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Colonialismo a tutto campo

AFGHANISTAN: UN CAPOLAVORO (INCOMPIUTO) DELL'IMPERIALISMO

Quel ch’è accaduto di recente in Afghanistan merita qualche parola di commento, non solo per quel che riguarda le donne afghane (ciò che facciamo in altro articolo del giornale), ma per quel che significa più in generale. Perché è un’eccellente illustrazione del modo di operare dell’imperialismo nel Terzo Mondo e degli effetti che ne derivano.

Da fessi sarebbe il sostenere che l’imperialismo statunitense vi ha manovrato inesaustamente da un paio di decenni allo scopo di riportarvi al potere le più torve bande patriarcali. No, Clinton e soci non hanno mirato all’obiettivo di riportare a Kabul il "medioevo islamico" (ma sarebbe più corretto dire: il tribalismo sotto-pashtun dei Dourrani, la tribù dell’ex-famiglia reale afghana cui appartengono la maggior parte dei capi del movimento, un tribalismo che è più pre-islamico che islamico; e sarebbe più corretto definire i Taleban semi-analfabeti piuttosto che studenti o, peggio, dottori coranici). Gli USA hanno mirato e mirano a tutelare interessi "moderni", i propri interessi capitalistici, imperialisti, di accaparramento del petrolio e del gas afghano, dell’oppio afghano (l’Afghanistan è il principale produttore di papavero da oppio del mondo e, secondo l’Interpol, fornisce i tre quarti dell’eroina consumata in Europa), e soprattutto del costruendo oleodotto "che attraverserebbe l’Afghanistan per pompare il petrolio dell’ex-repubblica sovietica del Turkmenistan fino alle coste pakistane dell’Oceano indiano" (cfr. Il Foglio, 18.7.’96, questo il fondamento materiale della stretta cooperazione tra USA e Pakistan). Per il capitale americano, il completo controllo sull’Afghanistan, non a caso chiamato la "chiave dell’Asia", è importante, poi, al fine di distaccare tanto dal vecchio centro di gravità russo, quanto da un futuribile nuovo centro di gravità iraniano l’intiero blocco delle ex-repubbliche sovietiche centro-asiatiche, sul "destino" delle quali si è scatenata una gara mondiale senza esclusione di colpi.

Ad una tale tutela e ad un tale tentativo non era più adeguato il vecchio regime "islamico", installatosi (e installatovi) a Kabul nel 1992. Per due ragioni. La prima è data dai suoi conati di una qualche "indipendenza" dai super-padroni yankee, e da sia pur iniziali accorte aperture diplomatiche (verso l’URSS, la Cina, i paesi arabi ed islamici "radicali") ad essi non gradite. La seconda, dall’estrema rissosità interna degli alleati Rabbani-Hikmatyar-Masud e dalla loro palese incapacità di consolidare un rapporto di egemonia sulle zone abitate dai pashtun, il cui assenso è essenziale proprio ai traffici intorno all’oleodotto.

Gli USA abbisognavano in loco di nuovi manutengoli un pò meno inaffidabili. Ed è dai loro traboccanti libri paga, non dai versetti coranici, che questi sono usciti militarmente ben inquadrati ed equipaggiati. Ma a spianare la strada alla loro tutto sommata rapida vittoria è stato anche il vecchio regime, assolutamente incapace di fare se non altro intravvedere alle masse afghane non diciamo un cammino di ripresa del paese, ma neanche una reale fuoriuscita dalla interminabile guerra civile. Così, agli occhi di molta parte della popolazione, soprattutto di etnia pashtun (ripetiamo), e soprattutto del sud e dell’est del paese, l’avanzata dei Taleban è parsa come la (gradita) avanzata dei portatori della "pace", ...salvo quel che poi si è visto. Ossia il riesplodere a nord, questa volta, della guerra civile e inter-etnica (contro le "minoranze" tagiche ed uzbeche), la caccia ai "comunisti", il nuovo precipitoso esodo di massa da Kabul dei simpatizzanti del vecchio regime filo-russo di Najibullah e di quello di Rabbani, l’inasprimento della segregazione sociale e della schiavizzazione delle donne, e -addirittura- un improvviso accenno a un possibile rovesciamento del rapporto di "strettissima amicizia" col Pakistan per il risorgere (foriero di conflitti) di una qualche velleità di riunificare tutti i pashtun nel Pashtunistan.

L’Occidente ha affossato entrambi i tentativi di modernizzare il paese.

Siamo, con ciò, ad un ulteriore passaggio della libanizzazione dell’Afghanistan. E’ ormai distrutto ogni minimo tessuto unitario. E a ciò s’accompagna lo sconvolgimento totale dell’agricoltura e della stessa pastorizia con il riprecipitare dell’Afghanistan in una economia di mera sussistenza da cui non era comunque mai riuscito ad uscire del tutto anche negli anni recenti della sua "rivoluzione".

Perché l’imperialismo possa procedere in avanti, nel suo processo di rapina mondiale, perché possa riuscire a "governare" in qualche modo la propria crisi, l’Afghanistan -e sempre più paesi del Terzo Mondo, a cominciare da quelli islamici- son risospinti all’indietro, talora anche verso un passato pre-borghese da cui hanno fatto e fanno immensi sforzi per uscire.

L’Afghanistan ci ha provato due volte, in questo secolo. Una prima, negli anni ’20 col re Amanullah che, sconfitte e scacciate dal paese le truppe coloniali inglesi, avviò, con l’aiuto della Russia sovietica, "importanti azioni di riforma e di modernizzazione" contro cui insorsero gli shinvari, i capi-tribù e i capi religiosi più retrivi trovando nell’imperialismo inglese il loro punto di riferimento e di raccordo, fino a disarcionare -nel ’29- questo sovrano "progressista". Ed una seconda volta, nel 1978, sempre "dall’alto", ma con un maggiore coinvolgimento popolare soprattutto a Kabul e nelle città, con l’unico reale partito inter-etnico borghese che l’Afghanistan abbia conosciuto, il Pdpa. L'onda rivoluzionaria anti-imperialista, sia pur con effetto ritardato, faceva capolino anche a Kabul.

Si trattò d’un tentativo certamente ardito di far entrare il paese nell’evo moderno, con un’aggressiva campagna di alfabetizzazione a tappeto, una riforma agraria radicale, l’attacco all’usura, una certa parificazione dei diritti tra uomo e donna, la limitazione del potere dei mullah (nonostante il riferimento costituzionale alla "giustizia islamica") e dei seri colpi inferti agli "elementi contro-rivoluzionari" più legati alle potenze occidentali, che ne fece un processo per certi versi accostabile al "comunismo polpottiano". Esso naufragò per la decisa opposizione degli strati più arretrati della società afghana, raccolti e predominanti nelle campagne, che finirono per accerchiare e battere le città. Con il formidabile, decisivo sostegno di Arabia Saudita, Pakistan e, soprattutto, Stati Uniti.

L’intervento russo in Afghanistan, una "aggressione difensiva" nei confronti delle manovre imperialiste per fare di quel paese un proprio avamposto nell’area, è risultato in toto controproducente per questo "esperimento" di modernizzazione. Certo, la Russia brezneviana si poggiò sulle forze afghane più "moderne" e "nazionali", ma da un lato contribuì ad isolare e espellere dal movimento borghese le spinte più conseguenti, e dall’altro, proprio per la natura comunque borghese e controrivoluzionaria degli interessi che lo muovevano, andò in controsenso rispetto alle attese di liberazione della parte più avanzata delle masse afghane, fornendo un ottimo appiglio alla propaganda "anti-imperialista".

Col crescere del moderatismo e delle esitazioni del Pdpa, che cercò via via di riconciliarsi con i diversi capi-tribù e poi anche con il re e di riconvertirsi in un "vero regime islamico", crebbe il suo isolamento, fino al suo crollo un paio d’anni dopo il ritiro delle truppe russe. Poi, dal ’92 ad oggi, un ininterrotto seguito di scontri "fratricidi" tra i vincitori che ha reso mostruoso il bilancio di perdite umane (un milione e mezzo di morti, dei quali un terzo bambini, un milione di invalidi, tre e forse quattro milioni di profughi).

Per il progresso dell’Afghanistan e dell’Islam bisogna affossare l’Occidente

Il secondo capolavoro dell'imperialismo USA nel riappropriarsi dell'Afghanistan rimarrà, molto probabilmente, come il primo, incompiuto. Anche per il governo dei Taleban sarà molto difficile venire a capo della situazione di frammentazione attuale. Nel tentativo di unificare il paese, essi potrebbero anche scoprire la necessità di una certa dose di nazionalismo che li porti a cercare di autonomizzarsi dai padrini. Ma, se anche fosse, dove trovare la forza per una modernizzazione del paese fatta -com'è inevitabile- contro gli interessi dell'imperialismo? La forza può essere trovata solo in una più generale sollevazione anti-imperialista di tutte le masse oppresse che trovi un'unione stretta con il proletariato occidentale per affossare definitivamente l'imperialismo e il capitalismo. Un compito che presuppone ben altra direzione che quella dei Taleban!

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