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COME SE LA PASSANO I LAVORATORI
NEI TRE PARADISI DEL FEDERALISMO?

Indice

Questo breve excursus sulle condizioni di salute economiche e sociali di tre paesi modello di federalismo non vuole contrastare la tesi "il federalismo conduce al paradiso in terra" con la contro-tesi "il federalismo produce il peggioramento delle condizioni dei lavoratori". La nostra tesi è un altra: la crisi mondiale del capitalismo sta smantellando il compromesso sociale tra capitale e proletariato, seguito al boom post-bellico, in tutti i paesi, anche in quelli più potenti finanziariamente ed economicamente, e la borghesia passa, ovunque, all’attacco delle condizioni proletarie. La secessione, il federalismo, il regionalismo non aiutano il proletariato a diminuire l’intensità dell’attacco, o, addirittura, realizzare un’inversione di tendenza. Anzi, sono soluzioni dal chiaro segno di classe: difendere i profitti trascinando il proletariato nella più completa concorrenza al suo interno.

A diffondere la febbre del federalismo ha contribuito l’immagine di benessere, giustizia sociale ed efficienza di alcuni paesi da lungo tempo federalisti: USA, Germania e Svizzera.

Pur con caratteristiche e storie diverse, questi paesi hanno, assieme al governo centrale, altre entità governative, strutturate per stati, landern o cantoni. La distribuzione e l’equilibrio dei poteri, il sistema dei contrappesi, la logica di funzionamento, appassionano i teorici del federalismo come forma ideale di governo. Eminenti studiosi, costituzionalisti, economisti, politici, simpatizzano per l’uno o l’altro dei modelli, ne decantano i pregi e ne stigmatizzano i difetti, che, per quanti sforzi facciano, risultano sempre pochi e trascurabili, soprattutto se rapportati ai grandi difetti del centralismo italico. Ma tutti concordano nel ritenere il federalismo la chiave per risolvere i problemi dello stato e della società italiani. Il suo grande segreto consisterebbe nell’avvicinare il potere reale ai "cittadini". I guai e le storture esistenti, (disastro delle pubbliche finanze, disoccupazione, inefficienza amministrativa, oppressione fiscale, criminalità e via di seguito), sarebbero null’altro che il prodotto del "malgoverno". Un governo, cioè, affidato a una "classe politica" resasi indipendente dalla "società civile" al punto di non preoccuparsi più del "bene della società", ma solo del suo portafoglio e del potere suo e dei partiti che ne garantivano la sopravvivenza tramite un controllo asfissiante sui governati, esercitato con la contrapposizione ideologica tra partiti o, più prosaicamente, scambiando il voto con i favori alle proprie clientele elettorali.

Si abolisca il sommo potere del centralismo e dei partiti, si sottoponga il governo al diretto controllo del cittadino-elettore, tramite il federalismo, e il purgatorio vigente diverrà paradiso.

Gettiamo uno sguardo, allora, sul paradiso realizzato altrove, chiedendo venia al lettore per il ricorso frequente a numeri e dati.

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USA: ripresa... della polarizzazione sociale

"Il gendarme mondiale della democrazia e della pace", gode anche fama di modello di "sana economia". Prendiamo, per esempio, il trionfale tasso di disoccupazione: 5,2%, la metà di quello europeo. Gli imbonitori non aggiungono come questa prova provata della superiorità del sistema del "libero mercato" non nasconda altro che una truffa statistica: il conteggio è "a campione", e viene classificato disoccupato solo chi nella settimana precedente non ha lavorato neanche un’ora, non ha cercato attivamente lavoro ed è "immediatamente disponibile" per un’occupazione! Con il metodo europeo la disoccupazione USA sarebbe più del doppio.

Un altro decantato successo è la "creazione di posti di lavoro": dal ’91 al ’96 ben 11 milioni. Circa 2 milioni all’anno. Ma il dato non parla affatto a favore dell’economia USA, che dal ’76 all’80 di posti di lavoro ne "creava" 2.800.000 all’anno (e con popolazione inferiore). Non solo, lo sfavillio delle cifre nasconde un’altra cruda realtà: la diminuzione vorticosa dei salari reali: il salario orario medio è sceso del 13% dal ’73.

Dalla seconda metà degli anni ’70 c’è stata negli USA una spettacolare redistribuzione della ricchezza; nel ’75 la retribuzione annua di un operaio era 1/41 del reddito di un padrone, nel ’94 era 1/187! La quota di reddito nazionale intascata dal quinto più ricco della popolazione è passata dal 43,5% del ’74 al 49,1% del ’94. Per il quinto più povero dal 4,3% al 3,6%. Un quinto della popolazione americana si appropria, insomma, della metà della ricchezza nazionale, e aumenta sempre più la sua quota. Di più, il 5% della popolazione totale (i più ricchi fra i ricchi) l’ha vista crescere dal 16,5% del ’74 al 21,2% del ’94. La fonte? Un rapporto dell’ottobre ’95 del US Bureau of the Census, l’Istat americano.

Alla redistribuzione della ricchezza nell’ambito produttivo, ha dato grande impulso la politica reaganiana di deregolamentazione del rapporto di lavoro e di messa all’angolo dei sindacati, favorita, va’ detto, da una inclinazione storica del sindacato di quelle parti a sottommettersi alle necessità delle singole aziende. Non Bush, ma neanche Clinton, hanno corretto -se non in peggio- questa politica di destrutturazione della forza sindacale.

Ma di contributo a redistribuire la ricchezza le politiche governative ne hanno dato un altro, non meno decisivo: la progressiva riduzione del welfare state. Nessuno dei capitoli in cui si articola il sistema americano di aiuto sociale è rimasto indenne. Reagan aveva cominciato l’opera con la scusa di ridurre il deficit federale, che, in realtà, nei suoi anni di "regno" crebbe a dismisura, grazie all’incremento degli stanziamenti per la difesa. Ma Clinton ha portato molto più in profondità l’attacco. Eletto nel ’92 con un programma di vaghe promesse di miglioramento del welfare, ha repentinamente cambiato rotta. La crescita veemente della destra americana ha imposto anche all’ignaro veltroniano Bill il duplice obiettivo di ridurre il deficit statale e di combattere "l’irresponsabilità e l’immoralismo dei poveri", tagliandogli la protezione sociale. Il meccanismo di taglio è un esempio di vero federalismo. Lo stato federale (centrale) non gestisce più, per esempio, i programmi di assistenza alle famiglie povere con un solo genitore, ma trasferisce a ogni stato federato una somma forfettaria (rigidamente inferiore alle precedenti) che questo provvede a impiegare sulla base di proprie autonome scelte, sottoposte al federalistico "controllo ravvicinato dei cittadini". Il risultato è stato lo scatenarsi di un’"asta al ribasso" tra gli stati, i quali hanno visto che più abbassano i criteri di assistenza più diminuiscono i poveri, spinti a emigrare in stati dove i criteri sono meno infami.

Coi risparmi sul bilancio federale s’è finanziata la diminuzione delle imposte sulle imprese e sui ricchi, applicata da Reagan come leva per rilanciare l’economia, e proseguita da Clinton.

E l’economia appare "rilanciata" rispetto al passo di quella europea. Un rilancio ottenuto con la spremitura della classe operaia e dei ceti più poveri, ma anche con una crescita esponenziale dell’indebitamento privato. L’indebitamento delle famiglie per finanziare i consumi, mentre si vanno riducendo i redditi anche dei ceti medi, ha comportato un’esplosione delle dichiarazioni di "bancarotta personale": 1,2 milioni di americani sono stati dichiarati "falliti" nel ’96, 44% più del ’94. Lo riporta Newsweek del 14.4.97.

Un ultimo dato per chiudere questo quadro, inevitabilmente parziale, ma cionondimeno esplicito: la popolazione carceraria USA nel ’94 era di 1.100.000 (330.000 nell’80) persone nelle carceri federali e degli stati, mentre altre 500.000 erano detenute nelle carceri "locali", in attesa di giudizio o per condanne brevi. Tenendo conto solo del primo dato si tratta di un americano su 240. Per fare un raffronto, i detenuti erano in Italia nel ’95 poco meno di 100.000, un italiano ogni 560. En passant, il 48% dei detenuti sono neri: un afro-americano ogni 60 è in galera.

Dato il numero, le spese per mantenerli crescono. Così, per ridurre il deficit e "responsabilizzare" i detenuti, lo stato federale si orienta a... farli lavorare (superfluo aggiungere a quali condizioni e con quali salari).

Con tutto ciò l’International Herald Tribune del 14.10.96 era costernato dinanzi ai risultati di un inchiesta da cui emergeva che l’"americano medio" non crede ai dati ufficiali, è convinto che i disoccupati siano 4 volte di più, che sia 4 volte più alta anche l’inflazione e che il bilancio federale abbia un passivo molto maggiore. Un dubbio fa capolino nell’articolo: la gente, forse, non vede i vantaggi strombazzati riflettersi nella propria vita!

Il federalismo statunitense, insomma, non evita che la crisi capitalistica si scarichi con violenza sul proletariato. Anzi, l’aiuta.

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Germania: colpa dell’unificazione?

Delle difficoltà della Germania c’è, forse, meno da dimostrare. I media italiani non risparmiano di raccontarle, e, spesso, anche di esagerarle per ricordare al partner di essere esso stesso sotto esame.

4.500.000 di disoccupati ufficiali, più un altro milione e mezzo impegnato in "corsi di riqualificazione". 31.500 imprese fallite nel ’96 (10% in più del ’95). Una politica di riduzione salariale in parte concertata coi sindacati e in gran parte ottenuta con la minaccia delle delocalizzazioni verso est, cui la borghesia tedesca ha potuto fare ricorso molto più massiccio d’ogni altra borghesia europea. L’avvio di una politica di riduzione dell’assistenza sociale, che Kohl promette di approfondire in nome di Maastricht.

Nonostante il sindacato tedesco abbia fatto pesare la sua forza e tenuta organizzativa, anche in Germania c’è stata una generale redistribuzione della ricchezza: tra il 1980 e il ’94 i redditi nominali da lavoro autonomo sono cresciuti del 126%, quelli operai del 48%. Tra il ’90 e il ’95 i redditi reali da capitale sono cresciuti del 19,4%, quelli da lavoro sono scesi del 5%. Le imposte a carico delle imprese sono pressocchè scomparse, quelle dei lavoratori aumentate di un terzo.

Dopo averla sostenuta e averne beneficiato politicamente, Kohl sostiene, ora, che le difficoltà tedesche sono dovute allo sforzo fatto per l’unificazione. Da buon conoscitore del federalismo, ne sfrutta tutti i vantaggi sospingendo i lavoratori dell’ovest contro quelli dell’est e viceversa. Ma per farlo deve anche lui, all’americana, truccare i dati o nasconderli. Vediamo.

Finora sono stati impegnati nell’ex-Germania dell’est 750 miliardi di marchi. Una somma colossale se rapportata all’attuale PIL dei landern dell’est (250 miliardi DM). Ma chi ne ha beneficiato? Per Le monde diplomatique (aprile ’97) i profitti delle imprese tedesche sono passati, con l’unificazione, dalla media di 345 miliardi di marchi tra ’80 e ’89 a 653 miliardi nel ’95! Pubblica utilità, cuccagna privata! Ecco dove sono finiti i marchi distribuiti all’est aumentando le imposte su tutti i lavoratori (anche quelli dell’est pagano la maggiorazione del 7,5% per finanziare il "rilancio" della "propria" economia). L’intero apparato industriale dell’est è stato acquisito con pochi spiccioli dai capitalisti occidentali e quasi completamente smantellato, dei 4,5 milioni di salariati solo un terzo ha conservato il posto di lavoro, ma sul mercato locale le aziende dell’ovest hanno fatto man bassa, vendendo i propri prodotti e sfruttando una manodopera tenuta, ancora oggi, a salari enormemente più bassi che all’ovest.

Ma questi enormi profitti non hanno concesso al capitalismo tedesco un vantaggio significativo nella concorrenza mondiale e così, nonostante essi, non può ridurre il suo attacco all’insieme della classe operaia per diminuire spese sociali e salari. E la classe operaia non può sottrarsi dalla lotta, come di recente i minatori e gli edili.

Come quello americano il "diverso" federalismo tedesco non fa da scudo ai lavoratori e si presta, al contrario, a forare il vero scudo che i lavoratori possono opporre al capitale: la loro unità.

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Svizzera: il modello scricchiola.

Il tasso di disoccupazione era nel ’91 al 3,3%, nel ’96 al 5,3 (e le statistiche non considerano: frontalieri, stagionali, persone con permessi di breve durata, i richiedenti asilo e chi non ha telefono): il più alto livello da 60 anni. Un’economia in recessione da sei anni. Un tasso di povertà fino al 15% in alcuni cantoni che fa dire a un giornalista, T. Volger (l’Unità 30.12.95): "La miseria è diventata un fenomeno sociale in Svizzera". Chiusura di aziende, fusioni che tagliano posti (5.000 per fondere Ciba e Sandoz in Novartis). Continua emorragia di posti di lavoro. Tagli salariali: nelle ferrovie del 3%, in molte amministrazioni locali del 4%. Il consolidato federalismo svizzero ha "gabbie salariali" cantonali con una forbice amplissima, nel ’94 il salario mediano (a metà tra i salari più alti e i più bassi) del Cantone di Zurigo era, al lordo, di 5.433 franchi svizzeri mensili, quello del Canton Ticino di 4.179. Né le "gabbie", né la (vacillante) potenza finanziaria svizzera hanno salvato il paese dalle conseguenze della crisi mondiale del capitalismo. Persino le banche svizzere hanno cominciato a licenziare. E con l’attacco alle condizioni di vita dei lavoratori, giungono anche nel "paese di Bengodi" le prime lotte, e scompare anche la tradizionale cortesia svizzera da parte dello stato, la cui polizia non esita, per esempio, a irrorare sostanze tossiche ustionanti su una manifestazione di contadini contro l’abbattimento di 250.000 "mucche pazze" (il manifesto 30.10.96).

A un convegno internazionale della CGIL-FP di Como, un sindacalista svizzero ha detto: "L’attacco alle ferrovie e ai servizi pubblici in Svizzera -notoriamente i più efficienti e puntuali- è la dimostrazione che i governi non sono mossi da alcuna volontà di migliorarne l’efficienza per i cittadini, ma dall’unico scopo di creare profitti per una sola classe". Ben detto! A quando la conseguente risposta di classe di parte proletaria?

La Padania (12.1.97) informa che, secondo una recente inchiesta, il 71% degli svizzeri ha paura di perdere il posto di lavoro e teme che un sistema collaudato come quello svizzero possa crollare da un momento all’altro. Ai redattori deve essere ghiacciato il sangue nelle vene. Nel tentativo di scongelarlo l’articolo chiude in modo autoconsolatorio: "Da qui a considerare completamente esaurito e da sostituire l’intero modello politico-economico elvetico, costituito sull’autonomia e sulla libertà economica, ancora ce ne passa".

Sì, ce ne passa. Ma meno, molto meno, di quanto sperate voi, imitatori e costruttori di "modelli federalisti o secessionisti", il cui unico scopo è sottomettere il proletariato a un giogo ancora più pesante e oppressivo di quello attuale, il giogo dello scontro e della guerra al suo interno, da cui avrebbe da guadagnare solo il capitale d’ogni dimensione, padano, italiano e internazionale.

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