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MEDIO-ORIENTE: LA PRIMA E L’ULTIMA PAROLA DELL’IMPERIALISMO E': GUERRA AGLI SFRUTTATI!

"E’ proprio un brutto momento. Un nuovo disordine minaccia di uccidere l’esile embrione di quel ‘nuovo ordine’ che la vittoria senza trionfo di Bush nel Golfo avrebbe dovuto assicurare al Medio Oriente e che gli accordi di Oslo avevano fatto sperare non fosse troppo lontano": così Igor Man su La Stampa del 4.9.’96, a commento, appropriato, sulle ultimissime dal fronte iracheno.

Nel n. 21 del Che fare avevamo anticipato questa linea di sviluppo degli eventi sostenendo che con il massacro compiuto in Iraq l'Occidente aveva riportato una vittoria "tanto piena sul piano militare quanto fragile sul piano socio-politico". L'imperialismo americano ed i suoi soci-avversari, sostenevamo, non dispongono infatti che di "pseudo-soluzioni inconsistenti e reazionarie" per i problemi degli oppressi e dei popoli arabo-islamici, "che la lotta rivoluzionaria degli sfruttati farà inesorabilmente fallire".

E' proprio quest’ultimo punto che vogliamo sottolineare.

Il "nuovo ordine mondiale" in Medio Oriente si è rivelato instabile anzitutto perché si fondava su un presupposto che è mancato: la acquiescenza passiva, servile delle masse arabo-islamiche agli... ordini, appunto, del capitale e dei grandi stati imperialisti. Ordini apportatori di fame, supersfruttamento, sub-umana degradazione e sanguinaria oppressione per milioni e milioni di persone. L’Occidente sperava di essersi garantito quest’acquiescenza che gli è così vitale attraverso la "lezione" inferta all’Iraq (alle masse irachene). Legge e ordine: le classi decadenti non conoscono che la frusta per cercare di fermare la storia, la rivoluzione storicamente incombente. Ma il calcolo è risultato errato. Non solo la resistenza delle masse medio-orientali si è riaccesa perfino laddove, come in Palestina, si è cercato di spomparla con qualcosa che poteva esser scambiata per una concessione. Non solo essa sta scavando sotterranei cunicoli nelle fondazioni sempre più traballanti delle petrol-monarchie arabe. Ma quanto l'influenza dell'"anti-imperialismo" islamico, che quella resistenza ha alimentato, s’è andata estendendo in ogni direzione, in Africa, nell’Asia orientale, passando per le Filippine, l’India, il Bangla Desh e l’Indonesia e ancor più sorprendentemente ha colorato di islamico il risveglio della lotta dei neri nord-americani.

In Medio-Oriente è il proletariato, l’esercito degli sfruttati arabi e islamici, -e non sono i Saddam, i Khamenei, i Gheddafi o gli Hezbollah-, il fattore veramente irriducibile al "nuovo ordine mondiale". E’ questo che fa paura, "terrore", al super-capitalismo occidentale. Fa paura il suo numero anno dopo anno grandeggiante (il numero è già di per sé forza reale, e non semplicemente potenziale). La sua disposizione militante a sacrificarsi nello scontro (bene oramai rarissimo nelle fila dei supporters dell’imperialismo, pur se ben pagati, anzi: sopratutto se ben pagati). Fa paura la sua incessante manifestazione di ostilità verso l’Occidente, identificato giustamente con l’oppressore, col nemico secolare da battere. Fa paura il fatto che esso esprima un bisogno sempre più consapevole di unità sovranazionale degli sfruttati nella lotta all’imperialismo, si tratti pure soltanto dell’unità degli islamici. Ed i Saddam, i Khamenei, i Gheddafi, gli Assad, gli Hezbollah etc., l’anti-imperialismo borghese e piccolo-borghese arabo o islamico, in tanto sono per USA e soci, dei bersagli da colpire, normalizzare o -perfino- distruggere con ogni mezzo in quanto rinfocolano, sebbene in modo mai coerente e adeguato, la resistenza anti-imperialista degli sfruttati. Una resistenza che i Clinton, i Kohl, i Prodi temono perché insieme con il "nuovo" ordine medio-orientale erode, con il compromesso metropolitano tra capitale e lavoro, tutto il vecchio putrido ordine capitalistico mondiale.

(Naturalmente nella presente instabilità mediorientale giocano un ruolo anche le contraddizioni inter-imperialiste la cui crescente acutezza si è palesata nell'ultima crisi irachena, le contraddizioni tra le borghesie e gli stati borghesi dell'area e gli interessi imperialisti, la concorrenza e le frizioni sempre sull'orlo dello scontro armato tra le borghesie dell'area ed infine, v. la vicenda curda e quella palestinese, irrisolte questioni nazionali. Pertanto queste note, facendo astrazione dalla esplicita considerazione di tutto ciò, sono parziali: è sicuro, però, che l'elemento decisivo di questa instabilità, e sopratutto dell'uscita rivoluzionaria da essa, è quello che abbiamo indicato.)

Ma se questo è vero, c'è da chiedersi: come reagiranno gli stati imperialisti, e gli USA per primi, al "brutto momento" che i loro progetti di "pacificazione" stanno correndo in Medio Oriente? Abbandoneranno questa regione a sé stessa, alle sue "irrazionalità", alle "primitive" e "barbariche" passioni e ambizioni, che portano i suoi abitanti ad "ammazzarsi a vicenda per dominare pezzi di deserto" (citiamo dall’oscena prosa razzista di Arrigo Levi sul Corriere del 2.9)? Si rinchiuderanno in un "egoistico""isolazionismo" pacifista e mercantile? Affonderanno nel "pantano" della indecisione (?!) onuista o nella "viltà" senza principi di un’Europa disposta a dimissionare dalla sua missione di civiltà (citiamo dal giornalismo-killer di Renzo Foa, su L’Unità del 4.9)?

Niente di tutto ciò, mascalzoni matricolati. Potete deporre i vostri angosciosi interrogativi. Il pericolo che paventate non c’è. Il capitalismo è anti-isolazionista fin dai suoi albori, segnati dagli altruistici viaggi transoceanici di "missionari di Cristo" del rango di Cristoforo Colombo e Cortes, e non rinuncerebbe a un’occasione di profitto neanche se per afferrarla ci si dovesse infilare nei "buchi neri" dell’universo. E proprio nella creazione del mercato mondiale (e della storia mondiale) sta il suo incancellabile merito storico. Altrettanto geneticamente il capitalismo è anti-pacifista, coatto com’è, fin dalla sua partenza storica, alla violenza e alla guerra di sterminio (inaugurata appunto da quelle prime spedizioni) ogniqualvolta i metodi pacifici di sfruttamento e la "pace" non ne soddisfino le aspettative di accumulazione. E tale il capitalismo è rimasto, poiché non è in grado di cambiar la sua natura più di quanto un coyote sia in grado di mutarsi in una maliosa bougainville. Anzi se in una direzione esso è cambiato muovendosi lungo il tracciato obbligato delle sue immodificabili leggi di funzionamento, è proprio nel senso di accentuare la sua "vocazione" mondialista ed il suo tasso di militarismo.

Dunque: né "isolazionismo", né "pacifismo", bensì giusto il contrario: da parte degli stati imperialisti un salto all’in sù dell’interventismo bellico a scala universale, nessun angolo di deserto escluso. E’ questa la prima conseguenza, dentro la regione e al di là di essa, del nuovo "disordine medio-orientale". Se già dopo la guerra del Golfo, gli USA hanno dovuto insediarsi con le proprie armate in Arabia Saudita, in Kuweit e ora anche in Giordania, la crescita dell’instabilità in Medio Oriente obbligherà l’imperialismo a ingerirsi sempre più in profondità in questa regione, in prima persona e con mezzi sempre più violenti, armi atomiche incluse. Tutto l'imperialismo. Anche quella Francia che assume la nauseante posa di paladina del "popolo iracheno" con le mani grondanti di sangue algerino, africano, martinicano etc. O quell’Italia inarrivabile nell’ipocrisia pretesca (in cui l’Ulivo continua la grande tradizione nazionale) con cui tiene bordone a tutte le "imprese" contro i popoli di colore, dolendosi poi del dolore dei colpiti. E va da sé che un ruolo particolare, da punta di lancia di questo attacco, spetterà -come da mezzo secolo in qua- allo stato di Israele.

Proprio per lo sviluppo ormai secolare che ha preso in Medio Oriente la lotta anti-imperialista degli sfruttati (lotta che si fonda dialetticamente su un certo sviluppo del capitalismo); proprio per la profondità della crisi dell'ordine imperialista; all’interventismo occidentale, per assicurarsi il petrolio e il gas di quest’area a prezzo-zero e, più in generale, i suoi "diritti" di sfruttamento, non basta più balcanizzare la regione, come fece con l’accordo Sykes-Picot del 1916 e con il trattato di Losanna nel 1923. Deve sempre più tentare di libanizzarla, di trasformarla in una congerie di protettorati ancora più minuscoli e il più possibile in permanente contesa tra loro ed al proprio interno, sì da essere per intero alla mercè dei propri plurimi padroni, come lo è stato il Puk "marxista-leninista" (!?) di Talabani nella recente crisi curda. Se non interverrà in scena, finalmente, la sola contro-soluzione possibile, quella comunista rivoluzionaria con protagonista il proletariato occidentale e gli sfruttati arabo-islamici fraternamente uniti nella guerra a morte al capitalismo, quello che ci aspetta è una generalizzazione del "modello Iraq" e del "modello Kurdistan iracheno", insieme. Uno stato-nazione ridotto al rango di pariah e diviso in tre, perché osò ribellarsi, quindi affamato e strangolato perché non si pentì abbastanza ed abbastanza in fretta, e poi ora ulteriormente decurtato di un parallelo di cielo perché non si è tenuto ai patti. Uno stato a cui si potrà accordare un minimo di respiro e di movimento -sotto controllo- solo se "noi" supersfruttatori del mondo avremo bisogno di far scendere il prezzo del greggio, di spremere una massa aggiuntiva di lavoro, di contenere l’Iran, di bastonare qualche pò di curdi irrequieti o, naturalmente ed in primis, di passar per le armi delle avanguardie comuniste del proletariato. Per le "minoranze nazionali" oppresse, invece, curdi, palestinesi, etc., neanche la possibilità di uno stato-pariah, ma solo la prospettiva di una limitata "autonomia", di vivere (o meglio: sopravvivere) in mini-entità sub-statali sotto mandato, purché accettino disciplinatamente il ruolo di popoli-schiavi o, peggio, di popoli-ascari in servizio permanente effettivo alle dipendenze dei loro mallevadori occidentali.

Ed è inutile dire che per l’Occidente frammentare gli stati, i paesi, le nazioni, i popoli del Medio Oriente, libanizzare questa regione non è che la strada per frammentare il proletariato e la schiera immensa degli sfruttati e scagliarli, così divisi, gli uni contro gli altri. Per creare mille nuovi impedimenti alla riunificazione del proletariato internazionale.

Iraq, Iran, Libia, Palestina, Siria, Libano, Sudan, Algeria, Somalia... l'intero Terzo Mondo. La prima e ultima parola dell’imperialismo in crisi è la guerra agli sfruttati di colore come mezzo per riaffermare e intensificare lo sfruttamento capitalistico lì e nelle metropoli.

Che le masse oppresse arabo-islamiche non cesseranno di rispondere a questa guerra è per noi cosa certa. Come è certo che per un tratto ancora l’insegna formale che guiderà questa guerra sarà l’islamismo, un indefinito, illusorio -e non proprio anticapitalistico- "programma" di instaurazione della "comunità islamica". Continuerà ad esserlo pur se i capi dei movimenti islamisti, sopratutto quelli già al potere, non poco han fatto e di più faranno per deludere le speranze terrene di liberazione dei propri "fedeli", solo perché mancano un’Internazionale comunista e una prospettiva comunista praticabile. Ma non si accampi ciò a scusante per tirarsi fuori dallo scontro "spurio" di oggi. La ricomparsa in campo dell’una e dell’altra non cadrà dal cielo: dipende anche dal sentire la guerra anti-imperialista degli sfruttati di colore come la nostra guerra, e dalla piena partecipazione militante ad essa. Chi questo non intende, ed a questo non si conforma, è fuori dal solco della ripresa rivoluzionaria di classe, fuori dal solco dell’internazionalismo comunista.

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