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VIA RASELLA, FOSSE ARDEATINE, PORZUS...
ANCORA SUL TEMA: O RESISTENZA, O RIVOLUZIONE.

Periodo di grandi revisioni per la resistenza, non c’è che dire.
Aveva salomonicamente cominciato Violante riconoscendo che partigiani e militi della RSI, in fin dei conti, avevano entrambi combattuto per la Patria, e non è neppure il caso di dire gli uni dalla parte giusta e gli altri da quella sbagliata, ma, più semplicemente, gli uni dalla parte dei vincitori e gli altri da quella degli sconfitti. I primi avrebbero così potuto assicurare alla Patria di entrambi una sorte migliore nell’ambito della democrazia imperialista; i secondi ne avrebbero poi potuto approfittare. Chiusa definitivamente la vicenda bellica e superata la lunga fase di aperto vassallaggio proamericano (con neo-partigiani "rossi" agitanti lo straccio del "socialismo" stalinista e neo-partigiani della Gladio quello della "democrazia" a stelle e strisce, dividendosi di nuovo in vincitori e perdenti, ma tutti in nome della stessa Patria), di nuovo tutti gli onesti patrioti possono ritrovarsi attorno alla stessa mensa borghese: ex-leccaculi di Washington, ex-sciuscià di papà Baffone, ex-camicie nere convertitesi in doppiopetto.

Tutto giusto, a conferma delle sole tesi che non hanno bisogno di revisionismi: le tesi marxiste sul carattere nazional-imperialista dell’insieme di queste contrapposte bande "partigiane". E nulla importa che alle bande "rosse" abbiano offerto il loro sangue generoso fior fiore di proletari nell’illusione che si trattasse della premessa di una vera lotta per la propria emancipazione di classe. Per noi c’è un solo modo per non sputare su quell’autentico sacrificio: quello di far trarre ai proletari di oggi le opportune lezioni per non ricadere un domani in una trappola già esperita e pagata a durissimo prezzo; lotta rivoluzionaria del proletariato contro lotta interclassista borghese a spese del proletariato. Ben venga, dunque, l’attuale "revisionismo", che non revisiona i fatti, ma si limita a confessarne retrospettivamente la sostanza prendendo atto della ritrovata unità nazionale, frutto della resistenza, tra tutti gli esponenti della "nostra" patria borghesia. Un solo escluso dalla mensa, il proletariato, e non a caso.

Già lo sapevamo, e lo dicemmo da allora, proscritti (ed anche assassinati) da tutte le bande, quelle nazi-fasciste come quelle badogliane e, soprattutto, quelle staliniste, che non potevano permettere che un cuneo autenticamente marxista s’inserisse in seno ad un proletariato da essi votato al macello per la causa del patrio capitale.
Queste le nostre non revisionabili tesi, su cui si giocherà la partita decisiva del domani.

Di recente un giudice ha ripescato l’attentato di Via Rasella, assunto a "causa" del successivo massacro delle Fosse Ardeatine. In questo caso, tutti i "revisionisti" in campo si sono schierati contro quel giudice, non perché la resistenza non possa essere processata (come poi vedremo), ma in quanto tutti unanimi contro "il tedesco".

A noi fa ridere che si voglia attribuire in sé ad un’azione armata la "causa" della risposta dieci per uno (e qualcosina in più) della "controparte". Come si dice, à la guerre comme à la guerre. Il problema è per noi un altro (ed esso non commuoverà nessun giudice, questo è certo): un’azione del genere era o no congrua alla causa di classe? Oppure si è trattato di un episodio costruito ad arte proprio per evitare il "pericolo" di classe di una possibile fraternizzazione tra proletari italiani e tedeschi?

Che la fraternizzazione fosse non solo possibile, ma già incominciata lo dimostrano ormai innumerevoli testimonianze (e torniamo, al proposito, a raccomandare la lettura del numero monografico di Comunismo segnalato nel precedente numero del giornale). Così come, in ispecie al Sud, si manifestava, nei settori più coscienti e/o incazzati del proletariato, un’avversione -per noi sacrosanta- rispetto al neo-padrone alleato ed ai suoi servi locali, badogliani e poi ciellenistici; avversione che lo stalinismo in primis si incaricò di spezzare, anche fisicamente, e riconvogliare nell’ordine borghese stabilito. (Di ciò daremo in altra occasione ampia traccia di documentazione e studio).

Pajetta ed Amendola lo dissero apertamente, a nome del partito: nessuna fraternizzazione di classe, men che meno col proletario tedesco, ma stretta collaborazione di classe con gli Alleati e la borghesia "nazionale" (la madre del fascismo, ma questo poco importa perché il suo grembo fecondo può portare anche la democrazia... imperialista; che se non è gemella del primo, poco davvero ci manca).

Oltre i fatti di via Rasella, un altro esempio può ben illustrare il senso complessivo delle operazioni anti-tedesche organizzate dalla Resistenza. Lo traiamo dal Bollettino Interno n° 6 (8 luglio 1944!) della Federazione forlivese del PCI: "Noi comunisti -si legge- dobbiamo riconoscere che fino al momento attuale, per diverse ragioni contingentali, [l’attacco] dei Patriotti (!) Romagnoli si era riversato esclusivamente in linea generale sui fascisti... tale mentalità era pure il concetto della massa popolare, vedendo nel tedesco quasi la persona invulnerabile, e non sentendo uno spiccato odio per esso perché ancora non si era visto scendere praticamente in brutture. Conseguenza di tutto questo, la passività contro il vero responsabile di tutti i mali che stiamo attraversando, mentre l’odio si riversava sul fascista, sul servo".

In poche parole: il "servo", cioè il "nemico interno" (il nemico numero uno, la propria borghesia), è, in fin dei conti, "uno dei nostri", per quanto deviato, mentre l’obiettivo vero dei "patriotti" (dai capintesta della FIAT all’ultimo dei proletari) dev’essere il tedesco, e se questo non è ancora sceso praticamente in brutture, il nostro compito è di obbligarlo a farlo.

L’amnistia per i fascisti del guardasigilli Togliatti (buon antesignano di tutti i Violante d’oggi, anche se i bertinottiani si guardano bene dal parlarne!) fu la pratica traduzione di questo principio "nazionale", borghese: lotta al tedesco, schivando come la peste qualsiasi tentazione di fraternizzazione rivoluzionaria, per assicurare la continuità del sistema e del suo stato. Resistenza antitedesca uguale desistenza nei confronti della borghesia nazionale, e questa è l’insegna di tutti i traditori del comunismo, da allora in poi. Suggeriamo al PRC, per 365 25 aprili all’anno di gridare forte: "Oggi e sempre Desistenza!".

L’attentato di Via Rasella, al pari di quelli con la medesima matrice politica e di classe ciellenistica, non doveva servire, perciò, a colpire militarmente l’esercito nazista -su questo non ci piove per nessuno...-, ma a regolare i conti con le tendenze "attendiste" od "estremiste" (a Roma era pressante il caso di Bandiera Rossa, che contestava -malamente- la linea collaborazionista del PCI da posizioni numericamente assai forti, se non egemoni, e che cominciò ad esser liquidata proprio a partire alle Fosse Ardeatine, cui lasciò il fior fiore dei suoi militanti pescati a colpo sicuro -e non solo per i nazisti- dalla galera di Via Tasso, e dalla piega che ne seguì. Ciò nel mentre gran parte dell’apparato "ex"-fascista si predisponeva a transitare in quello "patriottico", anticipando concretamente nei fatti il "revisionismo" attuale).
Per questo Via Rasella non può essere processata dalla borghesia tricolore attuale, e in questo senso il giudice in questione ha commesso certamente un passo falso.

Ma altri episodi resistenziali sì vanno processati, e sempre in commovente coro unitario da parte del neo-fronte patriottardo.
Si tratta, ad esempio, dell’episodio di Porzus, al confine orientale del Friuli, denunciato come imprescrittibile delitto da parte di ex-fascisti, ex-gladiatori, ex-"comunisti".

Pronto come una sveglia a carica ha cominciato a scriverne l’immancabile Sofri, ormai prossimo alla beatificazione. Ultimamente ne ha parlato l’altro immancabile Pansa, oramai partigiano sparatissimo del compagno Di Pietro. Poi se ne è addirittura fatto un film mélo-grigioverde ad opera di "tutta gente di sinistra" (Pansa dixit) e l’Unità è arrivata di rincalzo ad unirsi al coro.
Partigiani rossi che liquidano altri partigiani, verdi, orrore!

Ma chi erano quei partigiani verdi? Uno storico che pure pare associarsi all’esecrazione per il "nefando delitto", Buvoli, così sintetizza: "Nella Osoppo confluirono ex militari, ex carabinieri, alti ufficiali di orientazione monarchica; il clero ne fu la spina dorsale" (L’Unità, 12 agosto). Si poteva aggiungere: ex fascisti rimasti tali (e gladiatori successivi) che si erano dati il compito di contrastare il "pericolo slavo" risorgente dalle ceneri della sacrosanta oppressione fascista, che non disdegnavano tra l’altro di trattare con i fascisti rimasti tali anche di nome e le stesse SS coerentemente alla linea di nuova unità nazionale esplicitamente promossa ai confini orientali, ed anche oltre, dagli stessi repubblichini e nazisti più avveduti in funzione "anticomunista". Ed ancora: azionisti friulani che, come quelli di Trieste, erano certo avversi all’aspetto dittatoriale aperto del fascismo, ma erano ancor più preoccupati del pericolo "slavo-comunista", tanto da considerare ammissibile, contro di esso, un qualsiasi tipo di "fronte nazionale". Ben poteva benedire una simile compagnia un vescovo come Don Nogara, fresco di lodi sperticate al Duce e ad Hitler, che mai dismise le sue simpatie per il fascismo, la cui copertura della "resistenza" osovana ben s’inscrive in questo quadro politico. Il 17 aprile del ‘45, tanto per dire, costui assicurava il comandante delle SS: "Potete essere sicuro, ed io Ve ne sono garante, che il Clero non ha mai fatto, né potrà mai fare alleanza con i comunisti", ed il 13 maggio salutava il nuovo padrone, il Comando Missioni Interalleate, con le seguenti parole: "Mercé il Vostro prezioso intervento... speriamo di vedere allontanato il pericolo che minaccia dall’Oriente". Lo stesso Pasolini (il cui fratello Ermes cadde a Porzus) poté francamente scrivere, prima della sua conversione al "comunismo", della vera funzione antislava ed anti-comunista" dell’Osoppo portandola a suo precipuo, se non esclusivo, merito.

Gli ex-"comunisti" attuali non s’impressionano di tanto poco. E’ con questa gente, e per questi sacrosanti obiettivi "comuni", che il fronte resistenziale andava fatto e non doveva essere turbato da "delitti" del genere. Perciò, con un tantino di eccesso "revisionistico" ex-post, si scopre che di Porzus il PCI non porta alcuna responsabilità e tutte le colpe vengono fatte ricadere sul capo partigiano Giacca e qualche, eventuale, responsabile maldestro della federazione, ma soprattutto sui "veri mandanti". E di chi si tratta se non dei soliti "imperialisti" slavi? (1)

Ora, se è incontestabile che i partigiani di Tito erano tutt’altro che dei marxisti internazionalisti, è perlomeno assodato che dalla loro parte stavano tutte le ragioni di un riscatto "rivoluzionario" (alla maniera borghese) dall’oppressione nazionale e sociale cui l’Italia fascista, ed ora persino certa resistenza parafascista, li voleva inchiodare e che tra essi era in qualche modo, pur confuso e strumentalizzato, vivo un istinto di riscatto di classe a (sbiadito sin che si vuole) carattere rivoluzionario e persino (confusamente) internazionalista. Per questi partigiani -e tra essi i più determinati tra i proletari italiani- era già insopportabile il collaborazionismo picista ufficiale, giammai scrostatosi delle tinte vecchia memoria del nazionalismo tricolore; figuriamoci come potesse esser preso l’affronto aperto della cosidetta resistenza osovana!

L’ottantacinquenne Giacca -il "responsabile" di Porzus, oggi vivente a Capodistria (dove è stato, tra l’altro raggiunto, da una comunicazione giudiziaria per "genocidio" dell’impareggiabile Pittitto, che si è inventato un suo coinvolgimento nell’affare-foibe),- ha il coraggio, di cui gli rendiamo onore, di ripetere: "Non ho rimorsi per quello che è accaduto" (e, in un’intervista al Panorama di Fiume, persino: "Lo rifarei"). E, a tanti anni di distanza, in maniera degnissima anche se poco credibile, accetta di assumersi sulle sue sole spalle la "responsabilità" dell’accaduto, scagionando chiunque altro dei veri capi, italiani o slavi che fossero, in perfetto stile comunista.

Quello che neppure lui può esprimere, e non saremo tanto ingenui da chiederglielo, non è tanto la verità-vera dell’episodio, ma il bilancio dell’intera vicenda partigiana, il bilancio catastrofico del titoismo e quello assai peggiore del togliattismo, il bilancio dello stalinismo che stava a monte di entrambi. La sua concezione è: "Si è fatto quel che si è potuto ed almeno su questo non sputiamo da rinnegati". Una posizione individualmente degna, ma che non fa i conti proprio con quel che di diverso ed opposto si sarebbe dovuto fare per non veder cadere nel fango la bandiera del comunismo. Antirevisionismo a metà, ma pur sempre da uomo che sa stare in piedi, e qualche diversa lezione se ne potrà ben trarre a queste condizioni.

Non è dunque da quel che ha fatto Giacca, esecutore di "responsabilità" più grandi di lui, che ci viene indicata la strada -sia ben chiaro!-, ma è certo che di uomini come lui un partito comunista agente avrà sempre bisogno, perché questi sono gli uomini disposti a mettersi in riga per compiere il loro dovere di classe riconoscendosi in esso. Non Giacca ha mancato, ma è quel partito ad essere mancato; è quel partito che non dovrà mancare domani a dirigere il tiro dei mille nuovi Giacca.
E, lo ripetiamo: contro ogni resistenzialismo interclassista borghese, come, a diversi gradi e con diverse coloriture sociali e politiche, furono tutti i resistenzialismi di allora, da quello italiano di cui stiamo vivendo oggi gli ultimi (si spera) miasmi polo-ulivisti a quello jugoslavo il cui frutto amaro è stata la disintegrazione dello stesso enorme risultato titoista di partenza.
Ancora una volta: o resistenza o rivoluzione.

Il tipo-Osoppo

Volete avere un’idea del tipo di partigiano arruolatosi nell’Osoppo? Leggete allora questa "confessione" scarsamente diplomatica contenuta nel numero del 31 maggio ‘45 del Fronte della Gioventù di Udine:

"Il fascista che al 1° maggio s’è messo un fazzoletto al collo è una figura che non merita più considerazioni di quante in proposito sono già state fatte. C’è però un tipo diverso di fascista, che è riuscito a penetrare tra le file dei partigiani e che in quelle file ha fatto del suo meglio per far dimenticare il passato ed acquisire dei meriti per l’avvenire. Così hanno fatto, più o meno, tutti i fascisti "intelligenti"; quelli cioè che avevano capito che la barca del fascismo faceva ormai acqua da tutte le parti e li avrebbe condotti fatalmente alla morte. Non rimaneva quindi, dopo il 25 luglio e soprattutto dopo l’8 settembre, che un’alternativa: buttarsi dall’altra parte, opportunisticamente, con schietto stile fascista. Noi abbiamo accolto questa gente (!), perché respingerla avrebbe significato aumentare il numero abbastanza grande dei nostri nemici".
Il ritratto del tipo-Osoppo è inequivoco, così come quello del proprio opportunismo, in stile schiettamente "antifascista" nazional-borghese.

(1) Il Delo di Ljubljana è giustamente insorto contro la manovra cinematografara su Porzus accusandola di costituire un insulto ed un’aggressione contro la popolazione slovena, anche questo in perfetta linea di continuità con i sistemi del fascismo. E’ solo curioso che per giustificare questo sacrosanto atto d’accusa si ricorra alla "difesa della resistenza titoista" rivendicandone la valenza esclusivamente nazionalistica e ben guardandosi dal rivendicarne invece gli aspetti (tanto allora vantati!) di classe. Qui lo slavo, là l’italiano: una specie di "Osoppo" lubianese assai graveolente! E non è un caso che persino un Tudjman rivendichi talora gli aspetti positivi della resistenza jugoslava in quanto baluardo di croaticità (assieme a quello ustascia!) quando si tratta di rispondere al neorevanscismo imperialista di qui. Che quest’ultimo sia un fatto reale è fuori di dubbio, ma lo è altrettanto che nessuna reale risposta ad esso può venire dalla riproposizione peggiorativa, ed a puro carattere propagandistico, dei "valori nazionali" della resistenza jugoslava, bensì lo può essere un reale internazionalismo proletario capace di risolvere i problemi che lo stalinismo storico (in tutte le sue versioni) ha lasciato aperti ed ha fatto incrancrenire, sino agli esiti attuali, in Italia come (e più) in Jugoslavia.

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