariato. Così per l’Istria e la Dalmazia.

I "migliori", se così potessimo dire, tra i militanti "comunisti" italiani si schierarono, in nome di un internazionalismo ridotto a caricatura, con Tito perché in Jugoslavia vinceva la "rivoluzione socialista" ed essa, quindi, era la "vera patria" dei lavoratori. Si fosse vinto anche in Italia, non ci sarebbe stato alcun problema di confini statali, ma avremmo assistito all’allargamento del "mondo socialista" (sotto l’ala del grande padre Stalin). Questa forma corrotta di internazionalismo, s’è visto, non poteva concludersi che nel rivendicazionismo nazionalistico e statalista di Tito. Nulla di buono per noi.

In questa situazione di totale sbandamento, anche bande partigiane titoiste fuori controllo si diedero alla caccia all’italiano in quanto tale, sia pure in minima misura. Una maggior parte di responsabilità va agli elementi apertamente nazionalistici (e sciovinistici anche, sia pure di un "sciovinismo degli oppressi") convogliatisi nel fronte titino -in ogni fronte interclassista del genere, il controllore finisce per essere controllato...-. Ma il maggior numero delle vittime si registrò nella ventina di giorni succeduti all’8 settembre in seguito ad una spontanea insurrezione slava in Istria che "sembra assumere nei primi momenti la connotazione di una rivolta contadina, e come tale comportò episodi violenti ed improvvisi di uccisioni e giustizie "fatte da sé" ai danni di coloro che ci si era abituati a considerare i "padroni", cioè i fascisti e gli italiani. Ma è chiaro che questi fatti costituirono la "risposta" alla ventennale politica di sopraffazione e di snazionalizzazione del regime fascista". (Così Cristiana Colummi nel recente Storia di un esodo, Trieste, 1980: e chissà che oggi non debba ritrattare!). Il movimento partigiano di Tito c’entrò poco o nulla. E le vittime, stando ad un calcolo di un opuscolo ultranazionalista italiano del ’45, assommarono a 600 circa: da confrontare coi due milioni di morti jugoslavi sopra terra!

Nelle foibe caddero -in stragrande maggioranza- grandi e piccoli manutengoli del fascismo, ma anche "cittadini innocenti", è fuor di dubbio. E’ noto che per noi in una guerra non ci sono innocenti, ma c’è chi si schiera da una parte e chi dalla parte opposta; non schierarsi non assicura alcun lasciapassare. Non attribuiamo a crimine dei titoisti, per la parte che ebbero nella faccenda, aver applicato questa ferrea regola, ma il contenuto nazionalista borghese cui essa ubbidiva. Ma, in ogni caso, la responsabilità prima dei "crimini anti-italiani" che ciò ha comportato va a quell’assenza e negazione dell’internazionalismo che, per usare dei nomi, ascriviamo a Stalin e, giù giù, ai Togliatti ed anche ai Tito. Intendiamoci, dunque: la rivolta spontanea dei contadini slavi istriani era sacrosanta; non è stato sacrosanto l’indirizzo che ad essi si è, semmai, lasciato prendere, e ciò prescindendo dal numero delle vittime (che, come abbiam visto, costituiscono una goccia rapportata all’oceano di quelle slave).

Quello che è paradossale è che da parte del PDS, tuttora "erede della Resistenza", fino a prossime riconversioni, si rimproveri ai titoisti di aver agito contro gli italiani "in quanto tali" quando ai partigiani italiani si chiedeva di fare esattamente la stessa cosa contro i tedeschi "in quanto tali" (riconosciamo perlomeno a Tito di non aver rifiutato, e di aver anzi ricercato, la collaborazione politica ed armata degli elementi "progressisti" italiani, sia pure per i fini che s’è detto, e che nulla hanno a che spartire col comunismo). Erano occupatori in Italia i tedeschi? E cos’erano, di grazia, gli italiani in Jugoslavia, se vogliamo ragionare su questo piano nazionalista-borghese?

Ma è evidente che per il PDS di oggi, al pari di ogni altro schieramento "patriottico", l’Italiano per definizione non è mai un occupatore, ma un... esportatore di civiltà, specie se ci son di mezzo slavi e comunisti. Perciò si riscoprono oggi le foibe, per rivantare i diritti storici che l’Italia dovrebbe di nuovo rivendicare di fronte ai "selvaggi" slavi. Benito, più decentemente, osava dire. i nostri diritti imperiali.

Nel suo discorso d’insediamento alla presidenza della Camera Violante scoprì che, in fondo, partigiani e repubblichini, siamo tutti italiani e, se si è combattuto su opposte barricate, lo scopo ideale era per entrambi lo stesso: la Patria. E’ un accidenti che tra le due parti non si sia realizzata allora una comunanza di fronte. Oggi è possibile e doveroso farlo. Pacificazione. Sì, tutti pacificati sotto la bandiera nazionale, sotto la bandiera di un patrio capitalismo cui si augurano nuovi "posti al sole".

Il tutto all’insegna dell’"antitotalitarismo", che non mira a colpire il titoismo puro e semplice, ma, una volta di più, l’idea del comunismo. E’ l’idea stessa di una lotta anticapitalista ed internazionalista, che ancora pulsava, sia pure deformata e tradita, nei cuori di quei partigiani -italiani e slavi- che pensavano di lottare per il comunismo e nel comunismo credevano, ciò che va definitivamente cancellato oggi.

La nostra posizione? Usando il "se" per dichiarare le nostre posizioni (non per dire come ci sarebbe piaciuto fosse andata o dovesse andare la storia, che è un non-senso) diciamo: un partito comunista internazionale autentico avrebbe unito in un sol fascio proletari italiani e slavi e di ogni altra parte del mondo in un proprio esercito ferreamente centralizzato, inesorabilmente "totalitario", avrebbe aiutato gli jugoslavi a liberarsi con esso ed in esso, liberandosi in primo luogo dalle proprie ipoteche nazional-borghesi, avrebbe, senza discriminazione nazionale alcuna, infoibato tutti gli sfruttatori e tutti i manutengoli di essi. E’ esattamente la mancanza di questo organo che ha provocato massacri -solo in minima parte anche da parte di Tito- esecrandi, lo ribadiamo, non per il numero delle vittime né per la storicamente astratta loro qualifica di "innocenti", ma per le finalità controrivoluzionarie di cui essi sono stati espressione e strumento.

Questo è il dato vero, comunista, della questione. Se ne rendano conto a tempo i proletari italiani distratti da quest’ultima commedia patriottarda (e fascista). E i proletari jugoslavi colgano in essa un motivo di più per comprendere come l’imperialismo occidentale tenda a colpirli di nuovo, ed in maniera più inesorabile che mai, una volta realizzata dalle democrazie di costì quel sogno di smembramento della Jugoslavia che al fascismo non riuscì e che il titoismo valse solo ad impedire per qualche misero decennio essendosi chiuso nei limiti di una (pur rispettabilissima) lotta nazional-popolare borghese.

Si è sempre derisa ed insultata la nostra tesi che il fascismo ha perso la guerra ma vinto il dopoguerra, ereditato dalla democrazia. Oggi vediamo quanto questa "boutade" si riveli vera: partigiani e repubblichini sono democraticamente chiamati a sposarsi in nome della comune bandiera nazionale, più democratica, più fascista che mai...

Cosa andiamo a fare:

"Il vostro compito in queste terre è grande. Voi avete il gravoso ma nobile incarico di riportare queste terre alla vita, alla religione, alla famiglia. (...). Avete il gravoso incarico di eliminare da queste terre quella terribile malattia che si chiama propaganda comunista, malattia che fa presa facilmente su questa gente che per decenni è stata abbandonata da tutti. Dovete far comprendere loro che voi non potete mai permettere che così vicino a casa vostra viva della gente che gode della morte e della distruzione, della gente che magnifica l'ozio e gli altri vizi. (...). Noi siamo in queste terre tormentate, che sempre hanno portato guerre e distruzioni, per ricondurle ai principii di collaborazione fra la gente civile, per ricordare loro che Patria, Religione e Famiglia sono le fondamenta della vita civile. Per riportare loro i grandi vantaggi della civiltà che Roma aveva già portato in altri tempi e che la interessata politica di tutti i dominatori di queste terre aveva cercato di far dimenticare."
(da La Tradotta, del 5.7.1942)

Come andiamo a farlo:

"Eguale nello scopo [a quelle che combattiamo in ogni altro fronte], la nostra lotta [in Balcania] è diversa però da ogni altra nella forma: combattuta contro un nemico nascosto che ferisce dall'ombra e fugge sfruttando la conoscenza del terreno, protetto dalla connivenza delle popolazioni. (...) Questi che inseguiamo per i boschi e le rocce di Balcania, banditi non soldati, belve piuttosto che uomini, (...) noi li inseguiamo ovunque, dobbiamo stanarli come belve dagli impenetrabili boschi, giudicarli e punirli senza pietà." (da La Tradotta del 27.9.1942)

"Noi già sappiamo quale sorte tocca ai nostri ufficiali e sottoufficiali quando cadono nelle mani dei partigiani. Fucilazio. (...) L'atto sanguinario della fucilazio ricade come vendetta per tanti assassinii sul groppone dei carnefici perché noi, i nostri martiri li vendichiamo e li vendicheremo sempre. Cento occhi per occhio, cento denti per dente."
(da La Tradotta, del 26.4.1943)

 

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