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DAGLI OPERAI DELLA COREA L’APPELLO AD INTERNAZIONALIZZARE LA GUERRA DI CLASSE
CONTRO I "MERCATI INTERNAZIONALI"

Indice

Il recente movimento degli scioperi operai in Corea è la cresta di un’onda di lotte (non ancora monsonica, abbiate un pò di pazienza!) che dall’Asia comincia a montare verso il centro del capitalismo mondiale. L’onda della rivolta proletaria contro gli effetti di quel balzo in avanti nella "mondializzazione del capitale" che in Asia, e nel Sud-Est asiatico, ha celebrato i suoi massimi fasti.

La portata di questo processo è immensa. Proprio perché la separatezza e la lontananza dell’Asia dal resto del mondo "civile" sono finite per sempre. Non è più soltanto una folgorante predizione marxista; per davvero oggi l’Asia è il mondo. E per davvero la lotta del proletariato asiatico -il più giovane e (con i suoi 200 e passa milioni di unità) il più numeroso reparto del proletariato mondiale- e la lotta degli operai coreani sono la nostra lotta.

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Il "modello coreano" va riformato, in peggio.

L’acuta riaccensione dello scontro di classe in Corea indica che il "modello coreano" non funziona più come prima. E che crescenti, al di là di esso, sono le contraddizioni del "miracolo asiatico" (già evidenti da anni per quel che riguarda il Giappone), perché lo sono quelle del sistema capitalistico nel suo insieme unitario. Dopo la fine dell’"illimitato sviluppo" in Africa, America Latina, mondo arabo, est-Europa, Russia, Europa occidentale, anche il motore della ruggente Asia comincia a perdere colpi.

Il "modello coreano", che tanta ammirazione e voglie d’imitazione ha suscitato ovunque, dai consiglieri di El’tzin fino a quelli dell’Ulivo, e che la Fondazione Agnelli ha appropriatamente definito "statalismo autoritario", è il compendio dei seguenti ingredienti:

  1. ruolo propulsivo degli investimenti esteri;
  2. una struttura industriale extra-vertita, volta cioè primariamente a soddisfare la domanda internazionale;
  3. un forte controllo statale sullo sviluppo (con piani quinquennali e relative priorità centralmente fissate) ed uno stretto intreccio, di segno protezionistico, tra apparati statali e grandi conglomerate (chaebol);
  4. una riforma agraria finalizzata ad estendere e sostenere l’area della piccola proprietà e uno sforzo statale particolarmente intenso per limitare lo squilibrio città-campagna incentivando la "vita associativa" nei villaggi;
  5. una feroce spremitura e militarizzazione del lavoro nell’industria, le cui regole la borghesia coreana ha appreso sia dal "fascismo" nipponico, che dalla democratica dominazione destatunitense.

Per quattro decenni fino al break avvenuto a metà anni ’80, orario di lavoro settimanale dalle 60 ore in su, per sei giorni fissi lavorativi, per tutte le 52 settimane annue. Draconiana disciplina sul lavoro. Il sindacato industriale praticamente fuori-legge. Nelle fabbriche, un agente di polizia ogni 15 operai. Paga fortemente legata alla produttività (i premi di produzione possono assommare anche 4-5 mensilità). E per finire una accentuatissima sperequazione tra i salari che pagano le chaebol (Samsung, Daewoo, Hyundai, Lucky-Goldstar) -dove l’occupazione è al 97% maschile-, e quelli delle imprese minori e dei settori maturi, a occupazione al 69% femminile.

Per i lavoratori, la contropartita obiettiva di questo sfruttamento all’ultimo respiro (nel ’93 2.210 morti sul lavoro) è stato un elevato livello di stabilità dell’occupazione (una forma attenuata del "lavoro a vita" giapponese), un salario reale in crescita e un certo "welfare aziendale" (essendo però a zero quello statale).

Ma questo "modello", che è stato altamente profittevole tanto per il capitale coreano quanto per il capitalismo imperialista tutto, ed ha per lungo tratto ben funzionato (capitalisticamente parlando), ha iniziato a procedere a singhiozzo negli anni ’80, per poi vedere stabilmente dimezzati gli indici di produzione negli anni ’90. Anche sulla "miracolosa" Corea sono arrivati i contraccolpi della generale crisi capitalistica. In un mercato mondiale che cresce, se cresce, sempre più con fatica, nessuno spazio è più garantito per nessuno. Tanto più dopo che (senza nostre lacrime) s’è dissolto lo spettro del "campo del socialismo", dalla cui esistenza, e dal cui falso "antagonismo", ha tratto non poco vantaggio, per contrasto, la Corea del Sud quale luccicante vetrina industriale e postazione di confine dell’Occidente sul limitare dei grigi "imperi rossi".

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Un "passo indietro verso la schiavitù"?

In questa contesa all’ultimissimo sangue, Seul "scopre" di essere non sufficientemente competitiva nei confronti delle nuove forme di accumulazione selvaggia attivate, in Asia e altrove, dal "capitale mondializzato". Il suo "modello" è diventato troppo "costoso"; va riformato.

Dopo essere arrivata ad una sola incollatura dalle maggiori potenze dell’Occidente, la tigre sud-coreana si trova ad un bivio: o riesce a fare il grande salto a potenza finanziaria che sta nella cabina di comando dei mercati mondiali, o è destinata ad entrare in convulsioni non dissimili, in sostanza, da quelle dell’Italia. Ma fare il suddetto salto può solo abbattendo perentoriamente la quota capitale variabile diventata, non vi sembri assurdo, insostenibile.

Un’operazione, questa, che la borghesia sud-coreana è chiamata ad attuare sia nell’interesse del capitale nazionale che in quello del capitalismo mondiale, che dalla Corea ha estratto per decenni copiosi sovrapprofitti.

Ma questo bisogno capitalistico si è scontrato con il proletariato coreano, che -lungi dall’accettare nuovi giri di vite- s’è messo di traverso al capitale nazionale e mondiale, con le sue rivendicazioni di ridurre orari e ritmi di lavoro, di aumentare i salari, di maggiore democrazia (per sé). E le ha sostenute con uno sviluppo vigoroso della sua organizzazione sindacale militante, e della sua attività politica.

Sul capitalismo sud-coreano si è venuta stringendo così una tenaglia le cui due morse, -i "mercati mondiali" e la lotta del proletariato industriale-, si sono venute chiudendo sempre più pericolosamente, fino a "costringere" il governo e il presidente Kim Young Sam ai provvedimenti di emergenza del 26 dicembre ’96. I quali non hanno, in effetti, che formalizzato le politiche avviate negli scorsi anni dalle chaebol.

La svolta è "solo" nel fatto che il governo ed i vertici dello stato (civili e democratici, non più militari e autoritari, quando si dice l’alternanza...) hanno tramutato quelle politiche in leggi che devono durare per un tempo indeterminato. Liberalizzazione dei licenziamenti, orario di lavoro legale a 56 ore, diritto delle imprese di assumere crumiri in sostituzione degli scioperanti, messa fuorilegge dei sindacati confederali fino ad almeno il 2002..., e, a coronare il tutto, potere rafforzato dei servizi di spionaggio. Letto, approvato e sottoscritto in un pugno di minuti dal parlamento democraticamente eletto (quando si dice: farsa elettorale ai danni del "popolo sovrano"...).

E’ la "drastica riforma" che ci voleva, ha giubilato la stampa di Wall Street: quella della Corea era oramai una "prosperità senza profitti" (!!). Una correzione al ribasso del "modello coreano" cui tutto il capitalismo imperialista anela per dare nuovo impulso a nuovi giri di vite nelle metropoli occidentali.

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No. Due passi avanti verso l’organizzazione di classe.

A sua volta, la KCTU non ha atteso il mezzogiorno per proclamare lo stato di agitazione permanente. Uno stato che dura tuttora, in forme in parte attenuate e che i dirigenti sindacali assicurano continuerà fino al ritiro dei provvedimenti anti-operai.

Dopo un attimo iniziale di sorpresa, che ha consentito agli operai coreani di "bucare il video", la consegna ai mass media è stata di minimizzare ("altre volte ci sono stati scontri più violenti", ha commentato Le Monde) e poi staccare la spina. Ma per capire che non si tratta di un piccolo incidente di percorso, bensì del primo atto di una vera guerra di classe che ha per posta un balzo all’indietro nella condizione e nell’organizzazione operaia, basta osservare le caratteristiche e la dinamica del movimento di lotta, e le sue ripercussioni interne ed "esterne".

La risposta di classe all’attacco del regime è stata, oltreché immediata, estremamente determinata. Se finora è scorso meno sangue che in precedenti occasioni, questo è successo per il timore delle autorità di innescare una reazione di massa incontrollabile. Ed è stato un segno della maturità del movimento evitare una effimera precipitazione del conflitto in assenza di una adeguata estensione del fronte di lotta. Quanto allo "spirito" militante -e militare!- del movimento, ne fanno fede i pochi fotogrammi che ci sono stati concessi. Migliaia e decine di migliaia di proletari in marcia compatti come un sol uomo. E che dire delle squadre di operai che per molti giorni, armati di mazze d’acciaio, hanno impedito alla polizia di arrestare i capi del loro sindacato? (La paperella che il manifesto ha inviato laggiù ne è rimasta sconvolta. Abituata ai ritmi indiavolati della macarena e della fu-fu-dance, ha confessato, povera stella, di avere avvertito come "un pò marziali" perfino i momenti che gli scioperanti di Seul riservavano al divertimento danzante. Figuratevi il resto, che brividi per la schiena...).

Protagonista della lotta, è bene tenerlo presente, è stata una minoranza relativamente modesta del proletariato. Ma una minoranza che, con la sua organizzazione, con la sua centralizzazione, e con la sua sapiente politica fronteunitaria di allargamento del fronte di lotta e di proiezione verso la massa della classe, ha dimostrato quale straordinaria forza materiale si sprigioni da una battaglia di classe condotta sul serio fino in fondo, anche se non con finalità rivoluzionarie.

Da manuale, in particolare, è stato il rapporto istituito con gli iscritti alla FKTU, il sindacato istituzionale largamente compromesso con le autorità borghesi di ieri e di oggi. Respinta ogni ipotesi di accordi burocratici di vertice, e respinta ogni infantile confusione tra direzione del sindacato "giallo" e sua base, la KCTU ha fatto proprio il bisogno di unità che è salito dalla lotta. E ha proposto di arrivare alla fusione (anche) dei due sindacati, ma attraverso i seguenti passaggi: 1)unità nella lotta contro le leggi "del lavoro"; 2)espulsione dalle fila della FKTU di tutti gli elementi corrotti; 3)riorganizzazione generale, militante e confederale, dell’intero movimento sindacale coreano. Di importanza enorme è stato il successo del primo sciopero congiunto KCTU-FKTU proclamato, su queste premesse, il 26 di gennaio (con oltre 500.000 manifestanti nelle piazze), che ha messo in luce la capacità dell’avanguardia di lotta della classe operaia coreana di essere punto di riferimento anche per dei settori sociali non proletari schiacciati dal regime.

Altrettanto importante è stato lo strettissimo nesso che nella lotta si è realizzato tra questione sindacale e prospettiva (ed anche organizzazione) politica. L’organizzazione sindacale militante non solo s’è temprata nella sua prima battaglia "confederale", generale, ma è arrivata fino ad affermare: "noi lavoratori abbiamo bisogno di un nostro partito politico". Prove di costituzione di un "laburismo alla coreana", ha sentenziato la suddetta manifestina. Certo, se si va a vedere, l’attuale ideologia dei membri della KCTU non molto si discosta da quella tipica di un "partito del lavoro", di un partito "sindacale". Ma il fatto è che, -primo-, per la collocazione che la Corea ha nella divisione internazionale del lavoro e per la sua storia politica, un partito del genere non ha potuto darsi neppure all’apice dello sviluppo. E -secondo- che il solo porsi in questi termini della questione dell’organizzazione politica di classe, pur se assolutamente insufficiente per dare vita al partito di classe, fa risaltare quanto cammino è stato fatto in questi anni nella giusta direzione.

La lotta di questi mesi ha infatti bruciato del tutto Kim Young Sam, il primo presidente eletto democraticamente in Corea (anche con il decisivo concorso dei lavoratori), e che oggi viene bollato nelle piazze come "fascista". "Noi lo abbiamo portato su sbagliando, e noi lo abbatteremo", gridavano gli scioperanti. Che inveiscono contro il "New Corea Party" e contro quella "dittatura civile" in cui vedono reincarnato "lo spettro della passata dittatura militare" (è come se qui i cortei operai sfilassero gridando: "Prodi-Veltroni, come Berlusconi, servi dei padroni"...). La lotta ha poi messo a nudo i traccheggiamenti e l’inconsistenza dei partiti dell’opposizione democratica, accusati dalla KCTU di debolezza (se non peggio) nei confronti delle leggi "schiaviste". Ecco perché la preconizzazione di un nuovo partito del lavoro non avviene (come negli ultimi decenni in Europa o nell’Est "ex-socialista") sulla strada in discesa che dai partiti stalinisti ha condotto ai club clintoniani; avviene, al contrario, sullo stesso percorso in ripresa che ha portato negli USA i settori più attivi del proletariato a deporre la loro residua fiducia nel partito democratico, a scavalcare l’evanescente "coalizione arcobaleno" del rev. Jackson e a porsi direttamente all’opera -per la prima volta da oltre settant’anni- per fondare un "proprio" partito. Ciò che vuol dire essere obbligati a darsi un programma, una prospettiva (e non solo per la lotta immediata), una linea d’azione e di battaglia contro chi attacca, dall’esterno e dall’interno, la classe e le premesse di una riorganizzazione della classe. Una grande esperienza politica in cui le avanguardie (in Corea un’avanguardia autentica di classe composta di cento-duecentomila militanti proletari) imparano a conoscere la società, le classi, gli organismi sindacali e politici in campo, lo stato, ...il mondo intero. E’ forse poco?

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Dalla Corea al mondo

Ma la lezione tra tutte più preziosa, se mai avesse senso stabilire una graduatoria del genere, è nel pressante appello rivolto dagli operai coreani alle organizzazioni sindacali di tutti i paesi perché venissero concretamente in aiuto alla loro lotta, e la particolare enfasi che essi pongono -con assoluta convinzione- sulla necessità di internazionalizzare il fronte e l’organizzazione della lotta. Un appello che, pur disponendo solo di pochissime notizie dirette (l’unica certa un meeting di solidarietà a Tokyo), non facciamo fatica a immaginare sia arrivato anche al Nord, nella vicina Manciuria, nella Cina costiera così come nelle altre "piccole tigri" (o aspiranti tali) del Sud-Est asiatico, con cui la Corea, ed anche il movimento sindacale appena costituito, hanno molteplici rapporti. Ed altrove ancora, se è vero che lo si è potuto percepire perfino nel maleodorante stagno italiano.

All’attacco del capitale "mondializzato" (che c’è dietro l’attacco del Kim coreano come dei Romano nostrani) non si può rispondere che con la mondializzazione della risposta di classe. Affermare questa necessità non è, lo sappiamo, avere risolto il problema. Specie se, come è per la KCTU, si ha ancora fiducia nei vertici venduti della CISL internazionale o, peggio, nell’OIL ginevrina o in organismi consimili. Nessuna lotta operaia, neppure la più dura, può essere pura, né capace di purificarsi da retaggi e ipoteche borghesi, di per sé, spontaneamente, senza l’apporto della teoria e del partito rivoluzionario. Non lo è stata neppure questa splendida battaglia data dalla classe operaia di Corea, che appartiene ancora integralmente alla fase storica di intermezzo che prelude allo scatenamento dell’antagonismo di classe. Ma... che il proletariato esegua mille di questi "imperfetti" preludi! La grande sinfonia verrà.

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