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Situazione politica italiana

l’Unità, il manifesto, Liberazione: tre crisi, una stessa radice.

Pare che la stampa "comunista", o "di sinistra", versi in gravi difficoltà.

Contemporaneamente L’Unità, Il Manifesto, Liberazione denunziano perdita di lettori e grossi buchi di bilancio, insostenibili anche per coloro che pure usufruiscono di ingenti finanziamenti pubblici per dar lavoro alle rotative.

La crisi colpisce indistintamente sia giornali che hanno fatto di tutto per adeguarsi al nuovo mercato dei "lettori" (come L’Unità) sia quelli che vengono comunemente imputati di essere dei semplici "bollettini di partito" (come Liberazione).

Che fare per riguadagnarsi gli spazi di audience perduti? Su questi tutti e tre s’interrogano angosciati e tutti s’immaginano "nuovi modi" di fare il giornale e "nuovi pubblici" cui rivolgersi, non si sa bene ancora quali, a parte L’Unità che continua a proliferare videocassette, CD, libri, da Elvis Presley in giù tanto per onorare una testata "fondata da Antonio Gramsci", e magari con qualche puntatina hard, "diversa", per intanto.

Noi rivoltiamo la questione così: perché viene progressivamente a mancare un "pubblico" proletario di acquirenti?

La risposta è, allora: perché tutta la politica precedente (di cui quella attuale non è che la diretta conseguenza "estremizzata") condotta dalle rappresentanze in questione si è svolta nel senso di deprimere e deviare il potenziale di classe esistente ("sul mercato"?).

Nei suoi anni d’oro di diffusione L’Unità non ha cessato un attimo di portare avanti, anche e proprio negli anni di massimo scontro sociale, una linea di compartecipazione attiva alle sorti del capitalismo nazionale. Certo, negli anni cinquanta, comprare e diffondere quel giornale costituiva una testimonianza di massa di posizioni "di classe", e lo sa bene chi, con l’Unità in tasca, andava a sfidare i controllori padronali ai cancelli di fabbrica e chi, la domenica, si sforzava di portarla "in ogni casa" affrontando un muro compatto d’ostilità borghese. Cionondimeno, i contenuti proposti da quel giornale e da quel partito andavano nel senso opposto all’autonomia ed all’antagonismo di classe e i risultati di ciò si raccolgono oggi, quando l’ex-PCI è ormai tranquillamente approdato alle sponde borghesi con uno sforzo (che vedremo in seguito quanto premiato!) di conquista del "centro" e di periferizzazione, per non dire altro, dello scomodo referente proletario d’origine. Col risultato che il proletario non ci si ritrova più, né come classe per sé né come "cittadino parificato" (a parole) con "tutti gli altri cittadini" di Sua Maestà il Capitale.

Il Manifesto aveva esordito sparando fuoco e fiamme allorché la "rivoluzione", magari propiziata da Mao o dai vari potop, sembrava a portata di mano, rivolgendosi, in aperta contestazione col PCI, ad un pubblico di piccolo-borghesi "radicalizzati" e, nell’occasione, persino un Magri poteva atteggiarsi a nostrana "guardia rossa" (capo). Passata la "rivoluzione", è rimasta parte di quel pubblico piccolo-borghese sempre scontento delle cose come vanno, ma, altrettanto perennemente, alla riconrsa di esse "da sinistra": Sino a suonare qualche violoncellata antiberlingueriana ad un Craxi che "sfidava" la DC e offriva a Pintor la speranza di non dover morire democristiano per poi inseguire sempre più le "sinistre reali" sul loro terreno (pur sempre "da sinistra") innamorandosi dei laburisti, di Jospin, di Clinton persino (perché c’è sempre una destra cattiva cui "concretamente" contrapporsi) e, naturalmente dell’Ulivo "antiberlusconiano". Salvo i dolori di pancia e i turamenti di naso, salvo i soprassalti di nausea e "ribellione" in nome di un... riformismo sino in fondo.

Solo che questo "riformismo fino in fondo", in un’epoca in cui il riformismo sta venendo materialemente alla fine, non conduce da nessuna parte: non incide di una virgola sugli orientamenti delle "sinistre reali" al governo o all’opposizione e non offre alcuna alternativa credibile ad esse. Ritorno al proletariato, allora, ed al suo storico programma? I manifestini sono gli ultimi a crederlo, in conformità alla propria natura piccolo-borghese, il cui tasso d’incazzatura, anche quando c’è, vale un fico secco.

L’ultimo arrivato, Liberazione, propostosi come autentico erede delle "gloriose" tradizioni dell’ex-PCI "tradite" dai nuovi dirigenti (siamo alla solita manfrina sui colpi di mano imprescrutabili!), ha dovuto mostrare subito quanto valessero i suoi titoli di credito: nessun ritorno classista di fiamma (perché, nell’epoca dell’agonia del riformismo, da esso non si può sprigionare più alcuna fiamma), ma "desistenza" ad ogni costo "contro la destra" alla coda di un supposto liberalismo temperato. Si potrà ancora tornare a parlare di "opposizione dura e pura", ma pur sempre per "riconquistare" quelle perdute, e irriconquistabili, trincee del passato. E chi potrebbe commuoversi e mobilitarsi per una truffa del genere? I proletari possono anche essere portati, come lo sono stati da questi signori, allo smarrimento della propria coscienza di classe, ma in nessun caso sono tanto stupidi da non distinguere tra la realtà e le chiacchiere e, se proprio vogliono "difendersi", si adattano meglio alla prima: meglio castrati e appagati, per quel che si può, che comunque privi di attributi e affamati.

Sia detto per inciso: se questi giornali dovessero chiudere (ed in particolare Il Manifesto, ancora capace di qualche buona informazione e di qualche borghesemente onesta campagna di stampa) non gioiremmo affatto. Sarebbe pur sempre il segno di un’ulteriore deterioramento dei coefficienti soggettivi di cui la nostra classe dispone, pur nell’abisso. Ma, è quel che vogliamo qui dire, il problema non si risolverà grazie a nessuna operazione di facciata né di questi giornali né della politica che ad essi sottende (ed, anzi, ogni lifting in materia preluderebbe al peggio). Il problema sta nella riconquista di una linea e di un movimento di classe, capace di avere a propria disposizione dei giornali ad essi coerenti, non con vecchi o nuovi "pubblici di lettori", ma con militanti capaci di far sentire la propria voce, di fare del giornale comunista l’organo di battaglia ch’esso dev’essere.

Non c’è bisogno d’altro, ma è l’esatto opposto della deriva lungo la quale l’opportunismo ci ha condotti da settant’anni a questa parte e di cui oggi si raccolgono i frutti, amarissimi anche per chi questo non lo avrebbe mai immaginato e mai l’avrebbe voluto (ma è l’ultima cosa di cui ci possa importare!)

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