[che fare 45]  [fine pagina] 

USA

LA CRISI SOCIALE NON RISPARMIA IL CUORE DELL’IMPERO

Indice

 

Dal cuore dell’imperialismo, là dove al livello massimo della mondializzazione del capitale ha corrisposto storicamente il punto più basso del movimento operaio, vengono segnali di attivizzazione proletaria. Con quali conseguenze oggi, lo dimostrano gli scarni dati che riportiamo. Sono segnali preziosi che contengono anche un insegnamento per il proletariato europeo. Ripartendo necessariamente da questo punto-zero, il proletariato si trova però da subito ad affrontare i nodi centrali dello scontro: organizzazione, unità, battaglia aperta col nemico di classe. Questioni cui il piano immediato-sindacale non può dare soluzioni, e che richiamano la necessità della ripresa dell’autonomia politica di classe.

 [indice]  [inizio pagina] [next]  [fine pagina]

"Organize!"

Il 10 dicembre scorso ha avuto luogo in oltre 50 città nordamericane una giornata nazionale di mobilitazione contro i tagli al welfare e contro l’obbligo a un lavoro precario e sottopagato in cambio del mantenimento dei sussidi (il cosiddetto workfare). Presenti in piazza unitariamente i lavoratori "assistiti" e i sindacati di diversi settori (soprattutto servizi e pubblico impiego). L’iniziativa -la prima di respiro nazionale- pur non avendo raccolto grandi numeri, è indicativa non solo dell’incipiente attivizzazione di settori di precariato, ma anche della spinta esistente nel sindacato americano a organizzare questi lavoratori per evitare la concorrenza spietata al ribasso con i "regolari". E’ un esempio: il processo resta lento (rispetto a quanto necessiterebbe) e non privo di contraddizioni (la sindacalizzazione di precari, irregolari, part-time, immigrati, ecc. urta contro le resistenze corporative ancora forti nelle direzioni sindacali e tra gli stessi lavoratori "regolari", tanto più se bianchi). Ma è altresì sentito come un’esigenza ineludibile. Sentiamo il perchè dalle parole di Sweeney, segretario dell’Afl-Cio al Congresso della Federazione Internazionale dei Sindacati Metalmeccanici, S. Francisco, 26/5/97 (grassetti n.): "Negli ultimi 20 anni le iscrizioni al sindacato nel nostro paese sono passate dal 27% della forza-lavoro al 15% circa... La verità è che quando hanno dovuto affrontare una cultura in mutamento così come un’economia globale i sindacati americani sono crollati... Abbiamo smesso di organizzare... mentre i lavoratori subivano un attacco mai visto, i sindacati americani si sono addormentati e quando ci siamo svegliati la campana stava suonando: avevamo perso potere... Smantellare il sindacato è diventato lo sport preferito delle aziende... Nel più avanzato dei paesi industriali si perde ogni diritto non appena si prova a organizzarsi in una qualche forma di sindacato... se ti riunisci sei licenziato... se parli chiaro e tondo sei licenziato". (V. anche i grafici).

Da questa situazione (descritta con toni schietti ed efficaci, in disuso presso i nostri sindacalisti di "sinistra", e pazienza se ci si scambia per "sweeniani") consegue la spinta alle campagne di sindacalizzazione che si sono susseguite negli ultimi due anni. Dalla Union Summer che ha coinvolto 1500 studenti e giovani lavoratori come organizzatori nel reclutamento di nuovi iscritti, alla campagna per 20mila raccoglitori dei campi californiani (per lo più immigrati, con orari giornalieri di 10-12 ore e paghe orarie di sei dollari), al piano di sindacalizzazione di 30mila lavoratori statali nello stato del Maryland, di 16mila insegnanti e assistenti delle scuole di Dallas, di 70mila paramedici di Los Angeles, dei 110mila lavoratori del corriere Federal Express. E ancora: l’unificazione degli edili, dei lavoratori della metropolitana e dei servizi a Las Vegas; la sindacalizzazione dei 10mila metalmeccanici della Continental Airlines; la campagna cittadina dei lavoratori dell’auto e dei siderurgici di St. Louis; il progetto "Working Women Organize" per inserire le donne nel movimento sindacale.

La recente lotta alla Ups (v. Che Fare 44) ha dimostrato che questa "svolta" del sindacato non nasce dal nulla, né è un mero teatrino delle parti tra burocrazie sindacali e padronato (o stato: all’indomani dello sciopero la magistratura ha non solo decapitato la direzione dei teamsters, il sindacato che ha diretto lo sciopero, ma ha aperto delle inchieste sul vicesegretario dell’Afl-Cio e sui segretari del sindacato del Pubblico impiego e di quello dei Servizi).

Essa si incontra piuttosto con una necessità e una spinta reali di settori di lavoratori che si rimettono in moto. Certo, a esse non potrà essere data consequenzialità dalle direzioni sindacali (attuali e future, quand’anche più "dure") in quanto tutte legate a una prospettiva compatibilista con il quadro capitalistico. Ma intanto non è affatto male che si dia ai lavoratori l’input "organizzarsi!" per difendersi da un "modello americano" (dal sindacato sempre osannato) divenuto oggi una "formula per il disastro sociale ed economico" (così Sweeney).

Né è un male che prosegua il tentativo, all’interno del movimento sindacale e tra le avanguardie di lotta, di dar corpo a una proiezione politica "indipendente", intesa non esclusivamente come ritiro della delega della rappresentanza elettorale al Partito Democratico, bensì anche come esigenza sentita di affrontare l’attacco ai lavoratori su un piano più complessivo, su un terreno generale: la costituzione del Labor Party ne è stata un primo riscontro (non l’unico, lo documenteremo prossimamente). E non preventivamente ristretto all’ambito nazionale se è vero che subito dopo il varo del pacchetto di "aiuti" del Fmi alla Corea, volto a far piazza pulita di ogni garanzia per i lavoratori di quel paese, si siano levati voci dal movimento sindacale Usa in solidarietà con quello coreano (con cui già si sono intrecciati rapporti durante la lotta di un anno fa).

 [indice]  [inizio pagina] [next] [back]   [fine pagina]

Uniti o sconfitti

Va approfondendosi, intanto, la guerra che stato e borghesia Usa hanno scatenato contro il proletariato immigrato. Che ha iniziato a sperimentare, tra l’altro, le delizie della legislazione anti-immigrati varata da Clinton a suggello del suo primo mandato (e credenziale della missione di fine millennio di Sua Maestà Democratica). Fiore all’occhiello ne sono la "riforma" del welfare (v. scheda) che sta colpendo milioni di immigrati, "legali" e "illegali", (e non solo) e il giro di vite su tutta una serie di leggi di polizia ("anti-terrorismo", of course) per il controllo, l’arresto, l’espulsione degli immigrati (e contro ogni minaccia alla "sicurezza nazionale") che si accompagna alla militarizzazione permanente delle frontiere.

Una politica di vero e proprio terrorismo finalizzata a prevenire, bloccare, piegare le azioni di resistenza e l’organizzazione sindacale dei lavoratori neri, latinos e, in misura crescente, asiatici; ad approfondire le divisioni (tra razze, tra "legali" e "illegali", tra vecchia e recente immigrazione); ad allargare il fossato con il proletariato bianco, non a caso nel mentre anche questo settore vede vacillare i suoi "privilegi".

Sul fronte della risposta che in questi ultimi tempi non è certo mancata (dalla riorganizzazione del proletariato nero a quella degli ispanici, ecc.) si intravede un elemento "nuovo" che, per quanto ancora necessariamente fragile e limitato, dà il senso della direzione di marcia intrapresa, dietro la spinta dei fatti oggettivi, da questo settore del proletariato americano.

Si tratta della consapevolezza -che tra mille difficoltà si sta facendo strada- della necessità di contrapporre ai micidiali colpi in arrivo la resistenza unitaria dei diversi settori di proletariato di colore. E’ lo stesso attacco capitalistico (da ultimo con lo smantellamento dei residui di welfare che va a toccare tutti i coulored, al di là della razza e dello status) a richiamare tale necessità. Lo dimostrano (usiamo dati scarsi e frammentari, ma sono gli unici a nostra disposizione) le mobilitazioni della scorsa primavera-estate organizzate in diversi stati a difesa dei diritti degli immigrati contro le misure repressive e i tagli ai servizi. In alcune manifestazioni -che, pur non massicce, hanno mostrato un tono militante- hanno marciato insieme latinos, asiatici (coreani, cinesi, laotiani, vietnamiti) e neri. Eloquente il commento di un organizzatore: "Asiatici e latinos hanno già marciato in precedenza per i diritti degli immigrati, ma separatamente. E’ grandioso vedere ora così tanta unità".

Merita riportare un episodio verificatosi nella manifestazione di Sacramento (California) lo scorso maggio: gli immigrati del Sud Est asiatico -presenti con cartelli che ricordavano l’aiuto mal ricambiato, fornito agli Stati Uniti nella guerra contro il Vietnam- dopo una prima reazione di sconcerto da parte degli altri manifestanti sono stati integrati nella marcia perchè, oggi, dalla stessa parte della barricata contro il "governo della Cia". Questa presenza ha altresì reso evidente alla piazza le responsabilità della politica imperialista americana nella manomissione di paesi dai quali provengono le ondate di immigrazione.

Altro dato significativo e generale di queste mobilitazioni: la forte presenza dei sindacati a conferma della rinnovata attitudine verso l’organizzazione di immigrati e settori precari.

Da questa attivizzazione può e deve emergere, nelle avanguardie e nei militanti di colore, la coscienza di dover lavorare al superamento delle divisioni esistenti, quelle oggettive dovute alle differenze di razza, storia, religione, lingua, ecc. così come quelle fomentate ad arte dalla borghesia. Divisioni che, in seppur diverse condizioni oggettive, hanno rappresentato nel passato elementi di attrito e di contrapposizione, ad esempio tra neri e latinos: accusati questi di "portar via il lavoro" agli afro-americani, che da parte loro non sempre si sono sottratti alle campagne anti-immigrati dei padroni bianchi (la Preposition 187 in California, apparentemente contro i soli "illegali", i chicanos, è stata votata da molti neri; solo recentemente la Naacp, associazione peraltro assai moderata della popolazione nera, ha ritirato il suo appoggio alle misure legislative contro l’assunzione di lavoratori "senza documenti", ecc.); o da parte di entrambi nei confronti degli asiatici.

L’attivizzazione delle diverse comunità a difesa di condizioni che, bersagliate dall’avversario di classe, si fanno sempre più simili -questo dimostrano i fatti- non potrà più a lungo evitare di affrontare questo nodo, con tutte le conseguenze del caso.

 [indice]  [inizio pagina] [next] [back]   [fine pagina]

Qualche dato su salari, redditi, occupazione

I tagli all’assistenza non sono forse limitati a una fascia marginale di popolazione "povera" esclusa dai circuiti lavorativi, mentre la disoccupazione è scesa ai livelli più bassi dagli inizi degli anni ’70? Non è così. La "novità" che si annuncia dagli Usa è proprio il sempre più frequente legame tra l’avere un lavoro e il collocarsi comunque, per reddito, al di sotto del livello di povertà. Qualche dato: nel medesimo periodo in cui si è accresciuto il numero dei "poveri" da 24 milioni di fine anni ’70 a più di 40 a metà anni ’90 (e non solo più tra i neri e gli ispanici: la quota dei poveri sul totale è salita a più del 15% per i bianchi, con un incremento di 10 milioni dal ’78), sono scomparsi 43 milioni di posti di lavoro da un lato, ne sono stati creati circa 70 dall’altro con salari più bassi (anche del 20%), contratti più precari, orari più flessibili, in una prospettiva di sempre maggiore incertezza per il posto di lavoro.La ristrutturazione è diventata un’esperienza ricorrente (oggi il 49% delle imprese ha un nucleo permanente di dipendenti temporanei, contro il 36% di dieci anni fa: l’agenzia privata di collocamento Manpower, che sta sbarcando anche da noi, è diventata il primo datore di lavoro in termini assoluti!), anche per i colletti bianchi. E se ancora negli anni ’80 -come riportato dal rapporto "The state of working America, 1996-97" dell’ Economic Policy Institute- i salari del lavoratore medio sono discesi, ma non il reddito delle famiglie per l’aumento dell’occupazione femminile e l’allungamento degli orari; negli anni ’90 sono calati sia i salari (per l’80% degli uomini e i tre quinti delle donne, contro un quinto nel decennio precedente) sia i redditi medi. Senza contare la riduzione continua dei benefits legati al posto di lavoro (pensioni, assistenza sanitaria: per quest’ultima l’Economist di dicembre calcola in 52 milioni gli adulti senza assicurazione, per tre quarti lavoratori!).
Ecco il risultato di vent’anni di profondo attacco antioperaio e antisindacale. Ne esce malconcia anche l’immagine di middle-class society: il filopadronale Business Week (1/9/97) ammette che di azioni e titoli "il 71% delle famiglie non ne ha affatto o non supera i 2mila dollari. Perciò il succulento mercato azionario ingrossa solo i portafogli del quarto superiore delle famiglie, che possiede l’82% del totale". E già qualcuno (l’ex-ministro del lavoro usa R. Reich) vede materializzarsi "il pericolo che emarginati e disoccupati d’Europa e di America si uniscano e diano vita a una grande stagione di scontento... e diventi possibile una reazione fisica, non più solo nei convegni" (alla Bertinotti, per intenderci...).

 [indice]  [inizio pagina]  [back]  [fine pagina]

Clinton taglia il welfare

Con la legge dell’agosto ’96 ipocritamente denominata di "Responsabilità personale e opportunità di lavoro" l’amministrazione Clinton ha dato un drastico giro all’assistenza alle famiglie con reddito insufficiente, invalidi, anziani poveri: da un lato con il taglio a tutta una serie di sussidi (buoni pasto, assegno integrativo per gli immigrati "legali" ma privi di cittadinanza, ecc.), dall’altro ponendo degli sbarramenti alla loro erogazione (e limitandoli a un massimo di cinque anni nell’arco della vita).

Due sono i meccanismi utilizzati. Primo: abolito il fondo federale, saranno i singoli stati a gestire i sussidi con criteri che possono essere differenti, ma vincolati alla riduzione delle liste degli assistiti (del 50% in sei anni, pena la riduzione del 20% dei finanziamenti). E’ così aperta di fatto la concorrenza tra stati per l’abbattimento delle erogazioni! Secondo: è stabilito l’obbligo generale al lavoro (il famigerato workfare) in cambio dei sussidi sia per famiglie con entrambi i genitori sia per quelle con madri sole (il 30% del totale, il 68% tra i neri!).

Conseguenza immediata di questa azione combinata: un milione e 300mila iscritti in meno nel solo ’96, la maggior parte "scomparsi", il resto impiegati in lavori pubblici ("volontariato" a costo zero e sostitutivo di lavoro con paga e condizioni contrattuali) e sempre più anche nei servizi privati (antesignana la catena Pizza Hut, chissà se Gorby è al corrente!), in quel settore in via di espansione che coinvolge quasi 40 milioni di americani con paghe a ridosso del minimo e senza assistenza medica. Due piccioni con una fava: tagli drastici (via decentramento della spesa, nel più puro stile federalista) e concorrenza tra lavoratori! Clienti o meno dello straccio di welfare residuato, sono questi il vero obiettivo della "riforma" "anti-assistenzialista" a tinte progressiste.

"Ben tredici milioni di bambini negli Usa, uno ogni quattro al di sotto dei dodici anni, vanno a letto ogni notte a stomaco vuoto. Un sesto di bimbi americani nasce in povertà, una proporzione ben più alta di qualsiasi altra nazione industrializzata. Più di quattro milioni di bambini - "legali" e "illegali"- sono ingaggiati ogni anno in barba alle disposizioni federali sul lavoro minorile. Ogni cinque giorni un bambino viene ucciso sul lavoro: stritolato da un trattore, bruciato da una fornace, fatto a pezzi da una sega elettrica. 200mila infortuni sul lavoro all’anno, un terzo dei quali causa di menomazioni fisiche permanenti." (Corriere della Sera del 17 dicembre).

[che fare 45]  [inizio pagina]