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Dossier Sud

La borghesia guarda al Sud come occasione
per aggravare lo sfruttamento dei lavoratori.
Il proletariato deve trasformarlo in una risorsa
dell’unitaria battaglia contro il capitalismo.

Indice

L’attenzione dei media, monopolizzata a lungo dalla questione settentrionale e dal protagonismo della Lega, si è spostata di nuovo anche al Sud, per il riemergere di tensioni sociali e per l’attivismo di vari amministratori locali.
Si comincia a percepire che il meridione è una potenziale polveriera che esplodendo provocherebbe effetti non meno dirompenti, sul piano istituzionale e sociale, di quelli evidenziati dalle regioni del Nord.
Governo, forze politiche, padroni e sindacati hanno messo, così, al centro della propria agenda l’intervento al Sud e l’"emergenza" lavoro.
La discussione non verte, naturalmente, sul come risolvere gli annosi e strutturali problemi del meridione e del proletariato locale -soluzione impossibile nell’ambito degli attuali rapporti capitalistici- ma su come trasformare il Sud da "problema" per l’ordine sociale capitalista in una "risorsa" capitalista.
Tradotto significa: intervenire per utilizzare e consolidare le tendenze "spontanee" indotte dal capitalismo stesso e poter rendere ancora più funzionale il sud alle esigenze dell’accumulazione del grande capitale, tanto nazionale che internazionale.
Dietro la lotta alla criminalità, gli "interventi a sostegno dell’occupazione" si nasconde l’obiettivo di prevenire possibili rivolte, di rendere "appetibile" l’investimento al Sud, nonché di utilizzare il rinnovato sfruttamento del proletariato meridionale come arma di pressione e di ricatto verso il resto della classe operaia.
Ma, come mai il Sud torna a diventare un’emergenza? Non avevano promesso, la borghesia e i cantori delle magnifiche sorti progressive del capitalismo, che quest’ultimo avrebbe ridotto le distanze tra le varie classi e le aree geografiche, che avrebbe risolto le antiche contraddizioni?
In realtà, la vicenda del meridione italiano rappresenta una delle tante schiaccianti prove d’accusa contro il sistema capitalistico e della sua incapacità a risolvere le tante contraddizioni che il suo stesso procedere determina e acutizza incessantemente.

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Origini capitalistiche della questione meridionale

La "questione meridionale" non nasce per cause "particolari" attinenti le caratteristiche territoriali-etniche proprie dell’area, e nemmeno come lascito storico di un precedente sistema sociale al nascente capitalismo. Essa è il prodotto -non fortuito- delle modalità con cui si è costituito e consolidato il capitalismo in Italia, del processo che ha portato la borghesia a realizzare il proprio dominio e lo stato nazionale (leva decisiva dell’accumulazione capitalistica).

Abbiamo già descritto sul n° 29 del che fare il ritardo storico del capitalismo italiano, che, pur non impedendogli l’ingresso nel pugno di stati imperialisti che sfruttano e opprimono i lavoratori di tutto il mondo, ha da sempre segnato la via della borghesia nostrana e le debolezze del capitalismo italiano.

Lo stato nazionale italiano nasce in ritardo e grazie a un duplice compromesso con le potenze straniere e con le classi proprietarie del centro-sud e la chiesa. Compromesso che ha segnato i destini dello sviluppo del capitalismo nazionale, condannandolo a rimanere asfittico e fortemente squilibrato.

La difficoltà a procurarsi un proprio spazio coloniale, dovuta al ritardo di cui sopra e alla già quasi avvenuta spartizione del mondo tra le grandi potenze, il compromesso con le classi possidenti del Sud e con la chiesa, che accettano di "sottomettersi" al capitale indigeno in cambio di un tornaconto in termini economici e di privilegi sociali, hanno spinto la borghesia a incentivare la crescita dell’industria al Nord, attraverso il blocco delle forze produttive moderne esistenti al Sud all’atto dell’unità.

Il sottosviluppo del Sud è stato quindi la "precondizione", non casuale, né dovuta a cause solo italiane, per lo sviluppo complessivo, molto diseguale, del "nostro" capitalismo.

Al Sud, che già partiva da un livello di sviluppo complessivamente più arretrato, venne riservato prevalentemente il ruolo di mercato di sbocco per le merci delle industrie del Nord, e nel giro di pochi anni al tessuto artigianale e di piccola industria, spesso domestica, che esisteva venne impedito il salto verso l’aziendalismo più moderno e venne sostanzialmente distrutto..

Tanto l’attività in agricoltura, con un attivo mercato del grande e piccolo affitto e che impiegava già lavoratori salariati e braccianti, quanto l’attività industriale vera e propria, concentrata nelle zone più evolute e attorno alle grandi città, determinavano un quadro di iniziale accumulazione capitalistica che, però, attraverso l’intervento dello stato, venne utilizzata come base di espansione per l’industria del Nord. I depositi bancari dei borghesi meridionali furono canalizzati dagli istituti finanziari ad alimentare la finanza privata nazionale. Il debito pubblico, finanziato abbondantemente dal risparmio meridionale, veniva utilizzato dallo stato per sostenere l’accumulazione del capitale al Nord. Lo stesso fisco attingeva largamente alle risorse del Sud, in quanto raggiungeva assai più facilmente la ricchezza immobiliare e ogni movimento economico legato alla terra che non i profitti e i sovrapprofitti industriali commerciali e finanziari.

Al "vizio di origine" del capitalismo italiano s’è sommato il modo di funzionare "tipico" di ogni capitalismo che può svilupparsi solo con una distruzione continua dei centri produttivi più modesti e meno attrezzati, a favore di nuove e più forti concentrazioni industriali e finanziarie. La disparità di distribuzione dei "benefici del progresso" nelle diverse aree mondiali e nel seno di una stessa nazione è una diretta conseguenza del modo combinato e diseguale di procedere dello sviluppo capitalistico, del suo avanzare in maniera anarchica, della sua incapacità e impossibilità a svilupparsi secondo un piano.

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Le finalità dell’intervento "equilibratore" dello stato...

Le modifiche successivamente intervenute nel rapporto economico-politico tra capitale e stato non hanno potuto invertire stabilmente gli squilibri esistenti. Il dirigismo economico, l’"economia burocratizzata", il "capitalismo di stato" (come sprezzantemente definiscono, oggi, quel nuovo rapporto tra capitalisti e stato tutte le fazioni borghesi dopo averne largamente beneficiato nel corso della tanto esecrata prima repubblica) non hanno modificato di una virgola la sostanza delle cose, poiché non si è trattato di un assoggettamento del capitale allo stato, ma di un ulteriore assoggettamento dello stato al capitale.

La funzione dell’intervento statale non era di piegare, per via coercitiva, l’economia a uno sviluppo più "equilibrato e "giusto" dal punto di vista sociale, politico e territoriale. Esso rispondeva, invece, all’esigenza di accoppiare alla funzione di difensore del potere politico della borghesia, attraverso i suoi apparati repressivi, quella di contabile, amministratore, cassiere, assicuratore, per meglio difendere la classe borghese dai rischi economici. In breve si è trattato di un passaggio -non episodico, né solo italiano- verso una più completa assunzione da parte dello stato del ruolo di rappresentante degli interessi complessivi capitalistici, di vero e proprio comitato d’affari della borghesia. Non è un caso che l’antesignano di questo passaggio sia stato il fascismo, copiato e perfezionato tanto dai regimi autoritari che da quelli democratici.

L’intervento diretto dello stato in economia, che non ha riguardato solo, né prevalentemente il Sud, è servito, così, a rafforzare l’unitario sistema di sfruttamento della borghesia italiana. Da esso hanno tratto vantaggio soprattutto i centri accumulatori industriali e finanziari del Nord, che in cambio hanno dovuto tollerare il diffondersi di un esteso ceto parassitario, burocratico e affaristico, concentrato soprattutto nella capitale e nel mezzogiorno. Il "sostegno agli investimenti" al Sud, le faraoniche (per i costi, si intende, non certo per i servizi!) opere di infrastruttura, lungi dal diminuire il gap di sviluppo tra Nord e Sud, hanno contribuito ad arricchire i "benefattori" industriali del Nord (grandi gruppi monopolistici in testa, Fiat, Pirelli, Olivetti, Montedison) e la famelica imprenditoria meridionale, con il corollario inevitabile di tangenti e prebende distribuite ai clan politici e alle cosche mafiose -gli uni e le altre parti della classe borghese-, quali "intermediari" di questo gigantesco meccanismo di assistenzialismo... all’accumulazione del capitale nazionale.

Quel tanto di spesa pubblica ritornato nelle tasche proletarie, sotto forma di occupazione fittizia nella pubblica amministrazione, o di spesa sociale a sostegno del reddito, ha rappresentato una quota veramente marginale di questo albero della cuccagna a cui si è alimentata la borghesia nazionale nel suo insieme, ed era direttamente funzionale ai meccanismi distorti dell’accumulazione capitalistica italiana, al mantenimento del regime politico che l’ha tutelata per mezzo secolo e della pace sociale, attraverso la gestione assistenziale-clientelare che la caratterizzava.

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...e suo misero fallimento

Questa tendenza ha avuto una relativa impennata nel corso della prima repubblica perché la borghesia italiana ha beneficiato di un ciclo di ripresa economica a scala metropolitana apparentemente inesauribile.

Il riesplodere prepotente dell’antagonismo tra forze produttive socializzate e appropriazione privata di esse a scala internazionale (incubato proprio dal precedente sviluppo) ha inceppato questo meccanismo, ha dato una spinta ulteriore alla concorrenza tra i capitali e spinto all’estremo le tendenze alla centralizzazione, alla competizione globale e alla "mondializzazione". Di fronte a una crisi che -pur procedendo in maniera strisciante e altalenante- si presenta senza sbocchi, il tentativo di ogni frazione "nazionale" del capitale è di allontanarne da sé gli effetti più disastrosi e di ridisegnare un nuovo ordine mondiale il più favorevole possibile.

La dinamica così forte di ripresa del protagonismo e dell’attivismo dei capitali e degli stati più forti, hanno fatto crollare in un baleno le illusioni e i sogni di gloria del capitalismo italiano. Sono riemerse di colpo, accentuate, tutte le sue debolezze strutturali e le distorsioni che lo caratterizzano. L’effimero sviluppo indotto negli anni ’60 e ’70 dall’intervento ordinario e straordinario dello stato nel mezzogiorno ha subìto un colpo mortale.

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La nuova "attenzione" borghese per il Sud: più rognosa della precedente

Il "segreto" del riapparire della contraddizione meridionale, come di tante altre, sta tutto dentro il riemergere di queste difficoltà del capitalismo nella sua globalità. Non si tratta dei "perversi" diktat di Maastricht, che sono soltanto una conseguenza e una registrazione a livello di capitale europeo della necessità di adeguarsi alla feroce lotta al coltello che si va combattendo a scala planetaria. Così come non si tratta del retaggio della prima repubblica e della sua corrotta classe politica. Questa anzi, a suo modo, sotto la pressione di un proletariato che, per quanto attestato su posizioni riformiste, era in grado di mettere in campo una notevole forza contrattuale, aveva realizzato una sia pur minima e gravemente perversa redistribuzione territoriale del reddito e degli investimenti.

L’apparente "regressione" a un’economia di mercato "pura", al pieno liberismo, vuol dire per la borghesia, in primo luogo, superare i "condizionamenti consociativi" imposti dal movimento operaio riformista, tagliare la selva di corporativismi dei vari ceti sociali ingrassatisi a sbafo (sulla pelle del proletariato, aggiungiamo noi), ma anche rompere con un tipo di assistenzialismo piuttosto indiscriminato verso ogni singola frangia di capitale per concentrare gli interventi a sostegno della capacità complessiva del capitale nazionale di reggere nella lotta senza quartiere a scala mondiale, orientando perciò l’assistenza ai capitali in modo selettivo.

Parliamo di regressione apparente perché il crescente intervento dello stato in economia, così come la necessità da parte del capitale di essere "assistito" per evitare l’immediato esplodere delle contraddizioni economico-sociali e quindi anche politiche, sono ormai elementi imprescindibili del funzionamento del moderno capitalismo, tanto più di quello imperialista.

Negli anni ’80 e ’90 parte, così, una ristrutturazione dell’intervento statale per adeguarlo alle necessità di questa fase del capitalismo, caratterizzata dal ritorno della crisi e dal dispiegarsi ulteriore della mondializzazione finanziaria e produttiva. La ristrutturazione, beninteso, non si ferma al dato puramente economico, ma coinvolge tutti gli aspetti: dall’istituzionale al politico, dal giuridico-amministrativo al militare.

Sul versante meridionale del quadrante Italia ciò significa che, se la crisi e la mondializzazione portano a una ulteriore concentrazione e polarizzazione dell’esercito industriale di riserva al Sud, per il capitalismo nazionale si tratta di utilizzare questa "opportunità" per aggiungere una differenziazione anche normativa e giuridica del mercato del lavoro a quelle che già induce spontaneamente la disoccupazione di massa. Si tratta, insomma, di "favorire" le condizioni per consentire alle aziende del Nord di reperire manodopera a basso costo, vista la difficoltà a trovarne sul mercato del lavoro locale. Ed è quanto il capitale nazionale e il governo dell’Ulivo stanno facendo per rendere più "disponibile" il proletariato meridionale ad accettare qualsiasi condizione di sfruttamento gli venga "benevolmente" proposta.

Altro che risoluzione del problema meridionale! La borghesia può solo aggravarlo nella disperata ricerca di difendere i propri profitti e privilegi di classe e utilizzarlo per attaccare ancora più a fondo il proletariato nel suo insieme tanto al Sud quanto al Nord!

Cosa è stato il Sud in questi ultimi anni se non un campo di sperimentazione di deroghe e strappi alle norme contrattuali, con il consenso sindacale, da esportare poi metodicamente al Nord? In prima linea è stata la Fiat che, a partire da Melfi e in nome della creazione di nuova occupazione, ha introdotto nuove regole iper-flessibili nell’organizzazione del lavoro per estenderle subito dopo agli altri stabilimenti del Sud e poi, inevitabilmente, anche a Mirafiori e ad Arese. Lo stesso scenario si sta ripetendo con le nuove misure a "sostegno dell’occupazione". Dopo aver sfondato a Crotone e Manfredonia, la Confindustria già richiede la generalizzazione dei "contratti d’area" a tutto il mezzogiorno, mentre l’associazione degli industriali torinesi ne sollecita l’applicazione anche nel proprio territorio. Giusto, del resto: perchè discriminare il Sud?

Ed è bene risottolineare che non si tratta di una "particolare" politica propria di un solo schieramento, delle conseguenze della vittoria ideologica del liberismo, a cui contrapporre un’altra "opzione" politica anti-liberista solidale, che magari pretende di salvare la capra della competitività sui mercati internazionali e i cavoli proletari con uno "sfruttamento equo" e lavori sociali non sottomessi alla logica del profitto. Nessuna "contrapposizione" di questo tipo. L’offensiva anti-operaia sul terreno della destrutturazione del mercato del lavoro e della reintroduzione delle gabbie salariali è stata guidata prima dai governi "tecnici" di Amato, Ciampi e Dini, infine da quello "amico" e "suadente" di Prodi che poggia su una maggioranza di sinistra. Non è un caso se gli stessi sindacati confederali non si fanno certo pregare per offrire il massimo di flessibilità su tutti i fronti al Sud, per... "favorire l’occupazione", s’intende. È, d’altronde, questa l’unica politica possibile se si resta imprigionati nella logica delle compatibilità, se si accetta di tutto subordinare alle esigenze dei "sacri" interessi nazionali, alla difesa della competitività dell’Azienda Italia.

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L’Italia e la disgregazione del vecchio ordine mondiale

Se la borghesia italiana, in uno con quella internazionale, è interessata ad utilizzare al meglio le nuove "opportunità" che il rinnovato sfruttamento del proletariato meridionale può offrire, non si può dire che la stessa unità d’intenti, tanto sul piano internazionale che su quello interno, esista circa il chi e il come deve maggiormente beneficiarne.

La rincorsa alla centralizzazione e concentrazione da parte del capitale finanziario (nell’accezione leniniana del termine) a scala planetaria provoca la disgregazione del vecchio ordine mondiale e una nuova gerarchizzazione e polarizzazione. L’azione delle impersonali leggi del mercato approfondisce le diseguaglianze di sviluppo, dentro le singole nazioni e tra i vari stati. Il capitale e gli stati più forti le sfruttano a proprio favore, disgregando, da una parte, e centralizzando a sé, dall’altra, i più piccoli. L’azione oggettiva viene rafforzata da una soggettiva di tipo politico, giuridico, diplomatico e militare, e non si limita solo agli aspetti economici, ma minaccia la stessa integrità territoriale degli stati concorrenti, iniziando dagli anelli periferici della catena (ex-Jugoslavia, ex-Cecoslovacchia, etc.) ma avvicinandosi sempre più verso quelli centrali del sistema (Canada, Belgio, Italia).

L’Italia è allo stesso tempo agente di questa azione verso gli stati più deboli (come nella ex-Jugoslavia, nella Somalia o nell’Albania), e contemporaneamente agíta da parte dei capitali e degli stati più forti. Nella misura in cui non riesce a difendere, e se possibile potenziare, la propria posizione nella gerarchia del capitalismo internazionale (che potrebbe conseguire solo con un adeguato programma e un’azione unitaria di disciplinamento del proletariato), la classe capitalistica "nostrana" vedrà crescere sul "proprio" territorio le spinte centrifughe.

L’azione "risanatrice" dei governi post-tangentopoli e soprattutto di quello ulivista, ha potuto beneficiare di un certo lasso di tempo per procedere con gradualità nelle misure d’attacco alla classe operaia, godendo della benevola copertura delle forze politiche e sindacali riformiste, che ha disorientato e demoralizzato il proletariato. Su questa via ha conseguito, certo, non pochi risultati sul terreno della rigenerazione dello stato e del capitale, ma non è bastato a ricompattare il fronte borghese e a indebolire le spinte centrifughe.

Al Nord si vanno diffondendo i sentimenti e le tendenze leghiste ben oltre la stessa Lega, che da parte sua continua a rafforzarsi sia pure, al momento, in modo meno "spettacolare". Le strutture locali delle stesse forze politiche nazionali progressivamente si "nordizzano" (tendenza che spazia in maniera trasversale da An fino ai Centri sociali, non risparmiando FI, Pds e Rifondazione) e nascono "nuovi soggetti politici" che concorrono sullo stesso terreno (come il partito del Nord Est di Cacciari, che nonostante l’apparente fair play si spinge su posizioni ancora più localiste e radicali della Lega).

Al Sud, dove la classe borghese era prevalentemente legata all’intervento assistenziale dello stato e ai benefici parassitari che ne derivavano, c’è voluto più tempo per prendere atto che quel tipo di rapporto non poteva più essere ripristinato. Così, dopo qualche conato nazionalista e iper-statalista, si è cominciato a diffondere un meridionalismo (leghista) che punta a ricontrattare il ruolo della classe politica e della borghesia meridionale nell’ambito dei nuovi assetti statali ed economici che si vanno determinando, o, in subordine, ad attrezzarsi per svolgere il ruolo di quisling locali di capitali stranieri nel caso il processo di disgregazione dovesse dimostrarsi inarrestabile fino alla deflagrazione dello stato e dell’unità italiani.

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Il leghismo ormai impazza anche al Sud

A causa della maggiore debolezza e disomogeneità del Sud (che è ancora più esposto del Nord all’azione disgregatrice del grande capitale, nonché agli effetti dovuti allo smantellamento del precedente intervento statale), la spinta leghista vi si è caratterizzata da subito con connotati più localistici, a scala regionale o peggio municipale, spesso in concorrenza tra di loro. Per il momento, a parte le insignificanti associazioni neo-borboniche o i vari fallimentari tentativi di costituire una Lega Sud, tale tendenza punta più sul federalismo che non sull’aperto secessionismo. Prevale infatti la convinzione di avere più chance restando dentro il contesto di uno stato nazionale che, sia pure più polarizzato di prima, possa affidare un ruolo decisivo ai ceti dirigenti meridionali quale intermediarii di una nuova colonizzazione del Sud e del rinnovato sfruttamento, insieme al controllo, del proletariato meridionale. Quanto alla classe imprenditrice locale, essa deve prendere atto di essere, nella gran parte, legata alle subforniture per i grandi gruppi industriali, dai quali dipende la propria sopravvivenza. Non può, perciò, che puntare a rendere più intenso lo sfruttamento dei lavoratori del Sud tanto per evitare che le commesse siano dirottate vero aree più "convenienti", quanto per rendere più competitive le merci prodotte "in proprio".

L’indebolirsi della precedente trama del mercato nazionale ha spinto, comunque, gli imprenditori locali a cercare di diversificare la propria dipendenza, incrementando l’offerta di "collaborazione" ai gruppi industriali esteri.

L’altro tasto su cui gioca il leghismo dei politici e degli imprenditori meridionali è il potenziale ruolo di testa di ponte verso il Nord Africa e i Balcani per la penetrazione nei mercati e per accedere allo sfruttamento dei proletari di quelle regioni.

A seconda di quale tendenza prevarrà sui futuri scenari istituzionali, la borghesia del Sud si prepara a ogni possibile soluzione: o stringere un nuovo patto con la borghesia del Nord ripetendo su nuove basi quanto già avvenne a seguito dell’unificazione nazionale, oppure centralizzarsi ad altri capitali più potenti di quello Nord italiano a cui offrire i propri servigi. Qualunque soluzione si affermi, unico è il destino riservato al proletariato meridionale. Per esso si prospetta un ulteriore sprofondamento delle condizioni di vita e di lavoro, con l’avvicinamento a una situazione da terzo mondo che avrebbe effetti negativi su tutto il proletariato.

Momentaneamente sembra avere poco spazio, invece, la risposta populista e statalista, incarnata da Cito e da alcune frange dell’ex-Msi, spiazzata dall’estrema frantumazione dei leghismi meridionali, ma anche perché si percepisce che nessuna "pressione", per quanto radicale, può oggi ripristinare il vecchio flusso assistenziale dello stato. Il neo-liberismo è diventato anche al Sud la bandiera di tutte le varie fazioni borghesi. La risorsa su cui si punta per attrarre investimenti è: basso costo del lavoro e sua massima flessibilità. Allo stato si chiede non più di farsi imprenditore diretto, quanto di garantire condizioni di convenienza per chi decide di produrre al Sud (sgravi fiscali, finanziamenti a fondo perduto, etc.).

Tuttavia, in parte le argomentazioni di matrice populista fanno capolino nel movimento dei sindaci meridionali nel tentativo di battere ancora cassa verso lo stato, ma anche di deviare verso le istituzioni centrali il malcontento proletario crescente e di utilizzare possibili insorgenze di massa per aumentare il proprio peso contrattuale. Bassolino si è rivelato ancora una volta un maestro rispetto ai sindaci meridionali "alleati-concorrenti": uso della piazza per chiedere di riaprire la borsa statale, polemica con il governo per la scarsa sensibilità al dramma della disoccupazione, creazione del "Movimento meridionale" su basi trasversali e interclassiste. Così com’era stato il primo a indicare la strada della ricerca di nuovi interlocutori, prima con l’emissione dei Boc sul mercato americano e poi con la svendita dell’aeroporto di Capodichino agli inglesi.

Ma la risposta populista è destinata a emergere con più forza poiché forte è la crescita del malessere proletario nel mezzogiorno, anche se per ora, a parte singole esplosioni, come quella di Crotone, la più recente di Palermo e quella endemica di Napoli, non riesce a esprimersi con significativi movimenti di piazza. Potrà essa stessa assumere la forma anti-unitaria nel caso in cui il grande capitale dovesse fallire nel tentativo di cementare il fronte borghese intorno a un progetto imperialista unitario e gli interessi delle fazioni borghesi del Nord e del Sud, non riuscendo a trovare un nuovo equilibrio, entrassero sempre più in rotta di collisione.

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Ancora una volta il "rancido problema del Sud"

Intanto si torna ad agitare da più parti le insegne del meridionalismo, inteso come strategia da seguire per risolvere i problemi del Sud, sulla base delle sue presunte "particolarità". Nessuno più si sogna di ricercare le cause della difficoltà del Sud nel permanere di residui feudali, del mancato compimento della rivoluzione borghese e di tanti altri indimostrati e indimostrabili luoghi comuni del passato. Ma il moderno meridionalismo non è da meno nella becera metodologia di ricercare l’origine dei mali del meridione in cause interne, e in ritardi locali, quali lo sviluppo distorto, la mancanza di investimenti, la criminalità organizzata, etc. E la sostanza della ricetta proposta non cambia: il localismo, l’interclassismo e il trasversalismo, la richiesta al proletariato meridionale di rinunciare a difendere i propri interessi di classe in cambio di quelli, prioritari, comuni -così si pretende, mentendo e mistificando- a tutte le classi della società meridionale.

È la riproposizione in sedicesimo di quello che Bordiga definiva "il rancido problema del Sud italiano", sul quale si sono esercitati in passato intellettuali e politici meridionali. A essere demolita dalla critica marxista, allora, non era ovviamente l’esistenza del problema meridionale, ma il fatto che questo fosse analizzato come questione a sé, dovuta a specificità territoriali, a un deficit di democrazia e di moderni rapporti borghesi, invece di essere vista quale parte integrante del dominio dei rapporti sociali capitalistici e dei suoi effetti perversi. Immancabilmente i meridionalisti derivavano dalle proprie analisi la necessità di contrapporre astratti "valori morali" ad altre non meno astratte categorie, proponendosi di coinvolgere vari soggetti politici e classi sociali, purché animati dallo stesso intento. Le coppie "antagoniste" potevano essere di volta in volta: progresso contro conservazione, arretratezza contro modernità, corruzione contro onestà, e via di questo passo.

Il risultato dell’accodamento proletario a tali impostazioni è stato sempre quello di diventare massa di supporto per le mene elettoralistiche e di potere di fazioni borghesi locali, le quali "quando riescono a vincere divengono in linea generale più disoneste e forcaiole" di quelle soppiantate. Quanto alla risoluzione dei problemi del Sud, questa strategia non ha prodotto nessun miglioramento, ottenendo il solo risultato di "tenere mano in modo complice o imbecille a quel vasto cerchio di speculazione borghese, senza poter evitare che il plusvalore per legge di attrazione viaggi verso il baricentro capitalista, ossia da Sud verso Nord".

Niente di meglio può oggi produrre il nuovo meridionalismo che, preso atto della ventata neo-liberista, non rivendica più l’investimento statale per opere e lavori pubblici più o meno inutili, ma mira ad appaltarsi direttamente alle esigenze di valorizzazione del grande capitale offrendogli "prati verdi" in cui scorrazzare spremendo sangue e sudore al proletariato locale.

La consegna dei comunisti al Sud, oggi più di ieri, non può che essere invece quella di un programma unitario di battaglia anticapitalista che, sulla base di una ritrovata indipendenza di classe, sappia reagire all’altrettanto unitario sistema di dominio capitalistico il quale punta a dividere e contrapporre le varie sezioni del proletariato per meglio sfruttarle tutte.

Al Sud non ci sono "tappe" di ammodernamento del sistema di sfruttamento da completare prima di dare vita a nette rivendicazioni di classe; non ci sono "alleati locali" con cui stringere patti per difendere gli interessi di un indistinto mezzogiorno. Non solo perché l’attuale condizione del Sud è frutto proprio dell’azione, necessariamente diseguale, delle moderne e unitarie leggi capitalistiche, ma anche perché queste stesse leggi hanno prodotto un’ulteriore polarizzazione sociale, l’estensione delle figure proletarie "pure" e una diffusione della classe operaia, e, quindi, hanno diviso più in profondità che mai la società meridionale.

Se il proletariato industriale risulta poco visibile, dipende dal fatto che è meno concentrato nei grandi insediamenti industriali, e più nascosto alle statistiche ufficiali per l’enorme diffusione del lavoro nero, che ne rende più difficile anche l’organizzazione e la mobilitazione.

La borghesia e il nuovo meridionalismo possono proporre solo la legalizzazione di tale condizione lavorativa e la sua generalizzazione. Cosa ne verrebbe di buono al proletariato del Sud ad assecondare tale tendenza? Forse ci sarebbe qualche posto di lavoro in più, come è successo in Galles e nell’intera Inghilterra, ma al prezzo di un terribile incremento dello sfruttamento e della diffusione della povertà. Da parte loro i lavoratori del Nord vedrebbero, come già sta succedendo, spostarsi alcuni insediamenti produttivi là dove le condizioni sono più convenienti, oppure dovrebbero sottostare al ricatto dei propri padroni di accettare le stesse condizioni imposte al Sud, pena la delocalizzazione degli impianti. Una tendenza che l’ipotesi di secessione o di doppia moneta, tanto cara ai dirigenti della Lega Nord, potrebbe solo rafforzare.

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Rompere con la borghesia, rompere con il riformismo

Decisamente il proletariato non ha proprio nulla da guadagnare nell’accodarsi agli interessi della propria borghesia che oggi, sotto tutti i cieli, propone la stessa identica ricetta, sia quando veste i panni del secessionismo leghista, oppure del federalismo nordista o meridionalista, che quando si presenta sotto le insegne dell’unità nazionale per difendere gli interessi (imperialistici) dell’Italia nella competizione internazionale.

Ma il proletariato non può neanche continuare ad avere fiducia in un riformismo sempre più esangue che, mentre tiene bordone ad una borghesia all’attacco su tutti i fronti, continua a riproporre la possibilità di conciliare la difesa degli interessi proletari e quelli del capitale.

Il proletariato meridionale ha l’urgente necessità di bloccare il processo di disgregazione delle sue forze, di ritrovare le ragioni, e ricostruire l’organizzazione, della sua unità di classe con il proletariato del Nord, perchè solo da questa unità può derivare una seria difesa di entrambe le sue sezioni dall’attacco capitalistico. Ma questo è possibile solo a condizione di rompere col riformismo, con la sua sottomissione alle leggi del mercato, con l’accettazione delle compatibilità capitalistiche. E’ possibile solo se esso, nel suo insieme, si darà una propria organizzazione di classe, autonoma da ogni programma borghese di riscatto nazionalistico o localistico, di illusorio rilancio del passato concertativo con il capitalismo, e, anzi, di lotta a fondo contro il capitalismo. Una riorganizzazione proletaria su basi realmente classiste, cui i comunisti possono e debbono contribuire in modo determinante.

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