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Situazione politica italiana

L'OBIETTIVO DEL GOVERNO PRODI:
NARCOTIZZARE IL PROLETARIATO

Indice

Dopo la manovrina di giugno e, soprattutto, dopo il varo del documento di programmazione economica per il prossimo triennio diversi compagni del Pds e del Prc ci hanno detto: avete visto, con il governo Prodi, al contrario di quanto avevate denunciato, "stanno finalmente prevalendo le ragioni dei lavoratori"! La destra è stata davvero battuta e, finalmente, va cominciando una nuova epoca!

Le cose stanno così? I primi passi del governo sono davvero l’inizio di un "risanamento" dell’azienda-Italia che salvaguardi lo stato sociale e i salari, rilanci l’occupazione e dischiuda una nuova era di armonia tra la borghesia (almeno quella "moderata") e la classe operaia?

Ci ragioniamo su dato che la cosa ha a che fare con i nodi politici che il proletariato avrà davanti a sé quest’autunno (e più in là).

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1994: fuga dalla realtà?

Innanzitutto una chiarificazione. Noi comunisti organizzati nell’OCI valutiamo il segno di classe di un governo e l’atteggiamento del proletariato verso di esso secondo criteri non basati su una contingente contabilità economicistica. Ciò che è decisivo è lo spostamento dei rapporti di forza tra le classi indotto dal governo e dai suoi atti. E per vedere in qual senso lavora l’attuale esecutivo (anche attraverso i suoi provvedimenti di "equo" e "indolore" risanamento del bilancio pubblico) è utile ritornare al fatidico 1994.

Berlusconi segnalò allora a tutta la borghesia l’urgenza di muoversi nell’unica direzione che può permettere all’Azienda-Italia di tenere botta nella guerra (per ora economica) scatenatasi sul mercato mondiale, e cioè: definizione di un blocco borghese unitario e conseguentemente anti-proletario, rottura definitiva del compromesso sociale stabilito con la classe operaia nell’epoca, ormai defunta, delle "vacche grasse", tentativo di irregimentarla dietro una aggressiva politica estera. Il guizzo del cavaliere, che ricevette l’appoggio di tutta la borghesia (ricordate la famosa cena?), è fallito per l’incapacità dell’alleanza di destra da lui raccolta di trasformarsi in un vero blocco sociale e politico nello scontro con il movimento dei lavoratori dell’autunno ’94.

La parola passa oggi ai suoi "avversari" di centro-sinistra. Con la benedizione della grande borghesia. Significa che il grande capitale italiano ci ha "ripensato" e s’è riconvertito a una politica di "mediazione sociale", come all’inizio degli anni sessanta, e come sembrano far trasparire le posizioni di Romiti su Maastricht? Neanche per sogno. La grande borghesia continua a mirare agli stessi obiettivi per i quali aveva puntato su Berlusconi. Le stesse dichiarazioni di Romiti, se ben lette, non lasciano dubbi. Né potrebbe essere diversamente, visto che il corso del capitalismo italiano e internazionale non ha conosciuto -né lo potrà- alcuna inversione tale da permettere alla borghesia di tornare, se pur lo volesse, a un rapporto "consociativo" con il proletariato.

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Logorare, per tornare a colpire.

E’ vero, infatti, che le imprese italiane hanno ripreso a mietere profitti, ma esse, e il capitalismo nazionale nel suo insieme, hanno perso in capacità di tenere il passo sul mercato globale con i concorrenti imperialisti quanto a investimenti strutturali e ristrutturazione. Nell’ultimo anno, inoltre, si son ridotti gli spazi di manovra immediati (per esempio, la svalutazione), soprattutto verso i partners europei. La conseguenza è che, anche senza una nuova recessione, la "sfida della globalizzazione" obbliga tutta la borghesia nostrana a procedere, più che in passato, sulla via dello smantellamento dello stato sociale, della liberalizzazione del mercato del lavoro e della riduzione dei margini di contrattazione del proletariato.

Il grande capitale sostiene, allora, il governo dell’Ulivo perché pensa che può realizzare meglio della destra, senza minare la pace sociale, le misure di lacrime e sangue che la destra è stata incapace di imporre? Qualche borghese può aver coltivato l’illusione, ma i primi mesi del governo Prodi glie l’hanno già bruciata (tanto che Il Corriere della Sera il 23 luglio tranciava netto: "per fare la politica di destra ci vuole un governo di destra"). Bruciata, aggiungiamo noi, non perché il governo Prodi non sia un difensore dell’economia capitalistica e non si faccia interprete delle sue esigenze, ma perché non può evitare di tener conto, in qualche misura, degli interessi immediati del suo blocco sociale di riferimento, che comprende quegli stessi lavoratori che le leggi di mercato esigono oggi siano stritolati nelle loro condizioni e nei loro diritti.

Il grande capitale continua a trovare nel governo dell’Ulivo il centro della sua iniziativa politica unicamente perché -oggi come oggi- non è in grado di tornare a una politica di assalto al proletariato e, in attesa di ricostituirne le condizioni, cerca di spremere il limone della sinistra, dal cui inserimento nell’area di governo si aspetta non tanto dei benefici economici, quanto un goal politico: la paralisi del movimento operaio e lo svuotamento delle sue organizzazioni, così da poter riprovare a colpire i lavoratori frontalmente in condizioni più favorevoli con un rinnovato schieramento di centro-destra.

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"Poteri forti", riformismo debole!

Che si tratti di nostre dietrologie non si può dire, se è vero che anche D’Alema è stato costretto a denunciare il pressing dei "poteri forti" sul governo Prodi e tra le stesse fronde dell’Ulivo. Cosa ha detto D’Alema? Primo: "ci sono forze del mondo economico italiano, che controllano la stampa," che vedono "come un danno" "qualsiasi forma di autonomia politica della sinistra" e "concepiscono l’Ulivo contro questa autonomia" e come sgabello per "una linea di rottura istituzionale", per "una leadership elitaria e salottiera", "tecnocratica". Secondo: questi "poteri forti" chiedono l’estromissione di Rifondazione dalla coalizione e il suo allargamento a destra per perseguire l’obiettivo di fondo e imbrigliare "l’eccessivo potere di ricatto del sindacato" e lo stesso Pds (o meglio, precisiamo noi: quanto resta della base proletaria militante che si esprime nelle sue maglie organizzative!).

D’Alema ha tratto, forse, da ciò la conseguenza di considerare i "poteri forti", la "borghesia moderata" che controlla certa stampa liberal ,come un avversario di classe della sinistra da trattare con i modi dovuti? O quella di fare i conti nella sinistra con i guastatori interni alla Veltroni e di puntare a ricostituire l’unico mezzo capace di fronteggiare i "poteri forti" e cioè la forza di un vero partito comunista? Niente di più lontano dal suo pensiero. Sono disposto, ha invece detto, a limare ulteriormente il protagonismo delle organizzazioni operaie in cambio del nostro inserimento nella stanza dei bottoni (non ho già proposto l’eliminazione definitiva della falce e martello dal simbolo?); questa limatura, però, può arrivare fino a un certo punto perché altrimenti "la classe dirigente non avrebbe nessuna autonomia rispetto ai poteri forti" e non potrebbe realizzare l’obiettivo riformista dell’Ulivo, che è sì quello di "proporsi alla borghesia moderata (e magari diffidente) come la compagine in grado di modernizzare il paese" ma anche quello di "saper interpretare la domanda di giustizia sociale e di uguaglianza di tanti lavoratori, anche quelli che danno fiducia alla sinistra estrema". La solita quadratura del cerchio, che il grande capitale accetta (per il momento) di far operare nella coalizione governativa non perché sia convinto che possa realizzare fino in fondo la modernizzazione capitalistica del paese a cui esso punta, ma perché gli permette di conseguire proprio ciò che D’Alema vorrebbe evitare: l’anestesia totale del proletariato.

La risultante di queste due spinte contrastanti agenti nel governo, quella di un D’Alema e quella dei Dini, Maccanico, Di Pietro, è una serie di tira e molla nelle retrovie dei palazzi romani e il varo di provvedimenti che tentano di conciliare l’inconciliabile, che partono in una direzione e vengono bloccati dalla spinta opposta. E’ quanto è successo con la manovrina e il dpef (ed è probabile che finisca così anche sul terreno in cui il governo sembra avere più chance, quello della riforma della pubblica amministrazione in chiave razionalizzatrice e efficientista). L’effetto politico nel proletariato di questo tira e molla e dei suoi risultati è la diffusione spontanea di una speranza disarmante: d’accordo, si dirà, questa tattica di D’Alema (con la sponda bertinottiana) non sarà il massimo, ci costringe -è vero- ad ammacchiare la nostra "visibilità" nella società, ma almeno qualcosa sembra che ricominciamo a portare a casa, e in futuro, pian pianino...

Questa speranza, a sua volta, alimenta una disastrosa reazione a catena: induce i lavoratori a paralizzare le proprie organizzazioni e a delegare sempre più la rappresentanza dei propri interessi ai giochi parlamentari e istituzionali (quando invece la partita reale si gioca tutta al di fuori del "palazzo"!); questo fa sì che, nelle fabbriche, i padroni (anche gli ulivisti) possono sferrare con maggiore facilità i colpi contro i lavoratori e i loro organismi (non dice niente quanto accade nel pianeta Fiat, nelle tante fabbriche in cui si continua a licenziare o nel rinnovo del contratto metalmeccanico?); questi nuovi passi indietro sui posti di lavoro, a loro volta, vanno sfibrando ulteriormente la forza organizzata e l’unità generali della classe operaia... con grande gioia di chi, "poteri forti", padroncini leghisti e loro omologhi meridionali, non si prepara ad altro (ognuno a modo suo) che a tornar all’assalto...

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Assecondare la linea del minimo sforzo?

Il compito di una forza comunista autentica è quello di mettere in guardia i lavoratori dalle illusioni cauzionate dai vertici riformisti, di denunciare l’attacco politico che c’è dietro i provvedimenti "indolori" di Prodi, di contrapporre alla tattica delle "sinistre" la necessità per il proletariato di muoversi autonomamente dal governo sul terreno extraparlamentare, con i mezzi della lotta di classe e dietro un vero programma di classe, come unica via per parare l’assalto che preparano i "poteri forti", rintuzzare i colpi dei padroni nei posti di lavoro, frenare e condizionare l’azione anti-proletaria del governo.

Rifondazione, che a parole aspira a rappresentare la "sinistra antagonista", fa l’opposto di tutto ciò: canta vittoria, cauziona il rilassamento immediatista che si sta insinuando nel proletariato, utilizza il "successo" sul depf per far rinculare quel tanto di disponibilità all’organizzazione e al programma autonomo di classe che sopravvive, presentando a "garanzia" di ciò il parlamento, il ruolo istituzionale del partito "comunista" e agitando lo spettro della destra per predisporre il proletariato a inghiottire ulteriori bocconi amari pur di "difendere le proprie trincee". In questo modo agevola (sia pure in buona fede) l’opera portata avanti dalla grande borghesia. (Quel che si combina intorno alla commissione bicamerale non dovrebbe, compagni del Prc, avvertirvi di ciò che si prepara all’orizzonte?).

Su questo versante la grande borghesia può vantare, dunque, un segno positivo (nell’interesse di tutte le classi sfruttatrici, internazionali e nazionali). Più critici, confusi e contraddittorii sono i risultati delle sue mene sull’altro versante, quello della ridefinizione di uno schieramento di ricambio a cui affidare, ringraziate le "sinistre" con i doverosi calci nel sedere, un nuovo affondo anti-proletario.

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Portarsi fuori dal pantano

Ci sono al momento una scomposizione del Polo, continui tentativi di ritessere una tela dal centro, attraverso le mani di Dini, Scalfaro, Ciampi, Di Pietro. Il tutto, però, è fatto in modo manovristico, trasformistico e senza che si enuclei un nocciolo borghese ricompositivo, né in termini programmatici, né organizzativi. Sì, diverse ipotesi sono in campo (la grande coalizione che dalle riforme istituzionali si estenda ai temi economici, il governo extraparlamentare, la maggioranza variabile), ma, oltre a mille difficoltà a tradursi in atto, esse sono ancora un terreno transitorio. Sloggiare del tutto fin dall’autunno il Pds dal governo è, infatti, problematico, dato che stenta a strutturarsi un qualcos’altro di più compiuto da un punto di vista borghese. Si dovrà, perciò, continuare per un pò a tener conto delle spinte della sua base sociale, con tutto ciò che ne consegue.

Per un vero "contro-ribaltone" non bastano semplici rotazioni ministeriali, serve uno spostamento di forze reali, ed è la cosa che la grande borghesia fatica a fare. Non perché ne manchino i fattori potenziali (il livore anti-proletario cresce in tutti gli strati borghesi), ma per cause che attengono sia a fattori strutturali legati ai meccanismi di funzionamento e alla crisi del capitalismo internazionale, sia (le due cose, distinte, sono tuttavia connesse) al corso della lotta di classe in Italia e in Occidente dagli anni Venti a oggi.

Rimandando a quanto scritto in proposito nei numeri precedenti, notiamo qui che, sul primo versante, la situazione italiana s’è ulteriormente aggravata. Da un lato, il ritardo nell’adeguamento strutturale dell’apparato capitalistico nazionale produce una perdita di autonomia rispetto ai centri trainanti dell’imperialismo, al di là dei bruti conto di profitto immediati. Dall’altro la relativa tenuta di questi ultimi anni ha amplificato la spaccatura tra Nord e Sud e all’interno dello stesso Nord. Il risultato è che le zone del paese che aumentano la compenetrazione con i poli europei maggiori, lo fanno al prezzo della crescita della loro dipendenza da essi e al prezzo di veder scemare la possibilità di usare a vantaggio dell’imperialismo italiano nel suo insieme le diseguaglianze di sviluppo interne al paese.

Qualche compagno potrebbe dire: come proletariato, cosa potremmo volere di meglio di un avversario così diviso e in difficoltà? Certo, non ci sarebbe niente di meglio, SE, se il proletariato fosse in campo e su una linea di classe. Il che invece non è: oggi non solo è sempre più impantanato nelle sabbie mobili della politica borghese, ma si va convincendo (anche grazie ai fuochi fatui di Rifondazione) che può anche rimanervi a galla. Ma così non sarà. Non potrà essere.

Il fatto che il grande capitale e lo stato borghese non siano, al momento, in grado di guidare tutta la classe capitalistica a un attacco frontale contro il proletariato, non implica che i vari spezzoni della borghesia italiana vi rinuncino. Il vortice del capitalismo internazionale e la necessità di recuperare il tempo perduto con i cincischiamenti prodiani gli faranno anzi sentire ancor più intensamente l’urgenza di mettere sotto torchio il proletariato del proprio settore, della propria regione, della propria impresa.

E se non saranno in grado di farlo come classe nazionale, le varie frazioni borghesi, sotto l’azione magnetica dei poli imperialisti più forti (che, al riguardo, stanno tutt’altro che con le mani ferme), attaccheranno ognuna per sé, in concorrenza le une con le altre. Puntando tutte a frantumare e irregimentare il proletariato "di loro proprietà". E potranno farlo tanto più agevolmente quanto più sarà andata in profondità l’azione di paralisi e di divisione del movimento operaio che i mercati (interni e internazionali) cercano di realizzare attraverso il governo Prodi.

In tutto ciò il il movimento operaio italiano sta imboccando una strada già percorsa in altri paesi europei con risultati fallimentari. Fallimentari non perché i governi di centro-sinistra siano stati l’ultima parola dell’attacco capitalistico, ma perché vi hanno predisposto il terreno attraverso la smobilitazione del proletariato (e la consegna alla demagogia delle destre di ampi strati di lavoratori). E’ già accaduto in Francia, in Spagna, in Inghilterra. Si prepara anche in Italia (con una di quelle tipiche accelerazioni che caratterizzano lo scontro politico nell’epoca dell’imperialismo), con l’unica variante che la svolta a destra potrebbe qui avvenire in modo centrifugo.

Il proletariato deve prepararsi per tempo alla resa dei conti non concedendo alcuno sconto al padronato e al governo Prodi, lottando apertamente contro il virus del leghismo e del federalismo. Per far questo è urgente reagire alla deriva prodotta dalla politica delle "sinistre", ricostuire la sua autonomia su un programma fondato sui propri autonomi interessi e affrancato da ogni subordinazione al capitalismo e alle sue leggi.

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