[che fare 40]  [fine pagina] 

Situazione politica italiana

SECESSIONISMO E UNITARISMO BORGHESE:
DUE FACCE (ANTIPROLETARIE) DELLA STESSA MEDAGLIA

Indice

La Lega getta l'amo ai proletari del Nord: tagliando i ponti con uno stato marcio, ci guadagnerete.
E' una menzogna!
Ci hanno forse guadagnato i lavoratori sloveni o quelli croati dalla disgregazione jugoslava?
Si sono solo indeboliti e impoveriti di fronte ai loro padroni locali, più schiacciati che mai dal meccanismo del capitale mondializzato!
Eppure l'iniziativa reazionaria della Lega pone una questione ineludibile: questo Stato borghese che vive del lavoro e del sangue dei salariati non si può riformare!
Né va sostituito con un nuovo stato più piccolo ma altrettanto, se non più, parassita.
Va sbaraccato con un movimento e un'azione unitari di classe.

A ogni "provocazione" la Lega registra un avanzamento delle proprie posizioni, costringendo gli altri ad accettare il confronto su un terreno a essa più favorevole e da cui è sempre più difficile farla retrocedere.

Dal "federalismo spinto" si è arrivati al secessionismo, passando per il Parlamento e il Governo del Nord, le "camicie verdi" e la ribellione fiscale, per ricordare gli episodi più clamorosi. Atti concreti, inequivocabili nella loro direzione di marcia, accompagnati volta a volta da dichiarazioni "rassicuranti" della stessa Lega, interessata a introdurre per dosi omeopatiche il virus secessionista affinché l’organismo sociale e politico cui viene somministrato si abitui a sopportarlo e a conviverci, fino a ritenerlo ineluttabile.

Ma come è stato possibile al fenomeno leghista crescere in maniera così prepotente senza trovare nessun serio contrasto? Come mai alle successive provocazioni di Bossi si è sempre risposto con sufficienza, blandizie, o peggio ricercando con lui l’alleanza politica?

 [indice] [inizio pagina] [next] [fine pagina]

La "sottovalutazione" della Lega

Considerandola una malattia passeggera, dovuta alla transizione dalla prima alla seconda repubblica, quasi tutti i partiti hanno considerato il leghismo come un fastidioso sintomo di malessere facilmente riassorbibile nella "normale" dialettica politica.

Anzi, proprio perché raccoglieva crescenti consensi elettorali, si è scatenata la rincorsa tra destra e sinistra a chi meglio sapeva far proprie le "istanze" di cui si faceva portavoce la Lega, per lucrare a proprio tornaconto quella fetta di elettorato nella ridefinizione dei nuovi equilibri istituzionali e politici che si andavano formando.

Ma il motivo più profondo per cui i vari partiti borghesi hanno guardato alla Lega, non tanto e non solo come a un temibile concorrente, ma come potenziale alleato, è legato al programma economico e sociale sostenuto dalla Lega. Un programma di sfrenato liberismo che mira, da una parte, a sradicare qualsiasi meccanismo di "protezione sociale" per i lavoratori, a frantumarne gli elementi organizzativi unitari per sottometterli, indifesi, alle impersonali leggi del mercato, e tende, dall’altra, a diminuire al minimo gli "oneri" per i ceti borghesi e a finalizzare le risorse pubbliche a sempre più esclusivo sostegno dell’accumulazione capitalistica. Non è forse, sia pure con diverse sfumature e accentuazioni, la sostanza del programma degli altri partiti borghesi? Non è forse l’obiettivo centrale della Confindustria e l’imperativo ossessivamente ripetuto da tutta la grande stampa? E lo stesso Pds non è forse tutto proteso alla tutela di una maggiore competitività del "sistema Italia", non esalta anch’esso le virtù taumaturgiche e benefiche del libero mercato, sia pure cercando di coniugarlo(!!?) con la tutela dei ceti "più deboli"?

La Lega quindi rappresentava un utile apripista e compagno di strada per raggiungere questo comune obiettivo. Il suo stesso federalismo si prestava egregiamente a far avanzare questo programma. A padroni e politici borghesi luccicavano gli occhi al pensiero di poter, attraverso il federalismo, dividere il proletariato in tanti spezzoni in concorrenza tra loro, di poter reintrodurre le gabbie salariali e, attraverso il decentramento fiscale, di poter accollare agli enti locali il taglio delle spese sociali. Ancora più appetibile sembrava un utilizzo "strumentale" del fenomeno leghista visto che esso riusciva, sulla base del localismo e del regionalismo, a ottenere un consenso popolare e interclassista alla propria strategia. A differenza di altre tendenze dichiaratamente di destra come AN e FI, si dimostrava capace di attivizzare e mobilitare masse significative in maniera militante a sostegno di questo programma antiproletario.

La sottovalutazione e l’accondiscendenza rispetto vero la Lega, l’assunzione delle tematiche federaliste, proprio ormai di tutte le forze politiche e della stessa Confindustria, nasce da una comune radice di classe di tutte queste tendenze e da una comune strategia che mira a scaricare sulle spalle del proletariato le difficoltà dovute alle crescenti contraddizioni dell’economia e del sistema capitalista. L’avanzamento dell’ipotesi federalista lasciava intravedere la possibilità di un drastico ridimensionamento della forza e della tenuta proletaria, di affermare il totale dispiegamento delle regole del mercato, senza dover arrivare a uno scontro generalizzato con la classe operaia, ma attraverso un progressivo indebolimento e logoramento della sua tenuta unitaria, per poterlo poi meglio affrontare nel ridotto di ambiti locali.

Quanto al Pds, la passione federalista s’è fatta strada per spinte interne, poiché gli amministratori locali e la sua base sociale soprattutto al Nord, erano sottoposti alle stesse sollecitazioni che hanno prodotto il fenomeno leghista, (se in Toscana o in Emilia la Lega non ha ancora sfondato come in altre regioni del Nord ciò dipende dal fatto che gli apparati e gli amministratori locali hanno praticato e imposto, sia nei confronti del vertice del partito sia nella gestione delle istituzioni, una linea autonomista e federalista da far invidia alla Lega. Sì, la Lega è debole, il leghismo forte, grazie alla "sinistra"...). Contemporaneamente l’ipotesi federalista era vista come una soluzione che, attraverso il decentramento dei poteri e dei centri decisionali, avrebbe permesso di condizionare il potere centrale e di avvicinare, tramite il controllo delle istituzioni locali, il Pds alla gestione del potere.

 [indice] [inizio pagina] [next] [back] [fine pagina]

Ognuno per sé...

Bossi e la Lega non hanno però nessuna intenzione di farsi utilizzare per essere poi messi da parte. Questi giocano una propria partita che punta, e non da oggi, come finge di accreditare la stessa Pivetti, alla separazione della Padania dal resto dello Stato italiano, ritenuta l’unica soluzione in grado di tutelare adeguatamente gli interessi dei ceti borghesi del Nord.

La crisi ventennale in cui si dibatte il sistema capitalistico, pur senza mai arrivare a fenomeni catastrofici da grande depressione, ha prodotto la feroce ripresa della concorrenza e della competizione tra i capitali, che ormai si svolge su un mercato mondiale sempre più integrato e unitario, e una spinta accelerata dei processi di centralizzazione e concentrazione. Tutto ciò, insieme ai meccanismi di integrazione economica europea, che hanno ulteriormente ridotto i margini per politiche protezionistiche, ha messo a nudo le difficoltà e i limiti strutturali dell’intero capitalismo italiano, esasperandone i fenomeni di polarizzazione del tessuto produttivo e finanziario (sviluppo combinato e diseguale).

Preso atto di questa tendenza, per Bossi non è pensabile difendersi nella bufera che avanza mantenendo la struttura e il peso di un apparato statale unitario. Neppure un generale arretramento delle condizioni di vita e di lavoro del proletariato è ritenuto sufficiente a superare le difficoltà del capitalismo italiano, poiché uno stato unitario sarebbe obbligato comunque al mantenimento di una grande quantità di oneri .

D’altro canto la forza oggettiva della Lega si spiega proprio con questi fattori di debolezza strutturali del capitalismo italiano, i quali provocano un effetto centrifugo sulle varie forze economiche, sociali e politiche. Infatti, fatta eccezione per il comune livore antiproletario, quel che sembra prevalere ai vari livelli è la difesa di interessi particolaristici, di categoria, di settore, di ceto politico, senza che nessuno sia disposto a fare qualche sacrificio in nome di una prospettiva più rosea per tutta la classe borghese, e ancora meno a sforzarsi di raccordare la difesa dei propri interessi immediati in una strategia più complessiva che possa ridare fiato unitariamente al capitalismo italiano. Di questo atteggiamento ondivago e inconseguente la Fiat è stata come sempre il miglior rappresentante. Prima la fondazione Agnelli ha civettato per anni con il federalismo, poi lo stesso Agnelli Senior ha affermato che forse certe misure impopolari che stavano a cuore agli imprenditori poteva attuarle meglio in questa fase proprio un governo a guida progressista, infine il nuovo Presidente del gruppo, Romiti, visti gli effetti disastrosi del liberismo sul mercato interno, ha cominciato a sbraitare contro Maastricht, invocando un maggior sostegno dello stato ai profitti (pardon all’occupazione, flessibilizzata s’intende) e alla domanda interna.

 [indice]  [inizio pagina] [next]  [back]  [fine pagina]

...e il mercato per tutti

Lo stesso attacco frontale al proletariato, per arrivare allo schiacciamento delle organizzazioni politico-sindacali, ancora formalmente unitarie e "indipendenti", condizione preliminare per cementare e disciplinare in unico blocco i vari settori borghesi, non viene affrontato di petto da nessuna frazione politica. (Solo Berlusconi, ai suoi esordi politici, "segnalò" con la dovuta energia l’urgenza di tale compito ma, per condizioni politiche e strutturali, mancava degli attributi adeguati ad attuarlo ed è stato presto risucchiato nel pantano centrista che lo attornia).

Si preferisce adottare una strategia di logoramento fatta di progressivi attacchi alle condizioni economiche e normative dei lavoratori, misure che sono possibili proprio per i mutati rapporti di forza dovuti alla congiuntura economica; ma si tratta di una strategia che, pur determinando un progressivo arretramento sul piano economico e politico, non riesce ad assestare un colpo mortale alle organizzazioni del proletariato. Per un periodo il grande padronato ha pensato di affidare alla Lega il ruolo di testa d’ariete contro il movimento dei lavoratori. Ma Bossi, proprio in occasione della lotta contro Berlusconi, fu il primo a tirarsi da parte difronte all’eventualità di uno scontro politico generalizzato che rischiava di incrinare intempestivamente i rapporti con una parte decisiva della sua base sociale e di compromettere la natura interclassista del proprio movimento.

Il coinvolgimento del Pds al governo e di Rifondazione nella maggioranza che lo sostiene si inserisce in questa strategia, in parte subita in parte voluta dal grande capitale.

Questa opzione è pericolosissima per il proletariato, per il disarmo e la disorganizzazione che provoca. Procede sul terreno del liberismo (ben temperato), con tanto di riforme istituzionali e fiscali in senso federalista e relativo corollario di ulteriore flessibilizzazione della forza lavoro e di "limatura" dello stato sociale. Ma non è la soluzione definitiva di cui ha bisogno il capitale. Essa contribuisce a creare le condizioni politiche favorevoli alla borghesia per una resa dei conti risolutiva con la classe, e di questo hanno piena responsabilità i partiti riformisti, prima ancora degli ulteriori sacrifici che essi fanno ingoiare alla classe.

Mancando un polo reale di unificazione delle varie frazioni di borghesia, dotato di una strategia e di una organizzazione unitaria, in grado di sostenere uno scontro frontale preventivo con la forza tuttora esistente del movimento operaio, le spinte secessioniste sono destinate a rafforzarsi e ad avanzare incontrastate come è successo sino ad oggi. Non è un caso se tante tendenze che avevano fatto proprio il federalismo per strapparlo di mano alla Lega, ne hanno via via assunto le tematiche di fondo fino ad arrivare, come il movimento dei sindaci, a fare a gara con lei nell’elaborare proposte autonomiste, localiste che indeboliscano il potere centrale dello stato.

Questo sul piano soggettivo. Ma, al di là del fenomeno Lega, vanno maturando le condizioni strutturali che rafforzano le spinte verso una soluzione secessionista. Le leggi di mercato, cui tutti si inchinano adoranti, svolgono un’azione disgregatrice e polarizzante che produce le basi materiali per il diffondersi del fenomeno leghista. Lo testimoniano il propagarsi di tendenze leghiste in direzione ancora più localiste; la crescita di spinte federaliste nelle aree del Nord persino in partiti come AN e Forza Italia, per non parlare del Pds; il fiorire di iniziative e di organizzazioni localiste al Sud -cui ancora manca al momento un punto di coagulo- e che si dichiarano tutte anti-Lega Nord, su un terreno, però, di iper-leghismo speculare.

 [indice]  [inizio pagina] [next] [back]   [fine pagina]

Due tendenze (borghesi) contro la secessione

Eppure, a cominciare dal dopo elezioni le voci di preoccupazione, circa il pericolo secessione, soprattutto a sinistra, sono via via aumentate. Al momento non hanno prodotto più di qualche dichiarazione che si spinge fino alla richiesta dell’intervento repressivo dello stato contro la Lega, soprattutto in occasione della manifestazione del 15 settembre, la giornata della "dichiarazione dell’indipendenza della Padania". In verità Bossi, come suo solito, si è subito affrettato a "rassicurare", affermando che non si trattava di nessun evento traumatico, ma di una semplice manifestazione politica. Tanto è bastato perché i tanti "fiancheggiatori" si affrettassero a dichiarare che la mobilitazione lungo il Po non andava criminalizzata (a cominciare dal movimento dei sindaci e dal suo leader progressista Cacciari). Ancora una volta, all’aperto e sempre più spinto secessionismo di Bossi, una parte decisiva del restante schieramento politico risponde con la necessità di ...rafforzare il federalismo proprio per bloccare la possibile secessione. Come se non fosse evidente che tutte le concessioni fatte sinora su questo terreno sono servite esattamente al gioco della Lega che le ha presentate quale frutto secondario della propria battaglia e come base acquisita per rilanciare richieste ancor più avanzate su questo terreno.

Mentre prosegue l’atteggiamento di sottovalutazione del fenomeno e la vera e propria diffusione dell’epidemia leghista ben oltre i confini della Lega, si affaccia una tendenza trasversale al Polo e all’Ulivo che punta alla creazione di un fronte unico nazionale, dalla destra alla sinistra, per salvare la patria in pericolo e la sua unità.

Le due tendenze non sono alternative tra loro ma possono benissimo coesistere, poiché da una parte continua l’illusione che l’introduzione del federalismo potrebbe servire a "prosciugare l’acqua a Bossi" (V. ultimatum di Bassolino al governo per la riforma federale entro dicembre, possibilmente di carattere municipalista), e la convinzione che una buona dose di federalismo ben si presta a proseguire il processo di divisione e di contrapposizione nelle file del proletariato, dall’altra si intende cogliere un’occasione di inquadrare attivamente una fetta decisiva del proletariato italiano dietro le insegne degli interessi nazionali. Inutile dire che questo embrassons-nous tra antisecessionisti prevede per la classe operaia la rinuncia a qualsivoglia richiesta "corporativa" che incrinerebbe immediatamente il costituendo fronte nazionale.

Questa innaturale unione tra proletariato e borghesia sul terreno antisecessione sarebbe non meno perniciosa di quella tra borghesi e proletari del Nord in nome della secessione.

 [indice]  [inizio pagina] [next] [back] [fine pagina]

No al federalismo! No all’unità nazionale!

Il leghismo e la secessione rappresentano senz’altro un pericolo per tutto il proletariato che è necessario combattere. Non perché mettono in discussione l’unità dello stato borghese italiano, che fino a prova contraria è lo strumento di potere e di dominio politico della borghesia su tutto il proletariato italiano, quanto perché essi sono un tentativo di dividere e contrapporre le diverse sezioni territoriali del proletariato italiano. Sarebbe, però, una scelta suicida illudersi di poter contrastare il fenomeno leghista alleandosi con la borghesia antisecessionista.

In primo luogo, questo fronte comune graverebbe sulle spalle dei proletari, sul terreno delle condizioni di vita e di lavoro e su quello dell’autonomia politica e organizzativa. Si tratterebbe di concedere volontariamente ai propri alleati quello che si intende rifiutare a Bossi: accettazione del liberismo più sfrenato, sostegno al proprio capitale nella competizione sul mercato mondiale, rinuncia alla propria indipendenza di classe.

In secondo luogo l’alleanza con un settore della borghesia significherebbe accettare e rafforzare una divisione interna al proletariato tra pro e anti-secessionisti con conseguenze disastrose e speculari a quelle provocate dal leghismo. L’unità con la borghesia antisecessionista (contenente avanzi della "prima repubblica" -i De Mita, Mancino, ecc.- grandi monopolisti, formazioni di ascendenza fascista, un meridionalismo "unitarista" alla Cito, ...) rafforzerebbe tra gli operai del Nord la convinzione di avere difronte un indistinto blocco unitario interessato a conservare il proprio ultra-parassitismo sulle loro spalle e li regalerebbe definitivamente alla propaganda leghista. Invece il dato più insidioso, per i proletari dotati di una coscienza di classe, è proprio la preoccupante influenza conquistata dalla Lega tra gli operai del Nord. Non possiamo considerare questa fetta decisiva del proletariato italiano definitivamente persa a una battaglia di classe. Vanno invece ben comprese le ragioni che spingono tanti lavoratori a riconoscersi nelle tematiche agitate dalla Lega e a ritenere l’ipotesi secessionista come la più adeguata a tutelare i propri interessi.

 [indice]  [inizio pagina] [next] [back]   [fine pagina]

Ricordiamo la lezione jugoslava

I proletari sloveni, prima e dopo la secessione

Tasso di disoccupazione:
prima della secessione (gennaio '91): 1%
dopo la secessione (ottobre '93): 15%
 
Salari:
prima della secessione (gennaio '91): 595 marchi
dopo la secessione (gennaio '92): 395 marchi
(nel frattempo i prezzi erano saliti del 100%!)

E per quanto riguarda l'organizzazione sindacale, quali effetti ha avuto la secessione?

Da Rassegna Sindacale del 15.6.1992: "In questo momento non è facile per i sindacati assolvere al proprio compito naturale, la contrattazione collettiva". Non solo i proletari sloveni si sono ritrovati divisi da quelli delle altre repubbliche della ex-Jugoslavia, ma nella stessa Slovenia "c'è, e forte, la tentazione a rinchiudersi nel "particulare" della propria azienda o settore. (...) sindacati aziendali esistono anche in Slovenia, dove pure sono forti le categorie, già affiliate al sindacato unico e ora invece autonome. Come se non bastasse, c'è poi la dimensione regionale. La frammentazione (n.) è insomma al culmine."

La secessione non risolverebbe i problemi dei proletari del Nord, anzi li aggraverebbe sostituendo ai parassiti romani quelli padani. La Slovenia e tutta la ex-Jugoslavia sono un esempio lampante di cosa può derivare ai proletari da una divisione del proprio esercito di classe, per quelli delle regioni più povere come per quelli delle più sviluppate. In una fase in cui persino l’affluente Germania unita è costretta a sferrare i primi decisivi attacchi al compromesso sociale per ridare competitività al proprio sistema, come si può credere che tale compromesso possa essere mantenuto dalla micronazionalista e micragnosa borghesia della Padania, per quanto essa possa essere più sviluppata della Slovenia?

Ma, è indispensabile intendere che la propaganda leghista, sia pure in un’ottica reazionaria, micronazionalista e interclassista, agita problemi reali e sentiti sulla propria pelle dai lavoratori. Bossi è sempre molto attento a solleticare le esigenze proletarie, come la difesa dei salari, i problemi dell’occupazione, la denunzia di una burocrazia iper-parassitaria. La proposta secessionista viene sempre presentata come vantaggiosa per i proletari del Nord, ai quali si assicura che l’economia padana, senza il fardello del Sud e dell’assistenzialismo a perdere, potrà garantire migliori salari e pensioni, migliore protezione sociale.

Quando in virtù del senso di responsabilità nazionale si lascia a Bossi il monopolio incontrastato della denuncia di storture e soprusi che pesano sulle spalle dei lavoratori è comprensibile che una parte di essi vedano nella Lega l’unica organizzazione che si fa carico in modo combattivo anche dei problemi degli operai.

La presa della Lega su ampi settori del proletariato è possibile proprio perché la sinistra, politica e sindacale, ha contribuito ad annullare anche la più pallida identità classista tra i lavoratori, ha teorizzato la necessità di allearsi con la grande industria e con i ceti medi e il sostegno alle ragioni del "proprio" capitale come unica strada per difendere le proprie condizioni. Non ci si può meravigliare se di fronte a un sistema capitalistico sempre più in affanno e costretto a sferrare continui colpi al proletariato, si fa strada l’idea che quella stessa strategia, rivelatasi perdente e controproducente sul piano macronazionale, possa risultare pagante su quello micronazionale. Se per anni, come hanno fatto Pds e sindacato, si diffonde l’idea che il federalismo è un ottimo rimedio ai problemi dei lavoratori, nel momento in cui i pochi provvedimenti introdotti non produrranno alcun effetto significativo, si rafforzerà la convinzione che è meglio seguire la strada radicale della secessione proposta da Bossi.

C’è un solo modo per sottrarre i proletari del Nord all’influenza della Lega: non far proprie le rivendicazioni federaliste, tanto meno richiamare alla difesa di questo stato, di queste istituzioni, magari a braccetto con la peggiore feccia borghese in circolazione, ma assumere in senso unitario e in una prospettiva classista, contro la borghesia leghista quanto contro quella antisecessionista, le istanze proletarie immediate e di prospettiva agitate strumentalmente dalla Lega.

 [indice]  [inizio pagina] [next] [back] [fine pagina]

Uno scenario già visto all’avvento del fascismo

C’è un’ultima e decisiva considerazione. La spinta secessionista dipende da fattori strutturali di carattere soggettivo e oggettivo, di natura interna e internazionale. Una prospettiva iscritta nel quadro borghese non potrebbe mai bloccarla. Quel che è in gioco non è uno scontro tra secessionismo e unitarismo, ma la disperata ricerca da parte borghese (di entrambi i campi) di una via d’uscita antiproletaria alle contraddizioni prodotte dal sistema capitalistico e all’antagonismo proletario, che solo le può superare.

Per meglio comprenderlo è utile rifarsi (facendo i dovuti distingui del caso) all’esperienza dell’avvento al potere del fascismo. All’epoca tutti i settori della borghesia erano alla ricerca di un regolamento di conti con il proletariato per annullarne l’indipendenza politica-organizzativa, giunta alla soglia della lotta per il potere. Fascisti e antifascisti borghesi miravano allo stesso obiettivo, sia pure attraverso diversi percorsi. Il fascismo si alimentava del comune livore diffuso nel campo borghese, e si impose progressivamente come soluzione obbligata, in quanto più adeguata a fornire la risposta al problema che tutta la borghesia italiana, nel contesto dello scontro di classe internazionale e sulla base della connotazione strutturale del proprio capitalismo, aveva di fronte.

Anche in quel caso, l’atteggiamento di accondiscendenza, la "sottovalutazione" del fenomeno, i tentativi di coinvolgerlo per limarne le punte "più estremiste", le coperture e gli appoggi degli apparati dello stato nella politica di aggressione al movimento operaio, non dipendevano da un errore di comprensione ma erano dettati dal peso crescente delle contraddizioni capitalistiche e dalla natura di classe degli interessi in campo.

I vari Giolitti, Nitti, Croce, o Albertini, che avevano tirato la volata al fascismo e avevano plaudito alla sua opera di "pulizia" contro il pericolo rosso, si scoprirono antifascisti solo dopo la sua ascesa al potere, quando il fascismo, traendo le conseguenze logiche della sua battaglia, instaurò un potere apertamente dittatoriale che, per meglio tutelare gli interessi generali del capitalismo italiano nella contesa internazionale, doveva necessariamente centralizzare e disciplinare anche le classi medie e persino i singoli capitalisti.

Parimenti la strategia indicata al proletariato dai riformisti dell’epoca, fatta di patti di pacificazione con il fascismo, di alleanze con tutti i settori politici e sociali antifascisti (in difesa della democrazia), il rifiuto di ricorrere alla lotta militante, servì solo a immobilizzare la risposta classista del proletariato e a consentire al fascismo di portare avanti indisturbato la propria opera.

Molti borghesi e i riformisti non erano certamente d’accordo con le conseguenze ultime cui portò il fascismo, ma la propria natura di classe, la difesa a ogni costo del sistema sociale capitalistico, gli impedivano di accettare l’unica risposta efficace alla sfida lanciata dal fascismo, l’unica in grado di tagliare alla radice le cause della sua affermazione politica: distruggere il potere politico della borghesia e avviare una trasformazione dei rapporti di produzione in senso socialista. Forse c’era un’altra strada per evitare l’avvento al potere del fascismo, come ebbe a confessare candidamente Turati: la rinuncia volontaria da parte del proletariato a difendere le proprie condizioni di vita e di lavoro. Se avesse rinunciato spontaneamente alla propria indipendenza politica e organizzativa, forse il fascismo non avrebbe vinto. Forse...

La recente esperienza jugoslava ha ampiamente confermato questo dato. I settori borghesi antisecessionisti arretrano sempre di fronte a una battaglia conseguente. Per esser conseguente, infatti, essa non si può attestare su un becero nazionalismo unitarista, ma dovrebbe mobilitare le masse proletarie su "propri" obiettivi che inevitabilmente sfuggirebbero di mano al controllo borghese. Si potrebbe, sì, evitare la spaccatura del paese ma con un rischio per la borghesia peggiore: quello di un proletariato in armi intenzionato a difendere fino in fondo i propri interessi di classe. La borghesia antisecessionista può arrivare anche allo scontro militare con le altre fazioni borghesi, coinvolgendovi il proletariato, ma solo a condizione di averlo preventivamente ben subordinato e incatenato alla prospettiva nazionalista. La borghesia unitarista della ex-Jugoslavia aveva raggiunto questo obiettivo, ma, nonostante ciò, non ha vinto la sua battaglia anti-secessionista. A riprova che le spinte alla frammentazione non possono essere bloccate da una prospettiva che rimanga in un quadro borghese.

Il coinvolgimento in un fronte unitario con la borghesia antisecessionista (da An al Prc, passando per il Polo, Di Pietro e il Pds) comporterebbe, quindi, per il proletariato il prezzo di un arretramento sul piano delle condizioni materiali e politiche, rafforzerebbe gli elementi di divisione tra le varie sezione territoriali della classe, ma inevitabilmente non porterebbe nemmeno al risultato di mantenere l’unità nazionale (ammesso che questo sia un obiettivo che in quanto tale possa e debba interessare il proletariato).

 [indice]  [inizio pagina]  [back]  [fine pagina]

Contro il secessionismo rilanciare l’unità e l’autonomia del proletariato

La necessità di una risposta indipendente del proletariato al secessionismo, l’esigenza di indirizzare la battaglia contemporaneamente contro la borghesia antisecessionista (non meno interessata a fargli la pelle), cercando di recuperare, con un’adeguata politica e un coerente programma, l’unità con tutti i settori di classe nazionali e internazionali del proletariato, non dipende da una visione moralista o astrattamente purista, ma dalla oggettiva e realistica valutazione della natura delle forze in campo, della portata dello scontro in atto, e degli insegnamenti della storia della lotta di classe tra proletariato e borghesia. Potremo salvarci davvero dalla catastrofe secessionista e federalista solo puntando sul rilancio della lotta, dell’unità e dell’autonomia di classe.

Quando indichiamo la necessità di centrare sul proletariato e su un preciso programma classista la lotta contro il secessionismo, sentiamo subito fischiarci nelle orecchie l’accusa di settarismo e di utopismo del solito super-tattico di turno. A simili scemenze iper-opportuniste rispondiamo che la via da noi indicata è l’unica a rendere possibile il coinvolgimento dal lato del proletariato anche di altri settori sociali vittime della crisi capitalistica. L’opportunità di strappare strati di piccola borghesia alle sirene leghiste o alla deriva nazionalista antioperaia, si può dare solo a condizione che il proletariato si dimostri un’alternativa valida e autorevole rispetto al marasma che attraversa il sistema capitalistico. Ma a tale fine si richiede appunto di rafforzare il proprio esercito, di mostrarsi in grado di difendere in maniera militante le proprie condizioni immediate, di offrire, sulla base di un chiaro programma e della forza che si riesce a mettere in campo, una prospettiva credibile di superamento delle incertezze, delle angosce prodotte da un sistema sempre più marcescente.

Solo su questa via si può risolvere anche il problema dello stato. Lo stato borghese succhia come un vampiro la ricchezza prodotta dal proletariato, ma se al suo posto i vampiri fossero due o tre, avrebbero bisogno di succhiare ancora di più.

La fame dello stato borghese è dovuta alla funzione che svolge: alimentare i capitali nazionali, proteggerli nel mercato interno e contro la concorrenza esterna, garantire lo sfruttamento della classe operaia, difendere l'intero sistema del profitto. Queste le ragioni della sue fame. Per estirparle non c'è riforma federalista che tenga, esso deve essere distrutto assieme al sistema che l'ha generato come suo mezzo di difesa.

Così, sì, la classe operaia potrà liberarsi di ogni suo oppressione -economica, politica, giuridica, ecc.- e fondare una società in cui il potere sia nelle sue mani per schiacciare le classi sfruttatrici e, con ciò, non abbia bisogno di alcun apparato coercitivo che pesi sulla società.

Seguire la strada proposta dai moderni riformisti, apparentemente più realistica e più credibile, può solo portare a ripetere in peggio tragiche esperienze che il proletariato ha pagato amaramente.

Altro che federalismo! Altro che unità nazionale! Il proletariato, se vuole rispondere efficacemente ai tentativi di tutte le fazioni borghesi di imporgli una schiacciante sconfitta, deve centralizzare al massimo le proprie forze, deve difendere a ogni costo la sua unità e la sua indipendenza politica organizzativa, cercando le risorse per la propria battaglia nel proletariato internazionale sottoposto alla stessa offensiva capitalistica.

Ciò di cui c’è urgente bisogno è la ricostruzione di un vero partito politico della classe operaia, che sappia indirizzare e organizzare questa dura ma inevitabile battaglia. Questo è il compito a cui sono chiamate le tante generose avanguardie proletarie, che, pur impegnate in prima linea nella difesa degli interessi immediati della classe, sono spesso costrette nell’asfittico ambito locale, delegando necessariamente la "politica" alla strategia, suicida per il proletariato, dei partiti riformisti. Questo il compito prioritario cui ci sentiamo impegnati, e a cui lavoreremo instancabilmente nella nostra militanza quotidiana nelle file del proletariato e nelle lotte immediate che esso conduce.

[che fare 40]  [inizio pagina]