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Situazione politica italiana

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IL PROLETARIATO DEVE USCIRE DALLA PALUDE,
SE NON VUOLE ESSERNE INGHIOTTITO.

L’ALTERNATIVA ALLA PALUDE
NON E’ LA SPACCATURA DEL PROLETARIATO.
E’ IL RILANCIO UNITARIO DELLA LOTTA AL CAPITALISMO.

Indice

Poco più di un anno fa l’Ulivo festeggiava un esito parlamentare tale per cui, pur con una minoranza di voti in termini assoluti, gli era assicurata la maggioranza governativa. "Vittoria!", contro il centro-destra e la Lega; "vittoria", quindi, anche per le masse lavoratrici, chiamate a festeggiare assieme ai big dell’industria e della finanza "progressiste", se non altro per lo scampato pericolo Berlusconi-Fini. E, sia pur tra dubbi e incertezze ed al di fuori di ogni scesa in campo militante in prima persona, come invece s’era dato in passato, il proletariato ha creduto bene di tirare un sospiro di sollievo: la destra non è passata, il governo di centro-sinistra che oggi s’insedia al potere non sarà proprio l’espressione più adeguata dei nostri bisogni, ma tanto meno si potrà porre pregiudizialmente in conflitto con noi che l’abbiamo partorito; da qui, quindi, si riparte con le spalle al sicuro quanto alla destra, nostra nemica frontale.

Questo sostanzialmente l’atteggiamento del proletariato dinanzi alla formazione del governo dell’Ulivo. Restano comunque dei dubbi? Nessuna paura, la presenza nella coalizione elettoral-governativa di un Robespierre "comunista" del calibro di Bertinotti rappresenta una polizza a copertura integrale per i proletari!

L’esperienza dei fatti accumulata in questi mesi dovrebbe, oggi, permettere di passare dalle speranze e dalle illusioni coltivate da una certa "idea" del capitalismo (in economia e in politica) e del rapporto tra esso e il proletariato, ad un bilancio serio, che non si limiti ad un immediatistico ed astratto conteggio delle entrate e delle uscite, ma vada alla radice delle questioni che sono sul tappeto.

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La vittoria dell’Ulivo non ha portato benefici ai lavoratori.

Noi dicemmo allora e ripetiamo oggi: non c’è stata nessuna vittoria, neppur relativa, per il proletariato. Non solo e non tanto perché dietro la maggioranza parlamentare c’è una minoranza effettiva di consenso elettorale. Ma perché tutte le istanze economico-sociali borghesi per cui si agitavano e si agitano centro-destra e leghismo sono destinate ad imporsi dentro la cornice del centro-sinistra; perché ogni titubanza ad andare sino in fondo sulla via da esse segnata non varrà a marcare alcuna alternatività reale di questo governo rispetto al precedente, ma solo a creare nuovi scompensi e ritardi rispetto all’agenda tutta borghese all’ordine del giorno e, con ciò, a rendere più acuto nel medio periodo -per tutto l’arco politico borghese- il bisogno di una più decisa resa dei conti con l’ipoteca proletaria da liquidare.

Ed ancora per un altro motivo, il principale: la passivizzazione politica (e sindacale, in combinata) del proletariato a rimorchio di un programma e di un personale dirigente espressamente orientati verso il "centro", la "moderazione" e, soprattutto, il capitale, in una situazione non congiunturale di stretta economica e, quindi, di riduzione all’osso dei margini di concessioni, nella quale il compromesso, il consociativismo (per non dire corporativismo) sociale tra le classi non è tale neppure da costituire un argine all’attacco borghese, ma, al contrario, lo sollecita e gli spiana la via. In questo quadro, la polizza Bertinotti può avere il solo effetto di lasciare l’assicurato senza copertura quando si sbuccia un gomito, si frattura le costole o si vede frantumare l’auto con la sagace spiegazione che, però, essendo assicurato, non s’è rotta la testa (per intanto) e, quindi, stia fiducioso e contento che c’è chi vigila su di lui.

Avevamo torto? Ebbene, cominciamo col farci i conti in tasca. Nuovi prelievi, nuovi sacrifici si sono aggiunti ai precedenti e quando si è trattato di rinnovare dei contratti decisivi, come quello dei metalmeccanici, il ricatto della borghesia l’ha vinta in pieno in un ridicolo balletto tra confindustriali su di tono e sindacalisti e politici "operai" fermamente decisi a non far passare le loro richieste al 100%, ma solo al 95 in nome di principii e regole di compatibilità borghese unanimemente condivisi da entrambi.

Poi si è trattato di gettare sul piatto la questione del lavoro quale banco di prova "senza sconti" per il governo non disdegnando di ridiscendere in piazza ("contro il governo, per il lavoro o contro il lavoro, per il governo, non s’è capito bene": commento di Mai dire gol! veramente... centrato), e tutto questo per "conseguire" maggior flessibilità, lavoro in affitto, gabbie salariali, un’ulteriore linea di frattura Nord-Sud "in cambio" di una manciata di posti precari sovvenzionati dallo Stato. Col solito Bertinotti pronto a dire che gli dispiace per queste ulteriori lesioni alle ossa, ma l’importante è che la testa stia ancora sul collo (fin che la barca va...).

Ma si è trattato, almeno, di sacrifici a parti uguali (se mai una scalfarata del genere potesse avere un senso)? Guarda caso, grossa industria ed alta finanza sono state, all’opposto, favorite, come al solito e com’è borghesemente giusto trattandosi dei pilastri su cui si regge il sistema, e basti pensare ai milioni-auto pro-FIAT ed a tutto il sistema di sgravi contributivi per chi si "accollerà l’onere" -da buon San Vincenzo- di una nuova occupazione flessibilizzata a prezzi già stracciati.

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E ora, inaspettato, sta per arrivare il peggio.

E cosa si profila all’orizzonte? Niente di meno che la "riforma" dello stato sociale, vale a dire un deciso taglio delle spese (superflue, improduttive, insostenibili) in materia. "In linea di principio" non c’è nessuno, tra i partiti e i sindacati di sinistra, che non sia d’accordo: "razionalizzare" si deve, su ciò non si batte ciglio, e tutt’al più si può vedere come redistribuire i costi ed a chi affidare il boccone appetitoso della privatizzazione del welfare (un po’ meno a Berlusconi, un po’ più alle holding sindacali, ad esempio). L’ultima trovata dei sindacalisti per far trangugiare la pillola ai propri iscritti è la stessa di cui sopra: siamo disposti a trattare purché ci sia un serio piano per il lavoro (...di merda, ed a salario sottoequivalente).

I conti in tasca sono, dunque, facili da farsi senza aspettare le rapine prossime venture, ed è scarsa consolazione quella di chi si dice: beh, se al governo ci fosse stata la destra ci sarebbe andata persino peggio...

Siamo chiari: constatando questo nudo dato di fatto noi non diciamo in alcun modo che l’Ulivo si è comportato o si comporterà allo stesso modo di quel che desidererebbe la destra, posto che, comunque la si giri e rigiri, la base sociale su cui poggia l’Ulivo è diversa in una sua decisiva parte da quella delle destre e, per quanto cloroformizzata, essa impone al governo in carica determinati spazi di contrattazione. Ma noi diciamo al contempo: questi margini (lo diceva anche Bertinotti, sino a ieri l’altro) si stanno sempre più assottigliando e, in ogni caso, possono darsi solo all’interno di un drastico programma di stretta borghese. Infatti, noi non accusiamo i "riformisti" di non rispettare i patti. Al contrario, è perfettamente vero che all’interno del sistema mondiale attuale del capitalismo il massimo compatibile di difesa degli interessi proletari dipende dal massimo di loro schiacciamento sugli interessi del capitale. Limitazioni salariali, riduzione dei diritti, flessibilità d’ogni tipo, rinunzia a fette importanti dello "stato sociale" etc. etc. sono armi della "nostra" competitività nazionale e quindi della possibilità indotta per i lavoratori di preservare dei minimi standard di tenuta. Lo stesso vale per i sacrifici richiestici per "entrare in Europa": Bertinotti aveva su ciò, inizialmente, fatto la finta di opporsi, motivandola col ritornello "perché sacrificarci per l’Europa"? (Come dire: possiamo benissimo star da soli); poi, però, da buon riformista, anche lui ha fatto i conti col dato di fatto che (sempre restando all’interno dell’ottica capitalista) restar fuori dall’Europa significherebbe per la "nostra" economia nazionale una vera e propria catastrofe perché in un sistema mondializzato non possono esistere isolette del Bengodi autarchiche, ma chi sta fuori del gioco dei poteri forti è destinato solo ad essere schiacciato.

Che vogliamo dire? Che tutti i piagnistei e le chiacchiere sulla possibilità di evitare i sacrifici evitando, nel contempo, lo scontro aperto di classe sono una pagliacciata. Difendere i salari, l’occupazione, il welfare? Opporsi ai sacrifici? Tutto ciò ci sta benissimo, ed è per questo che qui ed ora lottiamo sul terreno immediato; ma ciò non è possibile nell’ambito della politica ed attraverso l’impiego degli strumenti di "lotta" riformisti.

Chi non riesce a capacitarsi di tanto farà degnamente il suo mestiere di tutore delle "classi deboli" inseguendo "ragionevolmente" da sinistra le leggi imposte, a... destrissima, dal capitale.

Fa bene, allora, Bertinotti a legarsi mani e piedi ai Prodi ed ai Dini cedendo tutto il cedibile possibile senza perder la faccia, o quel che resta di essa. E meglio ancora fa D’Alema insistendo ad anticipare la questione dei passi necessari ulteriori da fare sulla via delle "riforme" per non essere colti di sorpresa e scavalcati dagli eventi (e dalle forze politiche avverse), il che andrebbe a tutto danno anche dei lavoratori. Così come benissimo ha fatto a suo tempo Garavini ad opporsi al futile "estremismo" di un’ora di Bertinotti andando ad anticiparlo sulla trincea oggi comune ad entrambi. E benissimo faranno i culi di piombo parlamentari di Rifondazione che, quando verrà il momento del licenziamento a pedate del loro partito dalla coalizione ulivastra, si dissocieranno dall’"estremismo" (!!) bertinottiano che "fa il gioco della destra, a danno dei lavoratori".

Il problema serio è che quanto più ci si sposta a destra e sul piano parlamentare (ad esclusione di quello "superato" della lotta, sui posti di lavoro e in piazza), tanto più si pigliano con una sola fava due piccioni avvelenati: una soluzione "strutturale" dei problemi del capitale è rinviata, così che la nota spese per rimettere in sesto i suoi conti si fa più pesante (e la dovremo pagare poi noi, con interessi da usura!); la capacità di reazione del proletariato alle cause reali della situazione (che stanno nel capitalismo stesso, in quanto sistema) viene costantemente castrata col risultato che, quando l’ora dello scontro verrà, essa suonerà inattesa e rischierà di vedere una battaglia tra galli in cui una delle due parti giocherà da cappone.

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Fino a quando la borghesia potrà rinviare gli attacchi frontali?

Tutti i borghesi, di destra e di sinistra, sanno perfettamente quali sono i nodi cruciali che ci aspettano, e dei quali le schermaglie sull’Italia in Europa sì o no (e relativi costi) sono solo un’avvisaglia. Ma, contemporaneamente, tutti (con l’eccezione -tutt’altro che piacevole- di cui diremo) si rimandano la palla, giocano al rinvio, al compromesso, all’"inciucio", per dirla con la parolina di moda. Una lunga abitudine pluridecennale ad ogni sorta di compromessi più o meno storici tra partiti e rispettive classi di riferimento in una fase di sviluppo economico ascendente o, comunque, stabile ha per così dire drogato le parti in causa con un effetto di assuefazione da cui è difficile uscire.

Prendete la terribile Confindustria. Alle elezioni del ’96 essa già faceva pesare come una spada di Damocle sulla testa del proletariato una lista di esigenze micidiali. Ma, per dar corpo ad esse, guardava politicamente non alla destra, ma al centro-sinistra, e non certo per conversione alle "insopprimibili esigenze popolari" sbandierate dall’Ulivo, ma nella convinzione che le misure necessarie al capitale si sarebbero meglio potute prendere con la concertazione, con l’accordo, senza uno scontro sociale (come se lo scontro sociale non fosse inscritto nel contenuto stesso delle esigenze capitalistiche nel loro movimento reale!).

Quindi, meglio un governo con dentro anche Bertinotti se questo serve a garantire una politica di destra compatibile per tutte le parti in causa (l’una all’incasso, l’altra al versamento!).

Tutto perfetto sulla carta, salvo il fatto che il proletariato, anche se appisolato, non si lascia giocare come una semplice pedina e non gli si può far credere sulla parola che le bastonate in testa sono delle carezze e l’olio di ricino uno zuccherino; salvo il fatto, di conseguenza, che i partiti che su di esso poggiano le proprie basi devono tenerne in qualche modo conto, proprio per non turbare l’ordine che tanto sta a cuore a "tutti" e non provocarne un brusco risveglio. Risultato? Buchi da ogni lato.

La Confindustria oggi se ne lamenta, dimentica di esserne essa stessa responsabile, alza il prezzo (perché, come s’è detto, i tassi d’usura sugli interessi maturati lo richiedono), e si rivolge... non si sa a chi. L’ideale sembrerebbe ora quello di un governo allargato a tutte le forze "serie e responsabili", previa la cacciata del povero Bertinotti, che ha fatto il suo tempo. Solo che anche se a ciò si potesse metter capo, non cambierebbero i dati di fondo: lo scontro sarebbe solo rinviato, con soluzioni pasticciate, ma non evitato. Ed, oltretutto, se si può benissimo espellere Bertinotti dal governo senza danni per esso, non si può espellere dalla scena il proletariato. E anzi quel che sul piano governativo si guadagnerebbe agendo senza la palla al piede bertinottiana, lo si perderebbe dal punto di vista del controllo politico del proletariato che è stato sin qui assicurato dalla (falsa) opposizione (falsamente) comunista, e la mancata "rappresentanza" istituzionale del proletariato proprio quando si dovrebbero prendere misure più drastiche contro di esso, rischierebbe di rendere aleatoria persino la funzione di contenimento dall’opposizione del PRC.

Ma guardate poi il Polo! All’opposizione esso si è trovato, ad un certo punto, gratificato dalla rabbia antiulivista delle classi e dei ceti che esso rappresenta e reso più libero nei movimenti dalla crescente delusione di larghe fasce proletarie. Erano i fatti stessi ad imporre ad esso il ricorso alla piazza. E il Polo questo appello lo ha fatto proprio, ma... ma scendendo in piazza col proposito di fermarla, di evitare lo scontro, e non perché mancassero le premesse per vincerlo, ma per la paura delle sue conseguenze, di quel che sarebbe avvenuto dopo, all’atto di doversi prender carico delle esigenze borghesi direttamente contro il proletariato, i "suoi" partiti, i "suoi" sindacati. Quindi: vediamo di non esagerare, cerchiamo di concertare, chiudiamo a Bertinotti ma apriamo a D’Alema, pasticciamo assieme quel che è possibile pasticciare in Bicamerale etc. etc. E su questa medesima linea di "opposizione governante", e perfino con uno stile più felpato, si è preparata anche la nuova mobilitazione di massa di inizio maggio, e, con ogni probabilità, se ne gestirà nello stesso modo la spinta.

Sempre la stessa politica del rinvio e del pasticcio. Quella in cui, all’"estrema" sinistra, primeggia dal canto suo Bertinotti il quale ha bisogno come del pane di uno spauracchio di destra per poter mettere in scena contro di esso uno spauracchio di sinistra, democristi, post-socialisti (peggiori dei craxiani doc), diniani compresi all’occorrenza. Il tutto per rendere meno amara la pillola all’immediato e rinviare all’infinito la necessaria resa dei conti. Una "battaglia" sempre più giocata negli anfratti di Montecitorio e sui palcoscenici mass-mediatici e sempre meno là dove pulsa il cuore vivo della classe.

Noi siamo convinti, e lo ripetiamo da tempo, che questo generalizzato scansarsi dal terreno di scontro prepara una miscela esplosiva destinata a ridestare traumaticamente dal sonno anche i ghiri più impenitenti. Ma diciamo anche che sarebbe da irresponsabili, sia per noi che per i nostri nemici di classe, attendersi da tale scoppio la soluzione automatica di tutti i problemi. Al contrario, il loro incancrenirsi per tutta una lunga fase preliminare può solo produrre un pericoloso sbando. Quello della borghesia nazionale (e fin qui poco male!), tenuta fuori dall’Europa dei grandi ed a rimorchio servile di essi. Quello del proletariato italiano (e questo è il guaio!), nel suo rincorrere nel baratro la borghesia in vane dispute contrattualistiche al ribasso, senza una propria politica e una propria organizzazione di classe. Una comune rovina delle classi in lotta (in Italia) che significherebbe poi, a scala internazionale, un ulteriore rafforzamento dispotico del capitalismo iper-centralizzato in quanto sistema.

 

 

Anticipavamo sopra: tutte le forze politiche e sociali che "contano" navigano felici in questa melma. Tutte, meno una. Questa forza è, al nord, la Lega.

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Contro la Lega (e il leghismo meridionale)

Il segreto della Lega sta nell’aver colto la drammaticità della situazione attuale che, compromesso dopo compromesso, ritardo dopo ritardo, ha dinanzi a sé solo soluzioni traumatiche e nel comprendere che forza vincente nello scontro che si profila può esser unicamente quella che, anche in fasi di bonaccia come, in superficie, quella di oggi, sa affilare armi adeguate alla bisogna: un’organizzazione militante di partito, un’azione capillare e quotidiana fuori dalle secche elettoral-parlamentari, una politica capace, ad un tempo, di attrarre un consenso attivo di massa, di "popolo" che si esprima in forme largamente decentrate e partecipative e realizzare un programma fermamente liberistico e centralista nei suoi contenuti. Un programma democratico nell’unico modo in cui si può usare oggi quest’aggettivo: democrazia imperialista.

Se la borghesia italiana avesse avuto in passato o potesse trovar oggi più nerbo, il leghismo non avrebbe ragion d’essere perché tutti i suoi postulati fondamentali rivestirebbero panni nazionali e non padani. Ma poiché così non è, la Lega viene a colmare un vuoto entro uno spazio geografico più delimitato e con ambizioni fameliche, ma, per forza di cose, assai più ridotte, sapendo di poter esercitare le proprie zanne solo aggregandosi a qualche altra più solida locomotiva europea, negli spazi da questa concessi ai "gregari".

Il prezzo da pagare per questa prospettiva è la rescissione di quei legami patriottici italiani che, ormai, resistono solo sulla carta e nelle omelie di Scalfaro, mentre la disunità d’Italia si approfondisce giorno dopo giorno. Lesa Patria? Ma la "Patria" borghese l’hanno distrutta i dirigenti borghesi "nazionali" stessi ed i loro consorti riformisti!

La "nostra Patria" non ce la fa ad entrare in Europa con dignità (e forse neppure senza) e non ce la fa neppure a tenere assieme i suoi cocci, Nord e Sud, borghesia e proletariato (ai primi si chiede "solidarietà" strangolandoli di improduttivi balzelli, ai secondi si promettono solidaristici "aiuti" che, anziché colmare il fossato, lo approfondiscono ulteriormente, economicamente e psicologicamente). La Lega tenta di far entrare in Europa un Nord compatto, libero dei pesi assistenzialistici del sistema e libero di... pescare poi al Sud nell’ambito di uno sviluppo combinato e diseguale per definizione. E, al Nord, il conflitto di classe borghesia-proletariato appare sanato attraverso la mobilitazione comune dei "comuni" interessi contro la magiatoia romana. Non si chiede al proletario padano di non lottare, anzi gli si chiede di farlo in prima linea e brandendo con decisione le proprie rivendicazioni specifiche di classe, ma all’interno di una prospettiva interclassista nazional-padana, dopo di che si potrà parlare anche di "patria proletaria" (lo fece anche il Duce) o di "patria democratica progressiva" (lo fece, più pedestramente, Togliatti). Per i lavoratori, due solenni fregature, con la terza in dirittura d’arrivo.

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Per l’unità di classe con i proletari leghisti

Il tristissimo paradosso sta proprio nel fatto che -andate un po’ attorno e frequentate la gente!- il "popolo leghista" appare spesso, anche fisiognomicamente, quello a noi più vicino, quello composto (in buona parte) di proletari sani ed incazzati che gioiosamente si trovano assieme e militano, assai più dello spento "popolo ulivista" sempre più fatto di borghesi d’ogni grado, col proletariato sempre più sgradito, incomodo ed assente di fatto, che si ritrova nei teatri e nei salotti a brindare ai propri neo-rappresentanti pescati tra la grande industria, la finanza e le altre ignobili arti alto-borghesi. Il proletario di sinistra autentica può certamente accapigliarsi con quello leghista su tutto, ma non per questo cessa istintivamente di sentirlo come uno dei suoi, deviato lì non si sa come, ma comunque dei suoi.

Non per questo simpatizziamo Lega, al contrario elevato al cubo! Ma tantomeno c’indigneremo per la "stupidità" del proletario leghista e meno ancora ce ne serviremo per contrapporle la sovrana intelligenza del bertinottiano, magari, che tifa e vota per il borghese di "sinistra" chiamato a conciargli la pelle. Il sano proletario che aderisce alla Lega lo fa per la responsabilità di una "sinistra" che ha tradito il programma di classe e può utilmente esser sottratto alla Lega solo a patto non di smorzargli la legittima rabbia anti-mangiatoia, ma di dare ad essa ulteriore vigore e giusto indirizzo.

Lo stesso diciamo per gli sfruttati del Sud che possono magari, fin qui in un’area delimitata, tifare o militare nella Lega Sud capeggiata dal ceffo non certo bello a vedersi (e sentirsi) Cito, o che potrebbero persino deviare a destra verso soluzioni populiste capaci di accoglierne demagogicamente le istanze di classe (la pappamolla AN, cui pure vanno molti voti popolari al Sud, è ben lontana dall’essere capace di tanto; "astrattamente" potrebbe esserlo la Fiamma rautiana se non fosse anch’essa piuttosto aennizzata). Tanto più lo diremmo in caso di una loro esplosione che pur avesse i tratti della jacquerie più che di una rivoluzione. Ché in questo vedremmo un esito in certo senso obbligato della necessità di ribellarsi contro condizioni di esistenza divenute intollerabili ed, insieme, dell’impossibilità di farlo all’interno, o a fianco, di un movimento operaio ufficiale che ha espunto dalla sua politica e dai suoi metodi di azione ogni traccia di antagonismo, e che, avendo introiettato come sacre tutte le regole del mercato, ne ha anche accettato -la CISL davanti a tutti e la CGIL a seguire- quel funzionamento combinato e diseguale che produce effetti sempre più devastanti anzitutto sui proletari delle aree depresse.

Per noi, infatti, l’ipotesi tra tutte peggiore sarebbe quella, al Sud come al Nord, della accettazione passiva, da parte delle masse lavoratrici, del corso generale dell’economia e della politica borghese come di una sorta di necessità naturale cui bisogna rassegnarsi non essendo possibile, se non a proprio danno, opporsi. Poiché niente più di questa inerzia faciliterebbe la borghesia italiana, e/o le sotto-borghesie della Padania e del Sud, nel compito di colpirle prima con tutta la violenza di cui necessitano, e mobilitarle poi attivamente per le guerre economiche e militari in arrivo.

Questa nostra simpatia verso una certa base lavoratrice leghista e la nostra sollecitazione ad una proiezione fronteunitaria nei suoi confronti, come nei confronti dei proletari del Sud che sono (o fossero) attratti da pseudo-soluzioni populiste, può risultare scioccante per quanti non riescono a distinguere il contenitore (borghese reazionario, tale pure se tinto di vernice "progressista") dal contenuto (proletario, e perciò sempre, per la sua natura sociale, potenzialmente rivoluzionario, per quanto deviata possa essere la sua coscienza). Ma ci muoviamo per intero nel solco della politica marxista per l’unità di classe.

Il senso marxista del fronte unico non sta, infatti, nel rapporto con le insegne politiche, da soppesare col bilancino borghese del più a destra o più a sinistra per poi scegliere le seconde, ma nel rapporto con le forze sociali di classe, coi loro bisogni reali, di cui occorre saper strappare le bandiere a chi le tiene in mano a scopo d’inganno. In questo senso noi registriamo il dato, solo relativamente nuovo, che in Italia, al Nord come al Sud, l’identità proletaria si sta sempre più scostando dalla tradizionale sua "collocazione" politica nella sinistra. Né è fenomeno limitato all’Italia; basti pensare al seguito operaio del Fronte nazionale di Le Pen o a quello, negli USA, di un Buchanan, o alla presa popolare (ma anche proletaria) del Vlaams Blok fiammingo, etc. Ed è facile immaginare che non ci si fermerà qui, se procederanno di questo passo le quotidiane revisioni programmatiche delle socialdemocrazie da un lato (e la vittoria elettorale del Labour di Blair è una spinta di quelle potenti ad accelerare ovunque la corsa in questa direzione), e l’inasprimento delle politiche anti-proletarie invocate dai mercati dall’altro. Il fatto è che il proletariato non può dismettere la propria condizione di classe (sempre più) sfruttata e oppressa, ed a misura che non riesce a farsi ascoltare nei suoi bisogni e nelle sue aspettative a "sinistra" da quelli che sono stati fin qui i suoi abituali referenti, è giocoforza costretto a rivolgersi a "nuovi" interlocutori, spesso di destra, che spera siano meglio disposti nei suoi confronti (interlocutore che, per la massa del proletariato ma anche per il grosso della sua avanguardia, non può essere ancora l’organizzazione rivoluzionaria).

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Conservare non si può.

Illusione, senza meno. E dai risvolti, ove dovesse consolidarsi nel tempo, tragici. Ma è forse preferibile a questa, l’illusione tipica dei lavoratori della "sinistra" di poter conservare ancora intatto -o quasi- uno status quo che se ne cade a pezzi? pensare di poter conservare intatta la propria casa, quando da vent’anni sotto il loro naso e talvolta col loro consenso, un pò alla volta il capitale la sta svaligiando delle suppellettili (e fin qui...), ed è passato con tutta evidenza a staccarne le porte e a demolirne i muri? è forse un’illusione meno tragica, o non è a tratti perfino grottesca, quella di poterla scampare affidando "tatticamente" la propria pelle nelle mani di "alleati" dichiaratamente intenzionati a conciarla, quali la DC (ricordate i tempi dei governi di unità nazionale?), la "sinistra" socialista, i popolari eredi della DC, i Segni (a proposito: è alle liste comuni con AN, per ora, l’amicone di Occhetto), i Dini, i Di Pietro, Scalfaro, Wojtyla e chi più ne ha (di reazionari a 18 carati) più ne metta? Se sicuramente l’Arca di Noè-Padania non ci potrebbe proteggere dal "diluvio universale" dello scatenamento esplosivo della crisi capitalistica, lo potrebbero fare forse le scialuppette di salvataggio (le "cento città") su cui ci invitano a salire i grand’ammiragli del più demente e gretto dei federalismi, quello ulivista?

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E’ la prospettiva rivoluzionaria (di classe) la sola via di uscita.

Evidentemente no. Anzi, chiamiamo i militanti proletari della sinistra a constatare l’assoluta impossibilità di salvare capra e cavoli, l’attuale "welfare" e la competitività delle aziende e della nazione. E d’altro canto, proprio sulla base di questo presupposto è necessario rivolgersi ai lavoratori che si sono messi in marcia dietro le insegne leghiste, dicendo loro:

"Pienamente d’accordo con voi quando mettete sotto accusa la sanguisuga statale, il parassitismo della burocrazia, ogni sorta di mafie, etc. Pienamente d’accordo con voi che se vogliamo evitare il precipizio dobbiamo metterci in moto; che è ora di finirla con un difensivismo perdente, e bisogna perciò prendere l’iniziativa; che non si può cambiare effettivamente la situazione nel senso favorevole ai lavoratori andando per le vie legali e istituzionali (il voto, le riforme in Parlamento, la bicamerale e palle varie), né con la sola lotta sindacale; che necessita una soluzione politica, un cambiamento complessivo e radicale; e più che mai d’accordo che la realizzazione di una prospettiva liberatoria per i lavoratori richiede la forza della mobilitazione di massa e l’uso della forza organizzata.

"Ma attenzione, in questa lotta, ad andare fino in fondo e nella direzione giusta.

"Non arrestarsi a metà nello scontro con il parassitismo significa mettere nel mirino della nostra artiglieria non soltanto ‘Roma ladrona’ e lo ‘stato ladrone’, ma anche il loro mandante: la classe ladrona per eccellenza, che si mantiene e prospera succhiando il nostro lavoro e la nostra vita, la classe capitalistica intera (e non solo i "grandi capitalisti assistiti", ché "assistiti" -dalla classe operaia- lo sono tutti i capitalisti). Se riuscissimo a far fuori lo ‘stato centralista ladrone’ e lasciassimo andare indenne la classe che l’ha costruito, ce la ritroveremmo al posto di comando in Padania né più né meno di oggi (non è successo così anche nella finta "rivoluzione" anti-fascista?), e saremmo punto e a capo.

"Alla base dei nostri guai, che non sono solo nostri ma in buona sostanza sono comuni a quelli degli altri paesi europei (per parlare solo dell’Europa), non c’è il Sud o i meridionali: c’è la crisi storica del sistema dell’economia di mercato che riesce a "progredire" in modo stentato e caotico ormai solo ricacciando indietro i lavoratori. E dunque la vera alternativa che ci si pone davanti non è quella tra Padania e Terronia o Italia. E’ un’altra:

"o accettiamo di farci carico della competitività dell’Azienda, con la speranza di averne poi dei benefici, e ne rimarremo stritolati; sia se è l’Azienda-Italia di Prodi e soci, sia se è l’Azienda-Padania di Bossi, ;

"o puntiamo a rovesciare sulla "classe ladrona" i costi della crisi del suo sistema sociale, e ad organizzare la forza che necessita per farlo, ricostituendo l’unità nazionale e internazionale del nostro fronte di classe.

"L’indipendenza che ci serve davvero è l’indipendenza dal mercato e da tutti i paladini del mercato, la nostra indipendenza di classe. Per conquistarla dobbiamo al più presto frenare e invertire la tendenza a separarci dai nostri compagni di classe del Sud e dagli immigrati, perché questa secessione ci farebbe solo più deboli, più dipendenti, più schiavi di chi ci sfrutta.

"L’unità che ci serve davvero non è l’unità dei padani, affratellati sfruttati e sfruttatori, come predicano del resto per l’Italia anche Polo e Ulivo, ma l’unità di classe nella lotta intransigente al capitalismo, nella lotta per liberarci dal capitalismo che ci opprime. E’ solo in questa lotta che il nostro protagonismo sarà per noi stessi, e non per i nostri nemici, come lo è stato nella fasulla "Liberazione" del 1945 e come lo sarebbe in una seconda "Liberazione" altrettanto, se non più, fasulla oggi."

Cambiando quel che c’è da cambiare (non l’essenziale), è lo stesso "discorso" che va rivolto ai proletari che al Sud iniziano a vedere nella "lotta al colonialismo" e all’"egoismo" del Nord e nella riscoperta delle proprie "radici meridionali", magari alla coda di classi proprietarie ancor più fetenti di quelle padane (se avesse senso una simile graduatoria), la possibilità di un riscatto sociale che, -giustamente in questo-, non riescono a credere possa venire dalla normale amministrazione del sistema-Italia nelle sue forme attuali. Fermo restando che il dissenso dai loro, pur comprensibili risentimenti "anti-nordisti" (lo sono, del resto, in un certo quadro, anche quelli "anti-sudisti"), non deve impedire ai militanti comunisti di solidarizzare con le loro lotte, chiunque se ne trovi alla testa.

La crescente frantumazione politica del proletariato tra Ulivo-Rifondazione, Lega, leghismo meridionalista, Polo ci costringe ad articolare sempre più la nostra propaganda e la nostra agitazione. Ma la stella polare di tutto il lavoro è comunque una sola: il rilancio della lotta, dell’autonomia e della ricomposizione unitaria di classe, nella prospettiva della rivoluzione vera, di cui abbisognano sia i lavoratori che l’intera società, la rivoluzione proletaria e comunista. Che, assicura l’astrologia marxista, sta da lontano approssimandosi. Non bisognerà attenderla altri duemila anni come la bella cometa di Hale-Bopp.

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