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LA COSA 2

SOCIAL-IMPERIALISMO INTERNAZIONALE:
PASSO OBBLIGATO, MA IMPOSSIBILE
PER LA SINISTRA BORGHESE

Indice

La costituente della Cosa Due, a lungo preparata e, infine, messa in programmazione a suon di fanfara con tanto di scenografie all’americana da far invidia alle precedenti megagarofolate di Craxi, non ha davvero sbancato al botteghino. Né tra le fila dell’"alta politica" riservata agli addetti né, tantomeno, tra quelle della massa -a cominciare proprio dalla massa dei lavoratori salariati, che pure aderisce col voto (di mobilitazione militante non si parla) a questa Cosa e, probabilmente, lo farebbe anche a cosacce peggiori. Grandi novità? Accese discussioni? Nessuno se n’è accorto, nessuno se n’è quindi appassionato.

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Simboli nuovi per un anticomunismo vecchio da tempo

Nessuna sorpresa per la cancellazione della falce e martello ai piedi della quercia. Il significato reale di quel simbolo era già stato eliminato da tempo, assai prima (parliamo di decenni, non di un fine settimana) che Occhetto, con la Cosa Uno, lo relegasse in quel dato posticino dopo aver opportunamente sbarazzato il "nuovo" partito della dizione comunista. Ma, in quell’occasione, c’era stato perlomeno un soprassalto nostalgico di militanti non del tutto immemori delle vecchie battaglie di classe combattute sotto quell’insegna (mendace) e decisi a non gettarla dalla finestra, pur arretrando completamente di fronte al compito di rivendicare il comunismo sul serio (ciò che avrebbe comportato ben altra battaglia, di spietata revisione critica del passato e coraggiosa proiezione verso il futuro). E c’era stata anche la sceneggiata dei "rifondatori", leoninamente autocandidatisi alla continuità, di nome e di fatto, con la vecchia tradizione "comunista" togliattiana, salvo annacquarla ulteriormente con dosi da elefante di riformismo aggiornato e rispetto del mercato purché... liberale ma non liberista. Niente di serio, ma, se non altro, un tantino di azione e di gag per movimentare il film, con l’ingresso in scena financo di caratteristi m-l e "trotzkisti" (due fratelli De Rege che si apostrofano vicendevolmente: "Vieni avanti, cretino!").

Qui s’è potuto cancellare tutto il necessario, in fretta e senza traumi. Nessun bisogno di qualche Milingo per esorcizzare la creatura da residui del demone comunista. Ormai sono rimasti in pochi a gridare al comunismo che si anniderebbe furtivamente tra i cespugli della quercia dalemiana, dai quali, semmai, c’è solo da aspettarsi che spunti fuori il faccione di Wojtyla, di Clinton o di qualche madonna piangente. Roba da Forattini e Berlusconi, cui non crede più nessuno, nemmeno loro stessi, e a sentire la quale pure Fini fa spallucce: "Comunismo? Ma quando mai!".

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Destra e sinistra del capitale, fratelli e avversari

Resta, sì, l’opzione di "sinistra". Una sinistra del e per il capitale, e non lo azzardiamo noi, ma lo dicono proprio loro. Capitalismo come alfa e omega, per D’Alema come per Berlusconi, salvo che il primo si rapporta alla massa dei lavoratori come un loro rappresentante, non un loro antagonista immediato, uno che li vuol aggiogare al carro del capitale, impedendone ogni e qualsiasi velleità antagonista, ma con un occhio di riguardo alla qualità delle catene, al rispetto dei "diritti del cittadino lavoratore" e alla necessità di farli "partecipare" alla "festa". Sinteticamente il Corriere (1 aprile): D’Alema "non può lasciare il rigore a Ciampi e la politica sociale a Rifondazione... la tenaglia tra i tecnocrati europeisti del Tesoro e la rincorsa sociale dell’estrema sinistra può esser molto pericolosa per la quercia".

Vero è che, nella presente fase putrescente dell’imperialismo, la distanza tra gli effetti pratici dei due metodi borghesi si accorcia visibilmente e che neppure l’ombra di un "vero riformismo" di classe è più rieditabile come in passato. Ma è altrettanto vero che differenza c’è e che un proletariato piegato da decenni di sviluppo capitalista ascendente e da una direzione politica "riformista" ad esso subordinata a dismettere ogni attitudine "sovversiva", a smarrire via via per strada il senso e la forza materiale della propria autonoma organizzazione di classe, a frantumarsi al proprio interno per settori d’interessi corporativi, aziendalistici, territoriali, riconosce questa differenza, per minima che sia, e vi aderisce, sempre più passivamente (da "cittadino", da elettore), e lo farà sino a quando lo stato presente di cose non si rivelerà insostenibile. Ciò sarà ed a ciò si preparano i comunisti, ci prepariamo noi, non mollando un attimo e d’un grammo il contatto con queste masse così come con quelle che già tendono a svincolarsi dall’abbraccio mortifero con un "riformismo" ormai cadaverico e ad organizzarsi fuori e contro di esso (tra mille incertezze, e tuttora oscillando più verso una riedizione dura del vecchio riformismo che verso una reale rottura "estremistica" con esso, naufragando tuttora nello stagno prepolitico del "sindacalismo duro" o approdando a quello, peggiore ancora, del neo-sperimentalismo tipo "sinistra di Rifondazione", Confederazione degli sfigati o gruppettame residuale vario -vedi il precedente numero del giornale-: non siamo al nuovo, ma all’esaurirsi della coda del vecchio, ma già questo è un segno delle buriane a venire). Al momento opportuno salto ci sarà, ma perché esso si dia utilmente occorre che noi stiamo qui, a predisporne la direzione e non ci venga l’uzzo di saltare da soli (di testa, o fuori di essa) perché è qui che si accumulano tutte le sostanze esplosive che occorrerà saper maneggiare per il futuro.

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È ancora necessaria una "sinistra" o basta l’Ulivo?

La tendenza dalemiana ha dalla sua, rispetto a quella "ulivista" di Veltroni e soci, la coscienza che il conflitto sociale, per quanto lo si voglia rinchiudere entro il quadro del sacro sistema capitalista, non può essere regolato semplicemente attraverso degli escamotage politichesi di unità indifferenziata dell’Ulivo; che lo stesso intento ulivista di pacificazione corporativa della società ha bisogno di una qualche forma specifica di organizzazione della "sinistra", di una propria presa su una specifica base di classe in grado di "dialettizzarsi" con le altre forze, politiche e sociali, dell’Ulivo da posizioni in qualche modo indipendenti. Questa "dialettica" è funzionale alla conservazione del sistema assai più che non il sogno veltroniano di un partito-stato unitario, coi sindacati passivamente al rimorchio, e che essa mantenga la "contraddizione" di un residuo d’indipendenza politica ed organizzativa (non osiamo dire "di classe", ma certamente con una componente differenziata di classe sì) da parte della Cosa Due non rappresenta certamente un difetto, ma (borghesemente) un pregio. Espuntare artificiosamente questa contraddizione varrebbe solo a renderla più incontrollabile all’occorrenza. Prova ne è che proprio questa linea di marcia è servita sin qui ad immobilizzare Rifondazione, e le masse che ci stanno o potrebbero starci minacciosamente dietro qualora la "sinistra" accettasse di sciogliersi in un indistinto liberal ulivista. Al contrario, il reiterato appello dalemiano alla ricomposizione unitaria di tutta la sinistra pesca abbondantemente in queste acque contribuendo ad attutire ed indirizzare come si conviene il conflitto sociale facendosene carico in quanto "sinistra" indipendente. Ciò che un Veltroni pretenderebbe di cancellare sulla carta non lo potrebbe fare nella società, e questo D’Alema perlomeno lo sa. Lo sa anche, sul versante opposto, un Bertinotti che si rifiuta alla man tesa dalemiana perché teme di perdere la privativa della "rappresentanza sociale", ma poi "se ha qualcosa da negoziare preferisce farlo con Prodi piuttosto che con D’Alema" (Corriere cit.), fingendosi l’"unico" veramente a sinistra e, contemporaneamente, favorendo i giochi centristi dell’Ulivo contro il "concorrente" dalemiano. Chi è il più liberal , nella sostanza, tra i due?

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Globalizzazione capitalista, polverizzazione della "sinistra"

A partire da questi presupposti, però, si dà tutta una serie di problemi.

Il terreno su cui la Cosa Due sarà chiamata a misurarsi (e questo varrebbe altrettanto per il Megaulivo onnicomprensivo veltroniano), per forza di cose, non può essere più quello angustamente nazionale, se mai lo è stato. Agire in Italia, con l’uno o l’altro strumento, significa agire a scala europea e mondiale. Chiunque intenda oggi governare l’Italia deve sapere innanzitutto di stare in Europa e di rapportarsi a questo quadro. Occorre quindi una strategia europea, quanto meno, di riferimento. E allora: con quali altre forze europee rapportarsi, e con cui stringere un patto unitario d’azione?

Anche a questo proposito, la prospettiva veltroniana di assunzione degli interessi nazionali dell’"azienda Italia" appare a noi estremamente debole. Sfrondata di tutti gli orpelli, essa sembrerebbe essere quella di uno stare in Europa manovrando una presunta indipendenza nazionale in maniera conflittuale o quanto meno defilata rispetto alla concorrenza ed al prevedibile "strapotere germanico" con un occhio di riguardo verso la partnership americana, prestando alla quale i nostri servigi potremmo esserne positivamente ricambiati. Una posizione in linea con le "gloriose" tradizioni italiote del 25 luglio e dell’8 settembre (curiosamente replicate, su altro versante, col filoamericanismo in meno ed un neo-resistenzialismo antitedesco del tutto extra ed anticlassista, da certe microformazioni "marxiste" da barzelletta). Il referente europeo di "sinistra" più vicino a Veltroni è quel Tony Blair che recentemente ha proposto un "superamento" dell’Internazionale Socialista -troppo chiusa negli angusti confini europei- per "collegarsi" direttamente ai democratici statunitensi; vale a dire per mettersi "autonomamente" a servizio della... sinistra di Washington e del Pentagono. La vicenda irachena ha dato dimostrazione sufficiente di cosa significhi questo "allargamento d’orizzonte mondiale" del neo-laburismo inglese!

D’Alema sembrerebbe, in proposito, meno... badoglista e resistenzial-marine: la causa dell’azienda Italia s’inserisce completamente in quella di un’Europa forte ed indipendente, che certo si guarda bene dal rompere con l’alleato USA sinché c’è una comune mangiatoia a spese terzi a cui concorrere "fraternamente", ma tenendo sempre prioritariamente a faro il complesso degli autonomi interessi europei. (Parliamo sempre di tendenze provvisorie ed al condizionale, perché se una cosa è sicura è che né D’Alema né Veltroni né alcun altro cialtrone dell’Ulivo o dell’opposizione sono oggi in grado di definire una loro stabile prospettiva strategica in fatto di politica internazionale e, diciamolo chiaro, neppure per il cortile nazionale di casa).

In un caso o nell’altro, si tratterà di tenere assieme interessi nazional-capitalisti aggregati ad un blocco imperialista aggressivo sui mercati (e sui campi di battaglia in armi) e la "rappresentanza" dei ceti sociali "popolari", insieme e dietro i padroni del vapore, per riassorbire ogni possibile spazio di conflittualità esplosiva. Una politica "sociale" ed imperialista. Quella che Lenin, per l’appunto, definiva come social-imperialismo. Il problema, per D’Alema, sarà: definito il quadro imperialista entro cui muoversi ed a cui finalizzarsi, occorrerà definire a questa scala un corrispettivo blocco politico "sociale". E qui sta il punto.

Quando D’Alema si richiama ad una "sinistra europea" (quella dell’Internazionale Socialista) si richiama, in effetti, ad un fantasma. La Seconda Internazionale può anche vantarsi di essere stata richiamata in vita dal karakiri della Terza, ma la sua è una vita da zombie. Il 4 agosto del ‘14 ha segnato per essa una linea invalicabile: le attuali "socialdemocrazie" o che altro non sono in grado di darsi neppure per finta una proiezione "internazionalista" di rappresentanza del mondo del lavoro; esse sono individualmente rifluite, ognuna per proprio conto, all’interno dei propri confini nazionali, alla coda (o alla testa, che vale lo stesso) del proprio capitalismo. Quando "ci san fare", esse possono prendersi carico degli interessi del proprio imperialismo, concedendo se del caso le opportune briciole ai propri "rappresentati" del settore sfigato, e condurre, quindi, una politica capital-imperialistica internazionale, ma giammai una politica internazionale, seppure social-sciovinista, in riferimento alle classi lavoratrici europee. Una "concertazione" delle politiche sociali europee tra D’Alema, Schroeder, Blair, Jospin etc. etc. sta nel mondo dei sogni. Per ogni singola socialdemocrazia l’altrui proletariato, così come l’altrui capitalismo, rappresenta unicamente un concorrente da mettere alle corde. Come non può esistere alcun super-imperialismo, così non può esistere alcun super-"social"sciovinismo. Lo stalinismo aveva tentato quest’ultima carta usando spregiudicatamente sino in fondo la carta proletaria, rivoluzionaria, "socialista", e non a caso, e su ciò si è infranto. La "rinata" socialdemocrazia non potrà fare neppure altrettanto. E sempre non a caso: perché, oggi, l’alternativa è tra l’egemonia, all’interno di un blocco, di una determinata potenza imperialista "nazionale" e la risposta antagonista in un sol blocco del proletariato rivoluzionario internazionale.

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Dove sta l’alternativa

Degli euro-"sociali" conseguenti dovrebbero lavorare per consentire alla potenza tedesca di prendere nelle sue mani la guida dell’Europa "unita" per proiettarla verso un’alleanza imperialista con la Russia e possibilmente la Cina in funzione anti-USA e dai proventi di questa politica ricavare i dividendi per (differenziate) misure sociali all’interno dell’Europa. Un boccone difficile, se non impossibile, da trangugiare per delle "sinistre" tanto chiuse entro i propri angusti confini nazionali quanto refrattarie a ogni richiamo internazionalista di classe e, quindi, impotenti sull’uno come sull’altro piano.

Negli ultimi anni c’è stato, invero, un accenno ad una azione comune europea del proletariato a difesa dei propri interessi immediati di classe. Ma è altrettanto vero che le "sinistre" si sono ben guardate dal dare impulso e proporsi come direzione di questo movimento "dal basso". La ragione è semplice: per esse la possibilità di soddisfare a tali esigenze immediate sta in relazione alla competitività internazionale del "sistema Europa", che non lascia troppi margini di avanzamento (anzi, impone nuove discipline e... rinculi). Un vero movimento di classe a scala europea unitaria deprimerebbe la competitività di questo sistema, significherebbe di per sé lotta anticapitalista nel cuore delle metropoli e, in quanto tale, ne rilancerebbe la fiamma alla periferia dell’impero. Per il proletario europeo cosciente, se il fratello di classe coreano, tanto per fare un esempio, si muove vuol dire che anch’io posso e debbo farlo e che tale movimento, nel suo farsi unitario, ridonda a vantaggio di tutta la mia classe contro le leggi del capitale. Per il borghese e le sue "sinistre" è vero il contrario: tu, mio caro proletario, devi inseguire al ribasso il tuo concorrente coreano, altrimenti "siamo" rovinati.

Decida chi può e deve la via da prendere!

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