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Francia-Germania

DISOCCUPATI IN LOTTA:
BILANCIO DEL PRESENTE, LEZIONE DEL FUTURO

Negli ultimi mesi abbiamo assistito in Francia -e parzialmente in Germania- a un inizio di attivizzazione di quel settore di proletariato, i disoccupati, che per obiettive ragioni trova più difficoltà di altri a scendere in lotta e a farlo in maniera organizzata. E’ questo, a maggior ragione, un segnale di quanto la crisi complessiva del capitalismo riserva per il futuro a misura che, avvicinandosi su tutti i piani e in tutti i paesi ad una soglia-limite, non potrà più a lungo aggirare l’esplosività delle contraddizioni e l’inevitabile reazione proletaria. La lotta dei disoccupati francesi non ci dà già, di per sè, la risposta adeguata alla profondità dell’attacco borghese; nondimeno va seguita con attenzione militante perchè, negli aspetti positivi come per le difficoltà e inadeguatezze manifestate, ha lanciato alcuni messaggi rilevanti.

Il movimento inizia a dicembre con l’occupazione, in diverse città francesi, delle sedi dell’ente erogatore dei sussidi di disoccupazione (l’Unédic, cogestito da padronato e sindacati) da parte di gruppi di disoccupati organizzati dalla Cgt, da settori minoritari della Cfdt, nonché da associazioni come Ac (Agir contre le chomage, già attiva nell’organizzazione della marcia europea del lavoro la scorsa primavera) e altri organismi di disoccupati. Partite come azioni dimostrative di richiesta al governo "amico", di "sinistra", le occupazioni hanno via via coagulato intorno a sè e attivizzato, anche con spunti di una certa combattività, la protesta di più ampi settori di proletari senza lavoro o con lavoro "intermittente" (precariato, part-time, lavori cosiddetti atipici, lavoro nero intervallati a periodi di vera e propria disoccupazione), di giovani, studenti, sfrattati. La mobilitazione, certo, non ha mai raggiunto cifre enormi, ma ha avuto comunque una diffusione geografica non limitata ad alcune regioni o città, tanto meno alla sola Parigi, e ha trovato e, anche, saputo suscitare la "simpatia" della gente, cioè di altri settori di lavoratori. Gli stessi obiettivi portati avanti dai diversi comitati - oltre alla richiesta di un bonus di fine anno, l’aumento immediato di 1500 franchi del reddito minimo di inserimento (Rmi) per portarlo al livello dello Smic (il minimo salariale, sempre più diffuso) e la sua estensione ai disoccupati sotto i 25 anni - rimandano al tentativo di coinvolgere la fascia, enormemente ampliatasi, del lavoro precario e sottopagato cui giovani e meno giovani sono costretti tra l’altro proprio dal ricatto della disoccupazione. Emerge la consapevolezza che sussidi risicati, differenziati e sotto continua minaccia di ulteriori restrizioni sono una delle condizioni che servono a mantenere i salari a livelli da fame, e che quindi il miglioramento della condizione dei disoccupati è anche nell’interesse di chi lavora, che per questo può e deve unirsi alla mobilitazione. E’ questo il tenore degli appelli lanciati per le manifestazioni che si sono susseguite a gennaio (v. riquadro) e nulla toglie a questa giustissima "intuizione" il fatto che a ciò non sia seguito il riscontro di una scesa in campo significativa dei lavoratori occupati (uno dei fattori, questo, del mancato rafforzamento del movimento stesso e, quindi, del suo successivo rifluire).

Dal futuro

Da un comunicato degli occupanti del comune di Guingamp una piccola, ma significativa conferma delle "novità" di cui parliamo nell’articolo.

"Noi disoccupati, lavoratori, precari siamo entrati in lotta... per protestare contro un sistema che esclude, umilia, pauperizza una grandissima parte della popolazione. Quest’ultima è sacrificata sull’altare dei mercati finanziari per il beneficio di pochi che approfittano della disoccupazione di massa per indebolire il mondo del lavoro e così precarizzare l’intera vita della gente. La nostra azione ha lo scopo di denunciare la gestione della povertà e della miseria da parte dei diversi governi che hanno mantenuto e mantengono tuttora questa situazione. Lanciamo l’appello a disoccupati e lavoratori di raggiungerci e sostenere i movimenti di occupazione".

Già solo da questi dati emergono alcuni aspetti di "novità" che hanno caratterizzato questa lotta rispetto a movimenti analoghi del passato e, soprattutto, rispetto al quadro attuale dello scontro di classe. Innanzi tutto, una composizione sociale che anticipa alcune caratteristiche di quella che sarà in futuro la ripresa di classe: insieme al disoccupato classico di lunga durata, si impone sempre più la presenza di figure di lavoratori precari, giovani e non, insieme a donne, sfrattati, studenti in attesa di... disoccupazione, ovvero l’ampio spettro della massa profonda di un proletariato non "garantito" che inizia oggi a mettersi in moto e sempre più vi sarà costretto domani. Lo fa a partire da un singolo aspetto della propria condizione che però per forza di cose richiama il quadro di peggioramento complessivo e di incertezza generalizzata che attraversa le diverse generazioni proletarie e si allarga a buona parte degli stessi ceti medi. Il favore e, di più, il senso di comunanza - anche se non ancora il diretto coinvolgimento - che questa lotta ha suscitato anche in chi un lavoro ce l’ha è espressione di ciò. Altro squarcio sul presente con grosse implicazioni per il futuro: a scendere in campo sono settori poco o nulla sindacalizzati o che comunque sempre meno fanno riferimento alle organizzazioni "ufficiali" del movimento operaio (al più, organizzati in associazioni che appaiono "nuove" e un po’ più combattive, come Ac); il che va insieme con un’attivizzazione in prima persona (per ora di settori limitati) e con la ricerca di un’unità più ampia nella percezione, per quanto confusa, della necessità di una risposta unitaria a processi che toccano tutto il proletariato.

Siamo dunque di fronte a prime reazioni contro la politica di precarizzazione e frammentazione del lavoro che la borghesia sta portando avanti in tutto l’Occidente. In Francia questo inizio di risposta risente in positivo della ripresa di lotte che, nei vari settori, si è avuta a partire dal movimento dell’autunno ’95. Ma non è semplicemente una coincidenza temporale il fatto che i disoccupati, al di là delle differenze, abbiano iniziato a muoversi anche in Germania (con manifestazioni a inizio febbraio in oltre settanta città, organizzate da comitati vicini al sindacato, per protestare contro i tagli continui ai sussidi di disoccupazione e contro il governo Kohl: è prevista una serie di appuntamenti a cadenza mensile con manifestazione nazionale a settembre prima delle elezioni politiche) e in Italia (v. in altra parte del giornale). Certo, non si può parlare neanche lontanamente di un movimento di lotta unitario a scala europea, o anche solo di lotte che consapevolmente fanno riferimento l’una all’altra. Ciò non toglie nulla però alla loro importanza, se lette nella giusta luce. Al di là degli scarsi risultati immediati, infatti, esse segnalano che la scesa in campo diretta del proletariato, la sua unità di lotta e di organizzazione è urgente e non più rinviabile se si vuole stoppare la balcanizzazione della classe e invertire la tendenza alla disgregazione del suo tessuto. Segnalano inoltre l’enorme potenziale a disposizione per questa battaglia, ampliato dall’esercito di senza lavoro e di working poors, indigeni e immigrati, che il capitale inesorabilmente "mette a disposizione" nella sua spinta a piegare la produttività crescente del lavoro sociale al diktat del profitto (producendo sempre di più con sempre meno operai e al tempo stesso trascinando nel vortice dell’accumulazione masse sempre più vaste di "senza riserva"). Ciò che fa della crescita della disoccupazione e della sottoccupazione una linea obbligata del capitalismo, accentuata dalla sua crisi generale, che non può trovare soluzione all’interno di questo sistema sociale.

Insufficienze e illusioni rétro

L’attenzione militante dei comunisti e delle avanguardie non può limitarsi a fare da semplice megafono di queste lotte, saltando sopra le insufficienze e le illusioni ancora largamente presenti. Non per spocchiosità; al contrario, proprio per non sprecare il potenziale di lotta e lavorare effettivamente a quell’unificazione del proletariato che l’oggettività dell’offensiva capitalistica e la spontaneità dei movimenti richiamano oramai con forza, ma che da sè non possono e non potranno mai dare. Per questo non possiamo nascondere il fatto che, insieme al "nuovo", è ancora forte - e, al momento, prevalente su quella opposta - la spinta a guardare e a rispondere all’offensiva borghese con la testa rivolta all’indietro, alla ricerca di soluzioni "vecchie" proprie di un’altra fase dello scontro di classe, oggi morta e sepolta.

Dal passato

La Lettera aperta al Primo Ministro di cui qui riportiamo alcuni passaggi ci dà l’idea di quanto siano forti le ombre del passato che si proiettano sul presente.

"... Da più di un mese, migliaia di noi, disoccupati, ci siamo alzati per affermare con forza la nostra volontà di cambiare profondamente le condizioni della nostra vita... Lei è il Primo Ministro di una Sinistra plurale, e ne è fiero... Aspettiamo che lei prenda le decisioni che si impongono. Nessuno potrebbe capire che in questo paese, quarta potenza economica mondiale, milioni di noi stanno sull’altra sponda della strada. Scombussolerebbe gli equilibri se lei attribuisse l’aumento di 1500 franchi dei minimi sociali?... Lei può decidere che la sinistra in questo paese è quella che sceglie la popolazione contro la dittatura dei mercati" (firmato: Mncp, Comités de chomeurs Cgt, Ac!).

Va sicuramente considerato un merito dei disoccupati francesi l’esser scesi in campo pur in presenza del governo "amico" senza fermarsi di fronte al ricatto - non importa se e quanto esplicitato - di "fare il gioco della destra". Ma ciò, purtroppo, non significa affatto che si siano dislocati oltre quelle aspettative (= illusioni) verso Jospin che buona parte del proletariato a tutt’oggi nutre (mentre, al contempo, cresce nella massa la disaffezione nei confronti di tutto il quadro politico parlamentare che i dati anche recenti sulla diffusa astensione elettorale riflettono). Anzi, potremmo con altrettanta ragione dire che questa lotta è partita anche grazie al governo di "sinistra", in questo preciso senso: i partecipanti si sono sentiti "legittimati" proprio dalla "sinistra al governo" a rivendicare che essa tenga fede a ciò che - illudendosi - credono essere il suo impegno contro l’"esclusione sociale". Certo, queste promesse bisogna ricordargliele con una presenza attiva in piazza, ma sempre solo per richiamare il governo al suo "dovere", mai per impostare una lotta contro di esso e il suo programma di piena subordinazione alle necessità del capitale (v. nel riquadro la lettera aperta). E’ questa la ragione per cui - fatto un primo tentativo da parte di Jospin di blandire il movimento con concessioni irrisorie volte a dividerlo e bloccarlo - quando il governo ha detto chiaro e tondo che per i disoccupati non ce n’è (accusandoli di "assistenzialismo") pena la messa a rischio del risanamento delle finanze e dunque della competitività del paese, il movimento non è stato in grado di fare il salto necessario per continuare e rafforzare la mobilitazione, possibile solo a patto di dismettere le illusioni nutrite verso questo quadro politico.

Su questa incapacità hanno giocato in misura rilevante le responsabilità delle forze politiche e sindacali alla testa della lotta. La Cgt (Pcf), che fin dall’inizio ha cercato di deviarla nel vicolo cieco della "pressione" sull’esecutivo atta a raddrizzarne, al massimo, le "insufficienze" (e come potrebbe essere diversamente visto che il Pcf ne è parte integrante e, quand’anche ne fosse fuori, mai metterebbe in discussione le compatibilità del sistema capitalistico?), dichiarava di fronte al muro del governo che questo "non ha ancora il coraggio di prendere decisioni significative" (!); cercava poi di incanalare la delusione dei disoccupati verso la "mobilitazione per la legge delle 35 ore" (che, così come impostata, non rappresenta una lotta efficace alla disoccupazione, ma apre solo all’ulteriore flessibilizzazione del lavoro). Gli organismi più "duri" denunciavano: "Noi vogliamo il successo del governo di sinistra, ma questo poi deve fare una politica di sinistra e ascoltare i movimenti sociali" (dal manifesto del 21-I).

Ma non si tratta di un semplice rivestimento fatto calare dall’alto sul movimento. Le attese nei confronti di Jospin sottendono l’illusione, radicata in chi è sceso in lotta, della possibilità di un rilancio del welfare attraverso il ritorno alla fase del compromesso capitale-lavoro, con i suoi margini di conquiste sociali compatibili con il mercato da richiedere - anche conflittualmente, certo - allo stato, dentro il quadro politico attuale. Sottendono la micidiale illusione dell’esistenza di un interesse sociale generale (non di classe) da far valere contro il "neoliberismo" (non il capitalismo in quanto tale) e rispetto al quale commisurare anche le "insufficienze" del governo "amico". Così - e anche qui non si tratta di una parola d’ordine appiccicata al movimento dal di fuori - si rivendica il "reddito di cittadinanza" pensando, al fondo, che il diritto a un’esistenza degna di questo nome sia nell’interesse di "tutta" la società, che lo stato di "tutti" non può non riconoscere a evitare la rottura del patto sociale. Con questo attrezzaggio, del tutto inadeguato al livello dello scontro e obiettivamente smobilitante, è gioco forza che l’iniziativa sia scemata, non essendo riuscita (non per responsabilità esclusivamente e neanche principalmente proprie, visto lo stato generale del proletariato e i buoni servigi della "sinistra") a creare un’unità fattiva di lotta con gli occupati e con il proletariato immigrato (che pure in Francia ha dimostrato in tempi recenti una sua vivacità). Su quest’ultimo punto, e in genere rispetto alle masse sfruttate del Sud del mondo, il ritardo è ancora maggiore e rappresenta un pericolo notevolissimo, se è vero che la borghesia gioca la carta sciovinista della contrapposizione con i "barbari" per meglio schiacciare gli sfruttati fuori e dentro i confini del "civile" Occidente.

Un bilancio serio di questa lotta, dunque, richiama con decisione una necessità e un compito essenziale: contrastare e battere nel proletariato le illusioni riformiste perché esso possa liberarsi di quelle direzioni di "sinistra" - quand’anche più "dure" - che inevitabilmente condannano le sue lotte alla sconfitta. Solo a questa condizione sarà possibile superare in avanti lo scotto delle delusioni prodotte dal riformismo, evitando che i suoi frutti vengano invece raccolti da quella "nuova" destra che il capitalismo sta fucinando tra i miasmi della sua crisi.

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