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IL LATTE E’ TROPPO?
SI’, PER UN MERCATO AFFAMATO DI... PROFITTI!

Indice

L’agricoltura in Italia
Il regime delle quote non impedisce la centralizzazione
Freemen
La lotta dei produttori di latte rimanda prepontemente alla contraddizione principale del sistema di produzione capitalistico: l’urto violento delle forze produttive con il sistema dell’appropriazione privata. La scesa in lotta di un settore così refrattario allo scontro, quale quello dei contadini, segnala il livello di acutezza cui quell’urto si approssima.

Ai vari compagni che ci hanno invitato a riprendere l’analisi sul "corso della crisi", rispondiamo che siamo impegnati a farlo, lo facciamo già da questo numero esaminando la crisi del sud-est asiatico e la lotta degli allevatori, e lo faremo ancor meglio con la prossima pubblicazione di una rivista teorica. Ma, intanto, vorremmo richiamare la loro attenzione sul fatto che la lotta degli allevatori fornisce elementi per comprendere quel "corso" meglio, forse, di qualunque approfondito studio "economico". Il corso del capitalismo, e della sua crisi, non è un fatto puramente economico, da comprendere applicandovi più o meno correttamente le appropriate formule marxiste, ma è lo svolgimento di un dramma sociale, che coinvolge intere classi, interi paesi e continenti, determinando le reazioni di lotta che si traducono in politica, ideologia, cultura, costume, organizzazione.

I due campi -politico ed economico- sono inscindibili tanto per "comprendere", quanto, e ancor più, per agire. Viceversa, non rimane che confinarsi in uno studio (per lo più, inevitabilmente solo presunto) dell’economia, finalizzato a precisare quali condizioni debbano preventivamente realizzarsi prima che la rivoluzione possa venire, non vedendo, magari, come essa, sotto il proprio naso, stia già avvenendo, o abbia cominciato ad annunciarsi.

Nell’inverno scorso le prime avvisaglie: gli allevatori scesero in lotta contro il pagamento delle multe imposte dall’Unione Europea per il mancato rispetto delle quote di produzione del latte assegnate all’Italia. Negavano di avere alcuna responsabilità nello sforamento e ben a ragione, dato che la gestione era stata sempre nelle mani dello stato e degli organi sindacali e para-sindacali a esso legati. Per anni agli allevatori s’era detto di non preoccuparsi e di produrre liberamente, ora si impatta nella decisione dell’UE di applicare rigidamente il meccanismo delle quote, con quel che ne consegue: multe ai produttori. Mentre ai produttori si diceva di non preoccuparsi, si avviava un mercato di "quote di carta" assegnate nei soliti modi clientelari persino a produttori senza mucche. Del traffico hanno approfittato i "soliti noti" e le stesse grandi aziende trasformatrici, le quali importavano latte a prezzi inferiori (o latte in polvere) dichiarandolo italiano. Il governo fu costretto dalla lotta degli allevatori a costituire una commissione d’indagine, i cui lavori hanno confermato, in buona sostanza, le ragioni degli allevatori, e cioè che è assolutamente impossibile addebitare loro lo sforamento.

Nonostante ciò, il governo riconfermò la volontà di dare un segnale forte imponendo il pagamento, seppur ridotto, delle multe con procedura dispotica: le aziende che ritirano il latte trattenevano le somme dovute fino a concorrenza delle multe. Per molte aziende le multe comportano la vera e propria morte. Per sopravvivere su un mercato sempre più feroce hanno dovuto ingrandire le dimensioni e modernizzare il processo produttivo, addossandosi pesanti indebitamenti con le banche, ipotecando, nella sostanza, la produzione futura, spesso per molti anni a venire. Le multe e le restrizioni produttive non eroderebbero solo i loro margini di profitto (che già in agricoltura sono bassissimi) ma le metterebbero in condizione di non poter neanche ripagare il capitale preso in prestito.

Perciò i produttori hanno ripreso la lotta nel recente autunno, dispiegando una capacità di mobilitazione e una determinazione superiori alla tornata precedente, centrando le rivendicazioni su: restituzione totale delle multe,approfondimento dell’indagine sul passato per individuare e punire i veri responsabili, certezza del quadro produttivo futuro.

La protesta degli allevatori e le contemporanee proteste dei produttori di olio, fiori, vino, barbabietole, segnalano come l’intera agricoltura nazionale si trovi sull’orlo di una crisi generale che assume aspetti particolarmente esplosivi, perchè in Italia, a differenza che nei paesi partner-concorrenti europei, si sono accumulati enormi ritardi nell’adeguare il settore ai livelli di produttività richiesti dal crescere della competizione sui mercati.

Ora si tratta di pagare il conto d’un sol botto, e che conto! E lo si vorrebbe, naturalmente, far ricadere su chi realmente produce, coprendo chi ci sguazza sopra parassitariamente: stato e suoi apparati, organizzazioni associative agricole, grande capitale industriale e finanziario.

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Produrre è una colpa

Non a caso il motivo di fondo della protesta degli allevatori sta proprio qui, nell’orgogliosa affermazione di essere dei produttori veri, penalizzati proprio per questo loro merito.

La loro affermazione rimanda esplicitamente a un interrogativo di fondo: ma davvero c’è troppo latte, troppi agrumi, troppo olio, ecc.?, Davvero si produce troppo e si deve per questo essere puniti?

E’ notorio che parti crescenti dell’umanità vivente devono fare i conti con la fame o con la malnutrizione. Sulla base di quale criterio, allora, si dice che si produce troppo? Non certo sulla base del criterio dei bisogni dell’umanità, evidentemente. Si produce troppo rispetto al mercato. Ma cos’è il mercato? I milioni di uomini malnutriti non ne fanno parte? No, non possono farne parte perchè gli manca il denaro sufficiente ad acquistare i prodotti alimentari di cui necessitano. Non basta il bisogno per accedere al mercato, ci vuole qualcosa da scambiare, qualcosa che loro non avranno mai perchè le risorse naturali o minerali dei territori che abitano sono sistematicamente saccheggiate dal grande capitale e la loro stessa forza-lavoro viene ripagata con salari di fame, su cui, per di più, gravano le ipoteche dei prestiti delle banche e delle istituzioni finanziarie occidentali.

Questo squilibrio non è il frutto di politiche cieche o distorte dei paesi sviluppati, corregibili, magari, con un’iniezione di "vera" democrazia nelle politiche estere dei vari paesi e delle istituzioni multinazionali come l’Onu, Fmi, ecc. Esso è il frutto dello "sviluppo combinato e diseguale" che è condizione essenziale all’esistenza stessa del capitalismo, che può sostenersi solo a condizione di depredare materie prime a basso costo e schiavizzare intere porzioni d’umanità.

L’eccedenza, dunque, non si misura sulla base della soddisfazione del bisogno, ma del grado di assorbimento solvibile del mercato. Di più, lo stesso grado di assorbimento si misura sulla base dei tassi di profitto realizzato. I mercati solvibili potrebbero, per esempio, assorbire, in teoria, anche più latte di quello attualmente prodotto, ma l’aumento di produzione farebbe scendere i prezzi e, con essi, i profitti. Perciò, stati e organismi internazionali fissano e fanno rispettare delle quote di produzione, evitando le "eccedenze" o, addirittura, sovvenzionandone la distruzione, e punendo i "colpevoli". Mettono, insomma, in atto delle politiche di difesa dei profitti, che favoriscono, innanzitutto, chi si appropria della gran parte dei profitti: l’industria alimentare, la commercializzazione, e, in ultima e più corposa quota, il capitale finanziario. Quanto resta al produttore, soprattutto se piccolo, corrisponde -se va bene- a quel che è sufficiente alla propria sopravvivenza e a quella dell’azienda (il produttore italiano percepisce lit. 700/800 per ogni litro di latte, al dettaglio il prodotto meno lavorato dall’industria, il latte fresco, viene venduto a più di lit. 2.000 al litro).

Se, dunque, si produce troppo è per queste regole, le regole di mercato, le regole del sistema capitalistico di produzione, che non hanno nulla di naturale e umano, e che, anzi, iniziano a rivelare in modo sempre più visibile tutta la loro innaturalezza e disumanità. Non solo in campo agricolo, ma in ogni campo della produzione: in quale settore produttivo non esiste, infatti, la stessa sovrapproduzione?

Non il problema dei produttori italiani di latte, non il problema dell’agricoltura italiana, né quello dell’agricoltura mondiale, ma il problema dell’intero capitalismo, che ha sviluppato le sue forze produttive a un punto tale che entrano in contraddizione con il sistema di appropriazione privata. Per mantenersi in vita, il sistema del profitto deve distruggere o svalorizzare una parte delle sue stesse forze produttive, facendo pagare i prezzi più duri proprio a chi produce, all’intera classe operaia, a paesi e continenti impegnati in un duro sforzo di crescita produttiva (come la crisi del sud-est asiatico dimostra) e anche a quelle sue sotto-classi di piccoli capitalisti che avevano, fin qui, creduto di potersi scavare delle nicchie di benessere nelle maglie del sistema, e che rischiano di essere, oggi, ridotti alla condizione di semplici proletari.

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Proletariato e produttori autonomi

In questo quadro si colloca la protesta dei produttori di latte, la radicalità e la decisione con cui viene sostenuta da migliaia di loro. Risulta in primo luogo straordinaria la capacità degli allevatori di darsi "improvvisamente" un’organizzazione compatta, centralizzata nazionalmente (pur se il suo cuore pulsa essenzialmente al Nord) e capace di adottare forme radicali di lotta. L’oscuramento dei mass-media e le varie forme di ricatto, anche in agrodolce, del potere centrale non solo non hanno impedito che ciò si verificasse, ma, anzi, ne hanno meglio predisposta l’esplosione. Si tenga conto, in modo particolare, che si tratta di contadini, la "categoria" tradizionalmente più refrattaria a socializzare i propri interessi e alla lotta comune; quella categoria conosciuta come passiva massa di manovra della DC e del clero, sempre canagliescamente disponibile all’uso, e che oggi affronta a viso aperto la lotta, la repressione poliziesca e si stupisce che quello stato, che ha sempre riverito e servito, li tratti, oggi, alla stregua di banditi, di delinquenti, manganellandoli, sequestrandogli i trattori, denunciandoli, prendendo le impronte digitali, e così via.

Questo fatto dimostra sino a qual punto le contraddizioni capitalistiche stiano cominciando a mordere in profondità. Perchè, anche se gli allevatori "non lo sanno" o sono ben lungi dal prenderne espressamente coscienza, proprio di questo si tratta. E qualunque mediazione possa chiudere l’attuale vertenza avrà, gioco forza, un valore del tutto momentaneo, essendo i problemi del latte, dell’agricoltura, dell’intero sistema destinati a incancrenirsi sempre di più.

Con le loro azioni di lotta questi strati vorrebbero difendere un passato che si dilegua, vorrebbero preservare quel piccolo capitale accumulato con tanta fatica personale e dei propri familiari. Ma le forze dei mercati, esercitate tramite la concorrenza, le banche, gli stati (anche quelli governati dalla "sinistra"), le grandi istituzioni mondiali del capitalismo, gli sottraggono ogni briciola del loro capitale e li costringono a un autosfruttamento che cresce senza sosta.

Il nemico vero che essi hanno di fronte è, senza paradossi, il capitalismo. Lo stesso identico nemico che ha dinanzi il proletariato. La più logica delle conseguenze vorrebbe che le forze si unifichino contro il comune nemico. Il proletariato stesso avrebbe tutto l’interesse a farlo nella sua prospettiva di abbattere il capitalismo, purchè alle sue condizioni: raccogliere le loro ragioni di produttori in una lotta a fondo al sistema di produzione capitalista, per sopprimere lo scambio e il mezzo di scambio-denaro, per confinare nel passato il capitalismo e le sue contraddizioni e lasciare sviluppare una società in cui alla produzione sia restituito il suo ruolo centrale nel rapporto tra gli uomini e tra essi e la natura, una produzione che sia regolata unicamente dai bisogni dell’umanità, di tutta l’umanità e non solo di quella "solvibile".

Per stabilire un legame con tali semi-classi in funzione di quella prospettiva, il proletariato dovrebbe, già oggi, schierarsi a loro difesa, dalla repressione statale e dall’aggressione economica e finanziaria da parte dello stato e del grande capitale. Non per difendere i piccoli capitalisti in quanto capitalisti, per conservargli, cioè, il loro capitale. Per far questo il proletariato dovrebbe accettare di pagare le merci a quei prezzi elevati di cui il piccolo produttore ha bisogno per resistere sul mercato. Per tutti i salariati (dipendenti o a partita Iva) sarebbe un bel salasso. Ma al fine di dare forza alla loro lotta contro il grande capitale prospettando l’unica soluzione davvero risolutiva, radicale: distruggere l’intero sistema capitalista.

A una tale politica manca, oggi, la condizione fondamentale, quella di un movimento operaio attestato su posizioni politiche e organizzative di difesa di classe, che abbia già ingaggiato, per sé stesso, una battaglia decisa contro il capitalismo, che sia in grado, perciò, di proporre una via d’uscita rivoluzionaria alla realtà capitalistica presente.

L’assenza di tale condizione (o la lunga distanza da essa) non esclude, però, che i comunisti debbano prendere atto e valorizzare, per lo meno con gli strumenti della propaganda, essendo impossibile una vera agitazione in mancanza di settori proletari in lotta e organizzati, questa tematica che ci riguarda direttamente, indipendentemente dalla collocazione delle "coscienze" e degli schieramenti attuali della "specifica" parte coinvolta nell’attuale protesta. Il tema che si pone è quello dell’unificazione delle forze anticapitalistiche, che è cosa ben diversa dalla politica delle "alleanze" di marca riformista -almeno al passato, visto che l’attuale riformismo l’alleanza l’insegue con il grande capitale...-, in cui allearsi voleva dire che il proletariato doveva mettere la sua forza al servizio della difesa della collocazione capitalistica di quei ceti.

Sì, unificazione. Non c’interessa riscontrare che i contadini sono altro dal proletariato o che, addirittura, potrebbero un domani schierarsi contro di noi: lo sappiamo benissimo, ma per evitarlo c’è un solo mezzo: dare il massimo slancio al quadro di intervento autonomo del proletariato. Solo una classe operaia che lotti coerentemente per i suoi interessi di classe può attrarre a sé le forze sociali messe in movimento dall’aggressione del capitalismo, senza fare compromessi con le rivendicazioni di queste forze che puntino a difendere le nicchie che nel passato il capitalismo gli aveva concesso.

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Il randello dello stato

Un’altra cosa emersa dalla protesta è come gli allevatori abbiano potuto apprendere sulla propria pelle, in questa lotta, che il nemico è lo Stato, coi suoi randellatori e i suoi magistrati, i suoi politicanti governativi e la stampa prezzolata. Poco importa che la "coscienza" si fermi a stabilire che si tratti di "questo" Stato e non, come da visione marxista, dello Stato in quanto organo del Capitale, perchè imprimere alla "coscienza" questo salto spetta ai comunisti e non ad altri, all’azione del partito e non alla spontaneità della lotta immediata, di cui conosciamo i destini da qualunque classe venga condotta.

Piuttosto si deve prendere atto che tra gli allevatori -e non solo tra loro- si sta facendo strada l’equazione Stato=manganello=Napolitano=Pds; un tantino più in là e si arriva a stabilire =movimento operaio. Una deduzione del genere scaverebbe un solco profondo tra classe operaia e loro. La destra lavora ad approfondirlo, e il governo non è da meno perchè cerca di usare la "simpatia" operaia di cui gode per supportare la sua azione repressiva: l’agitazione di una categoria a cui stiamo già dando tanto rischia di mettere in crisi un governo che è interesse operaio difendere per evitarne uno più anti-operaio. Da parte delle organizzazioni della "sinistra", e degli stessi operai di sinistra, nulla viene tentato per contrastare quella equivalenza.

I comunisti e le avanguardie proletarie che non sono cadute in trance con i sogni prodian-bertinottiani, devono assumersi la loro parte (per quanto condizionata dalle ridotte forze) di responsabilità in ciò, per demistificare, in teoria e nei fatti, quell’assunto "evidente", e separare le responsabilità di una sinistra sempre più prona all’esigenze del grande capitale e del suo stato dagli interessi di classe del proletariato.

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Simpatia del "popolo", antipatia della "sinistra"

La lotta degli allevatori ha suscitato una simpatia generalizzata, per lo meno al Nord, della "popolazione", dagli operai agli artigiani, dai giovani ai lavoratori autonomi. E’, in parte, indice di una crescente disaffezione nei confronti dello stato, che può venire intercettata da una politica liberista e secessionista, ma è, ancor più, qualcosa di più profondo. Non un atteggiamento di "solidarietà" che si dà a un soggetto separato, ma la sensazione che sotto la vicenda "particolare" dell’oggi vi sia un interesse comune, come se si percepisse che in discussione non c’è la condizione economica di una determinata categoria, ma qualcosa di molto più generale, che riguarda tutti, non singolarmente presi, ma come umanità. Una sensazione cui il procedere degli eventi di tutto il capitalismo continuerà a fornire ulteriori esempi e argomenti, e alla quale, ancora una volta, solo il proletariato e i comunisti, in particolare, potranno dare lo sbocco coerente, di far prevalere le ragioni dell’umanità affossando il sistema che, per autoriprodursi, le calpesta.

E’ caratteristico che da parte della sinistra non solo dalemiana, ma bertinottiana e rossandiana a ciò si contrapponga una specie di antipatia o quanto meno di indifferenza ammantata dietro la considerazione che, in fondo, non si tratta di proletari, ma di gente con interessi diversi dai "nostri" e via dicendo. Questa pretesa è palesemente ipocrita quando poi, nei fatti, si stan bene ad ascoltare le esigenze (proletarie?) della Fiat e consimili,... forse perchè il latte non è rottamabile. In realtà, questa "sinistra" è logica quando preferisce la Fiat ai produttori di latte e in ciò persino "operaista": lì infatti ci sono gli operai che vanno indirettamente soccorsi in quanto schiavi del capitale da proteggere in quanto tali.

L’adesione ai principi del capitalismo è giunta in questa "sinistra" a un punto tale che essa astrae completamente (che sarebbe il minimo!) dal fattore primario della produzione di beni socialmente utili. Se la condizione operaia può essere difesa solo nell’ambito di una tenuta del sistema capitalista, niente di esso può venir messo in discussione. Non la qualità della sua produzione, né l’ineguaglianza degli scambi.

Tutti quei temi che costituivano, tempo addietro, il fondamento delle riforme che si volevano imporre al capitalismo, scompaiono progressivamente, al fine di non disturbare il manovratore, che preso dalle sue difficoltà non può, ormai, neanche più tollerare che se ne discuta. Persino il tema della qualità degli alimenti, tanto caro alla sinistra che nell’epoca dell’affluenza si preoccupava anche degli aspetti ecologici-gastronomici della condizione proletaria (o della propria?), viene oggi bandito, o ripescato solo per scagliarlo contro gli allevatori, addossando a loro la responsabilità di alimenti sempre più degenerati, ed evitando accuratamente di riconoscere come siano loro stessi vittime (al pari, se non peggio, dei "consumatori", visto che con certe sostanze ci convivono nel lavoro quotidiano, oltre che mangiarle come tutti) di un sistema generale che gli impone di scalare vette produttive incrementando il ricorso alla chimica, alla biotecnologia, alla farmaceutica, ecc.

La putrefazione avvolge sempre più il capitalismo, il parassitismo finanziario opprime sempre più il campo della produzione, lo costringe a spremersi all’infinito, a concentrarsi in prodotti inutili a risolvere i problemi dell’umanità, a produrre merci essenziali di qualità sempre più scadente e in quantità che non accentuino i problemi del profitto, incurante di lasciare alla fame milioni di uomini. Il riformismo che sognava una volta di correggere questo sistema, oggi che lo vede in difficoltà finisce, semplicemente e puramente, con il difenderlo per quello che è, accettando di farsi trascinare nella putrefazione esso stesso.

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La legge è legge!

L’antipatia strisciante della "sinistra" involge anche la radicalità dei mezzi di lotta adottati dagli allevatori, salvo forse qualche, pavida, querimonia sugli "eccessi" polizieschi. Dinanzi agli spruzzi di letame, esponenti sindacali e della "sinistra" hanno ricordato che gli operai non hanno mai gettato merda sulle forze dell’ordine. Proprio qui sta il punto! I proletari non devono mai travalicare gli argini della servile ubbidienza alle leggi e sarebbe pericolosissimo che da questo brutto esempio imparassero invece a farlo, imparassero che è così che si "tratta" con la controparte, con lo Stato "di tutti", che così si impongono le proprie rivendicazioni, che così si crea un cemento tra le proprie file.

Una lezione che per la "sinistra" gli operai non devono mai apprendere, continuando a riverire lo stato, fidando nel suo "ruolo di mediazione" tra le classi, nel suo impegno a realizzare il bene comune, e limitandosi a lottare, se ne fosse il caso, pacificamente e legalitariamente.

Per quanto tempo ancora il proletariato potrà continuare a considerare questo armamentario come confacente ai suoi interessi? Per quanto tempo ancora continuerà a scambiare l’interesse delle imprese, del paese, del capitalismo, per il suo stesso interesse? La vecchia talpa scava in profondità e va sgretolando tutte le condizioni che hanno favorito l’affermarsi nel proletariato di quell’armamentario.

Tocca ai comunisti lavorare per delineare fin d’ora le coordinate di programma, di teoria, di organizzazione, di lotta, per il domani, affrontando tutte le questioni che, già oggi, lo preparano, e svolgendo quell’iniziativa di agitazione e di propaganda che le loro limitate forze gli consentono, ma che, non per questo, è meno necessaria e utile.

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L’agricoltura in Italia

Le condizioni per una agricoltura produttiva sono: il rapporto occupati/prodotto, un forte apparato industriale sia dal lato della fornitura che da quello della trasformazione dei prodotti, nonchè un sistema distributivo centralizzato e finanziariamente dotato. L’agricoltura ha smesso da tempo di essere il comparto che produce gli alimenti, e si è trasformato in una sezione della catena produttiva che dipende, a monte, dall’industria chimica, farmaceutica, metalmeccanica, ecc, che fornisce le materie prime e i mezzi da lavoro, e, a valle, dall’industria alimentare che ritira i prodotti agricoli alla stregua di semi-lavorati e li trasforma nei prodotti destinati al mercato, sul quale ultimo domina non l’orientamento del consumatore, ma gli orientamenti che le imprese commerciali e distributive riescono a imporre tramite le loro strategie (in ultima istanza, tramite le finanze di cui dispongono per imporle ai mercati).

Su ognuno di questi aspetti l’Italia si trova in enorme ritardo: non possiede una forte industria "di base" (il tentativo di Ferruzzi di entrare tra i leader mondiali del settore è stato frustrato da tangentopoli, anche se le sue fortune cominciarono a vacillare quando fu respinto duramente il suo assalto alla Borsa di Chicago, massimo centro mondiale del settore), la sua industria alimentare è divenuta terreno di conquista delle multinazionali straniere, il suo settore distributivo tarda a lasciare spazio alla grande distribuzione, e lascia enormi spazi al capitale estero.

Alla debolezza sul terreno industriale-finanziario si unisce, per completare il quadro, lo scarso livello di produttività dell’agricoltura; il settore occupa circa 1.400.000 addetti, pari a circa il 6% della forza lavoro attiva (contro meno del 3% dei paesi più sviluppati) e ha una struttura ancora molto fondata sulla parcellizzazione del suolo (più di 800.000 sono i coltivatori diretti), su aziende di dimensioni ridotte, a conduzione familiare e con scarsa (o nulla) capitalizzazione. Ancora nell’88 il 28% delle aziende produceva il 71% del prodotto agricolo totale, il restante 72% produceva solo il 29%! Gli squilibri sul territorio sono amplissimi; mentre nella Valle padana e in zone limitate del centro e del sud, esiste un rapporto occupati/prodotto e un’organizzazione delle aziende comparabile alle agricolture più sviluppate, nel resto del paese (quasi tutto il sud e le zone di montagna alpine e appenniniche) sono stati compiuti pochissimi passi verso una vera modernizzazione.

Viene, quindi, in luce il fallimento completo della politica agricola italiana. Per lungo tempo il settore è stato considerato dal potere un semplice serbatoio di voti in funzione essenzialmente anti-operaia e di manovre a suon di denaro "investito" in regalie, spese inutili a fondo perso, ecc. Per vari motivi (non ultimo l’attitudine della sinistra d’opposizione in materia), in Italia si era giocato all’insensato spendereccio improduttivo nel ramo senza mai affrontare i nodi strutturali dell’ammodernamento, dell’attrezzaggio alla concorrenza del Duemila. Non che tutto è rimasto come prima, basti vedere la riduzione degli stessi produttori di latte da 420.000 dell’83 agli attuali 105.000, ma a ritmi fortemente sfasati rispetto a quelli del resto d’Europa e dell’insieme dei paesi "più sviluppati".

Il regime delle quote
non impedisce la centralizzazione

Il regime delle quote di produzione, in definitiva, serve, a cercare di evitare che l’intero sistema capitalista si inceppi in qualche suo settore, a puntellare l’intera impalcatura del profitto. La sua azione, però, non impedisce che la concorrenza continui a giocare in pieno il suo ruolo, quello, cioè, di concentrare sempre più il profitto nelle mani dei capitali più potenti e organizzati.

In campo agricolo ciò vuol dire che la quota di profitto di chi produce tende a diminuire sempre più a favore di chi detiene il capitale finanziario. Infatti, il quasi-ristagno dei mercati dei prodotti alimentari provoca una concorrenza sempre più feroce, in quanto i mercati dei singoli prodotti possono espandersi solo a condizione di ridurre la vendita di altri prodotti. Le aziende sono, dunque, costrette alla ricerca di una continua innovazione di prodotto, che comporta spese di ricerca scientifica e sociologica, spese di produzione e di promozione che richiedono, per essere adeguatamente ripagate, dimensioni sempre più estese dei mercati, e, in buona sostanza, l’impiego di capitali sempre più grandi.

Il dominio sull’intera filiera viene, dunque, esercitato da chi dispone di quei capitali e che li investe nei prodotti alimentari a condizione che gli garantiscano un tasso di profitto per lo meno analogo agli altri settori. Il segmento più debole della catena è, alla fine, proprio quello della produzione, costretto a pagare prezzi pesanti anche in presenza di regimi protezionistici come quello delle quote.

Di conseguenza il singolo produttore non è affatto difeso da quel regime, ma subisce una pressione continua da parte dei segmenti dominanti della filiera che lo costringe a dover continuamente accrescere la produttività della propria azienda (in 10 anni la produttività media delle mucche è aumentata del 140%, che, dato il regime delle quote, ha comportato l’abbattimento di milioni di capi nella sola Europa) per resistere sul mercato: il dato riferito della diminuzione del numero degli allevatori italiani di latte lo mostra chiaramente. E per resistere deve per lo più indebitarsi, e così finisce con l’essere doppiamente vittima del capitale finanziario. Quando poi gli arrivano le multe per aver prodotto troppo, al terzo danno si unisce anche la beffa.

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Freemen

Il lavoro della terra sta subendo una trasformazione a ritmi vorticosi. I contadini sono schiacciati dalle esigenze del mercato, impostegli dalle aziende che ritirano i prodotti, dall’avidità delle banche, dalle politiche statali che regolamentano le produzioni, puniscono gli "eccedenti", dispongono l’abbandono dei suoli.

Negli Usa (il paese dominante in campo finanziario e in quello agricolo) il fenomeno si è spinto a livelli altissimi. Il governo finanzia la produzione agricola, in particolare di quella dei cereali, che consente al paese di dominare in un settore particolarmente sensibile per condizionare ogni altro paese deficitario (e reso ancor più deficitario dalle politiche di "libero scambio" imposte da Fmi, Wto, ecc.), ma le sovvenzioni vanno, com’è inevitabile nel sistema capitalista, soprattutto al cartello delle gigantesche imprese che commerciano il grano, senza produrne neanche un chicco. I contadini, i "farmers", sono gettati dalle difficoltà del mercato e dall’usura bancaria in condizioni sempre più difficili, sono letteralmente espropriati della loro identità di contadini, per essere ridotti a un ingranaggio della catena del profitto del grande capitale, un ingranaggio sottoposto a un uso sempre più intenso e usurante, e con "ricompense" che si fanno, via via, evanescenti.

Non è un caso che si moltiplicano, in quel paese, fenomeni di rivolta anche volenti come quelli dei "freemen", che sono, per lo più, proprio "farmers", la cui disperazione giunge a indurli a costituire movimenti separatisti, accumunati dall’odio contro le tasse inique, le banche strozzine e il governo centrale.

"I freemen- dice Gualtiero Ciola, veterinario, studioso del mondo agricolo a la Padania del 17.12.97- non sono altro che i contadini ai quali il cartello del grano presta soldi, vende sementi, e la corda per impiccarsi quando le spighe sono bionde".

La difesa dei produttori contro il parassitismo del grande capitale può giungere ad estremi fors’anche più radicali di quelli dei "freemen", e, assumere anche una direzione anti-proletaria. Se, però, il proletariato non riuscirà a caricare sulle sue spalle il peso fondamentale della lotta reale contro il sistema che sviluppa il parassitismo, e a prospettare la soluzione rivoluzionaria dell’insieme dei problemi.

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