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I passi indietro nella condizione delle donne lavoratrici

La necessità per il capitale di far fronte all’acuirsi della crisi e le difficoltà ed i ritardi soggettivi della ripresa della lotta operaia contro l’offensiva complessiva del capitale, stanno determinando, nell’arretramento generale, un regresso della condizione delle donne, proletarie innanzitutto, verso le quali si è andato intensificando un duro attacco alle conquiste strappate nel corso di decenni di lotte. La stessa parità giuridica con l’uomo, che un periodo di sviluppo e rapporti forza più favorevoli avevano formalmente garantito, sta diventando sempre più aleatoria, a meno che non serva - come nel caso dell’elevamento dell’età pensionabile o del lavoro di notte, a parificare donna e uomo nella perdita di "diritti acquisiti".

Pur avendo consentito ad una parte delle donne (in Italia il 35%) l’inserimento nel processo produttivo, la borghesia ha sempre utilizzato il differente ruolo sociale ad esse assegnato per garantirsi braccia a basso costo e scardinare l’unità del proletariato mettendole in concorrenza con la parte maschile. Con l’acuirsi della crisi questo bisogno si è accresciuto ed assistiamo all’avanzare di discriminazioni e differenziazioni, sia sul piano salariale sia delle condizioni di lavoro, maggiori che nel recente passato. In tutti i paesi più sviluppati, comprese le scandinave "terre dell’emancipazione femminile", il salario medio delle donne è, a parità di qualifica, più basso del 25-40%. Le tutele in materia di orari, postazioni lavorative, maternità e cura dei figli, attraverso le deroghe alle leggi e ai contratti, sono oggi un ricordo, fuori e dentro la fabbrica. L’introduzione del lavoro notturno è ormai la regola e persino il divieto durante la maternità è messo a rischio dal recepimento della direttiva europea n. 92/85, già predisposto col decreto legislativo del governo Prodi all’esame del Parlamento. Questi arretramenti insieme al generale aumento dell’orario di lavoro e al prolungamento della settimana lavorativa al sabato (se non addirittura alla domenica), hanno determinato un peggioramento senza precedenti delle condizioni di vita e di lavoro delle donne proletarie ponendo in primo piano la questione della loro doppia oppressione. Le delegate FIOM, nell’assemblea del 14 marzo a Bologna, hanno richiamato l’attenzione del sindacato proprio su questa questione chiedendo un maggiore impegno dell’organizzazione. Da una loro recente ricerca viene fuori che allo sfruttamento in fabbrica si aggiunge un carico di lavoro domestico che per oltre il 40% delle lavoratrici supera le 6 ore al giorno con una sempre più difficile conciliazione dei ruoli. Il taglio allo stato sociale, cioè a quel tanto di servizi sostitutivi del lavoro domestico che per tutto un periodo hanno reso possibile conciliare (non eliminato) lavoro esterno e casalingo, obbliga la donna a sopperirvi con un aggravio di fatica e di alienazione sempre meno sostenibile e che la pone in una condizione di maggiore ricattabilità.

Una certa rigidità a piegarsi alle iper-flessibilità aziendali, insieme alla considerazione del salario femminile come accessorio o secondario a quello del maschio-capofamiglia, diventa la premessa per la perdita del posto di lavoro e l’espulsione definitiva dal mercato del lavoro. Nel ’95 nel solo Piemonte, dove la forza lavoro femminile rappresenta il 24% del totale, la richiesta di esuberi ha riguardato donne per il 38%. La elevata disoccupazione, in grande percentuale femminile, e la discriminazione nelle assunzioni costringono le donne proletarie, che vogliono rimanere o entrare nel processo produttivo, ad accettare rapporti di lavoro estremamente precari dove alle pesanti condizioni di salario e di orario, troppo spesso, si aggiungono divieti al matrimonio e alla maternità, pena il licenziamento, e soprusi sessuali, come hanno dimostrato gli episodi denunciati dalle braccianti pugliesi.

I fatti di Francavilla Fontana, Nereto e non ultimo quelli della G. & B. di Frassinelle, sono solo alcune delle vicende emerse che sono esemplificative del peggioramento delle condizioni di lavoro imposte in un settore, quello tessile, a forte presenza femminile (67%) ed elevata integrazione internazionale. Sono oltre 30 milioni i lavoratori brutalmente sfruttati nell’industria della moda in ben 160 paesi. La quasi totalità è costituita da donne e bambini. Nelle sweat shops (letteralmente "fabbriche del sudore") si lavora fino a 80 ore la settimana in Indonesia, 20 ore al giorno in Bangladesh, fino a 36 ore di seguito in Cina. I salari sono talmente bassi che la maggior parte di questi lavoratori soffre di malnutrizione. Schiavitù, violenza, stupri sono la regola; centinaia le donne picchiate, arrestate, uccise per aver tentato di organizzarsi in sindacato. La minaccia, qui nelle metropoli, di spostare le fabbriche in questi veri Eldorado del profitto, ha consentito al padronato occidentale di imporre condizioni da terzo-mondo. Non è quindi un caso che in Italia, proprio questo settore con i "contratti di gradualità" abbia fatto da battistrada per l’introduzione, con ben 5 anni di anticipo, dei contratti territoriali, della diversificazione salariale, dell’apprendistato, oggi estesi a tutti i settori con le misure del pacchetto Treu.

E’ la dimostrazione di come, con il riacutizzarsi dello scontro tra capitale e lavoro, il padronato utilizza i settori più deboli della classe come grimaldello per scardinare l’unità del proletariato ed imporre la propria offensiva. Per questo l’attacco alle operaie di Frassinelle o altri casi simili ed il peggioramento complessivo delle condizioni di lavoro del proletariato femminile è un problema che non riguarda solo le dirette interessate ma le stesse condizioni di sfruttamento del proletariato maschile. Il non farsi carico in prima persona di questi settori più deboli e ricattati, significa per l’operaio maschio non farsi carico della propria stessa condizione e di una coerente difesa unitaria e generale di tutta la classe. Sono proprio gli arretramenti in questi settori che consentono ai padroni di portare l’offensiva in quelli più forti. Le decurtazioni al salario per le "soste non produttive" fatte nel garage/fabbrica di Frassinelle sono forse diverse da quelle fatte in busta paga agli operai della De Longhi di Treviso (fabbrica ultramoderna di 550 operai) che erano stati in bagno più dei 7 minuti di pausa concessi? Troppo spesso i proletari maschi, riflettendo la generale difficoltà della classe, rimangono vittime delle campagne lanciate contro le donne da Wojtyla e soci a difesa della famiglia, del ruolo di moglie e madre e per un loro ritorno tra le mura domestiche. Non è raro sentire proletari lamentarsi di come le donne, che in fondo una occupazione "naturale" ce l’hanno, tolgono il lavoro ai maschi o si piegano facilmente ai diktat dell’azienda.

Tutt’al contrario, la lotta delle operaie di Frassinelle e delle altre donne sfruttate e oppresse nelle metropoli come nelle periferie del mondo deve essere salutata con gioia e appoggiata senza riserve da tutti i proletari.

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