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REALI TERMINI E LE REALI CAUSE
DELLA CRISI RUSSA

Indice

La crisi monetaria e borsistica che ha colpito in agosto la Russia ha dato la stura ad un nuovo round dell’interminabile campagna di disinformazione su quel paese. Una campagna di menzogne che, demenza costituzionale del 99% dei "cremlinologi" e dei "grandi conoscitori" della Russia a parte, ha una sua precisa logica sciovinista ed anti-proletaria. La Russia sarebbe dunque allo sfacelo totale, alla fame, alla elemosina di massa, sotto il dominio assoluto e combinato della mafia e della vodka. E lo sarebbe non soltanto perché tutto ciò che è esterno all’Occidente è inevitabilmente, "geneticamente" votato al disastro, ma perché essa paga e pagherà per un tempo indefinito, se non infinito, le conseguenze di "quel frutto avvelenato della storia russa e di quel vero e proprio scempio sociale" che sarebbe stato il "comunismo sovietico" (Galli della Loggia). Ergo: la salvezza per la Russia non può che venire da Occidente, col proseguimento di quella cura "liberalizzatrice" che le è già stata opportunamente prescritta da anni, a base di riforme volte a impiantarvi l’economia di mercato integrale ed a cancellarvi anche la più minuscola traccia di quel "passato che non passa". Ergo: proletari, tenetevelo stretto stretto il "modello" capitalistico occidentale, pur con le sue imperfezioni e i suoi sacrifici, perché al di fuori di esso c’è solo rovine.

La realtà dei fatti è alquanto diversa (e la conclusione da trarne semplicemente opposta). Nonostante tutto la Russia non è in sfacelo. E l’ultima sua crisi, lungi dal potersi spiegare con i soli fattori interni, è parte integrante del crescente ingarbugliarsi delle contraddizioni esplosive del capitalismo mondiale che si è riflesso, e si riflette, moltiplicandole, sulle difficoltà della perestrojka eltziniana. Questa, a sua volta, nulla ha a che fare col ritorno dal "comunismo sovietico" al capitalismo, contrassegna bensì il trapasso da un capitalismo regolato da un "sistema amministrativo di comando" a un capitalismo più liberalizzato, integrato in un mercato mondiale sempre più caotico che preannuncia tempeste non solo ai proletari russi, ma a quelli di tutto il mondo (Occidente ben incluso). Procediamo con ordine.

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L’economia russa non è allo sfascio.

Anzitutto: è falso che l’economia russa sia allo sfacelo. Gli indici di caduta del prodotto interno lordo non possono essere assunti come validi indicatori del suo stato di salute perché sono commisurati all’economia ufficiale, al "tassabile", là dove invece si è venuto a formare tutto un giro vorticoso di attività produttive che sfuggono al fisco, per lo meno a quello centrale, per pagare poi, magari, le tasse, come "pizzo", a poteri non ufficiali, o "privati" o locali. Le stime russe, od anche quelle estere, attribuiscono alla "economia sommersa" circa il 50% del valore produttivo globale e questo valore sfugge alle statistiche elaborate sulla esclusiva base dell’emerso.

Se sono scarsamente utilizzabili gli indici ufficiali, mille indizi tratti dall’attualità (e il non dimenticare che lo stalinismo vi ha costruito un colosso capitalistico fondato su "basi strutturali moderne") ci inducono a pensare che l’economia della Russia, sia pur con i grossi problemi che vedremo, non sta affatto per liquefarsi. Non proprio ultimo tra tali indizi è che, a parte casi macroscopici di un arretramento drammatico nelle condizioni di vita di settori proletari, non siamo a quella paventata disoccupazione di massa che, stando agli astratti standard ottimali dell’efficienza capitalistica liberal-selvaggia, avrebbe dovuto colpire la metà della forza-lavoro. Vediamo invece che, dove si lotta, si lotta per il salario, insufficiente o non pagato a tempo, non per il posto di lavoro. Per lo meno, lo ripetiamo, alla scala dei grandi numeri: le sole stime ufficiali disponibili della disoccupazione la danno al 9,3%, che è un livello inferiore a quello medio europeo.

Ciò non toglie che la perestrojka eltziniana (o già, in certo grado, post-eltziniana) sia alle prese con una serie di nodi da sciogliere: i più acuti tra essi sono, all’oggi, l’ipertrofia della speculazione finanziaria e un’insufficiente centralizzazione reale che è evidente nel prender piede di una sorta di federalismo selvaggio.

Cominciando dal primo aspetto, c’è da dire che per tutta una prima fase, la ristrutturazione è avvenuta sotto la forma di accaparramento della proprietà "sociale" da parte di pescecani privati (in genere membri della precedente alta "burocrazia"); un accaparramento attuato con un pugno di rubli, più attraverso il gioco della rendita di posizione politica che con la messa in circolo di un capitale effettivo. Ciò, invece di dare impulso ad una reale efficienza produttiva, ha aperto la strada a una serie di spericolate operazioni di speculazione finanziaria. Il settore produttivo più penalizzato, in tal senso, è stato quello agrario, nodo centrale tuttora irrisolto, non a caso refrattario a una vera "riforma" in senso pienamente capitalistico (che sarebbe un passo avanti rispetto alla precedente fase colco-sovkoziana).

La frenetica "economia di carta" che ne è nata si è andata popolando in modo sempre più incontrollato di nuovi soggetti privati. Dal 1989 sono sorte almeno 2.000 banche, di cui 500 nella sola Mosca (il via a questa proliferazione fu dato da una delibera gorbacioviana che accordava alle cooperative il permesso di costituire proprie banche commerciali e di intraprendere transazioni con imprese straniere). Sono esplose le attività di intermediazione finanziaria, talvolta intrecciate con le attività commerciali (ad esempio, ci sono imprese che acquistano il petrolio grezzo in rubli sul mercato interno, e lo rivendono all’estero a cinque-dieci volte il prezzo di acquisto, facendosi pagare in monete occidentali), talvolta in forma "pura" (compravendita di monete, di titoli di stato interni ed esteri, etc.). E’ sorta inoltre una vera borsa, ancorché sia dominata, si dice, da pochi grandi gruppi (ma quale borsa non lo è?) e ne restino fuori le 14.000 medie imprese sorte nel decennio (non succede pure in quel di Milano?). E non c’è dubbio che la tendenza a un’eccessiva espansione delle attività finanziarie e della connessa speculazione sia stata rafforzata dalle misure politiche più liberiste, e da una strisciante dollarizzazione dell’economia nello stesso campo dei consumi individuali (fino al gennaio del ’98, prima che un decreto di Eltsin lo vietasse, nei negozi russi si poteva pagare in valuta estera...).

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Necessità di un giro di vite centralizzatore (e anti-speculazione)

Quest’insieme di attività parassitanti sulla produzione di beni e di servizi rappresenta (non da oggi) un problema da affrontare e da "risolvere" per le forze che puntano a rafforzare la competitività del capitalismo russo, anche perché costitutisce l’"area" della economia russa più esposta alla contaminazione ed alla sottomissione all’Occidente. Prima ancora che esplodesse la crisi di agosto, lo stesso Elsin (tra alti e bassi) dimostrava di essersi convinto che occorresse prendere misure drastiche per rilanciare l’economia reale incentrandola intorno ad un potere statale forte (uno stato-agente del capitale collettivo, nazionale), tagliando per converso i facili giochi finanziari super-esposti ad Occidente, e riaccentrando un’economia nazionale sparsa, al momento, per troppi rivoli "autonomi".

E’ da questo versante, infatti, che viene una seconda grave minaccia ad un avanzamento (relativamente) "ordinato" del processo di ristrutturazione. Il quadro economico attuale si presenta molto più frammentato e squilibrato di quello passato, e va squilibrandosi spontaneamente sempre di più, a livello territoriale e settoriale, proprio a misura che si lascia agire le leggi di mercato con sempre meno controlli e contrappesi.

Il n. 91-92 di Business in Russia dell’agosto-settembre ’98 fornisce molti elementi a questo proposito, specie per quel che riguarda gli squilibri territoriali, presentandoci le realizzazioni e i progetti delle città e delle regioni più dinamiche. Apprendiamo così che San Pietroburgo è lanciata all’inseguimento della città-faro Mosca, che gli investimenti esteri per la produzione vi sono in netta crescita, che salari e pensioni vi sono regolarmente pagati (il gen. Lebed si vanta che così avvenga anche nel suo governatorato di Krasnoyarsk), che è in atto la totale riorganizzazione dei servizi urbani, ch’è in via di progettazione, d’intesa con Mosca, la linea ferroviaria ad alta velocità tra le due città, che vi è un qualche attrito tra San Pietroburgo e il suo oblast’ perché questo, con bilancio in passivo, vorrebbe, par di capire, esser finanziato dall’amministrazione della città. Apprendiamo, poi, che la repubblica della Carelia, al confine con la Finlandia, che esporta il 45% del suo fatturato industriale, è già proiettata al di là degli attuali confini della Russia verso la creazione di una "nuova euro-regione" con le zone orientali della Finlandia (e si sa, per contro, che al capo opposto le regioni della Siberia orientale stanno infittendo al massimo le loro relazioni con la Cina a discapito di quelle col resto della Russia). Apprendiamo ancora che la regione di Perm negli Urali, una delle più fortemente industrializzate, e tra le prime a fare le riforme economiche (oltre che tra le poche a conferire allo stato centrale più di quanto lo stato le conferisca), ha rinunciato a porre qualsiasi impedimento agli investimenti di imprese di Mosca e all’attività delle banche moscovite, a differenza di altre regioni evidentemente più chiuse e "protezioniste", più riottose a lasciarsi guidare da Mosca ed, allo stato, pienamente libere di esserlo, così come lo sono, in una certa misura, di intervenire sui prezzi, a cominciare da quelli dei generi di prima necessità, sugli investimenti esteri, etc.

Ne esce, nell’insieme, un quadro assai più dinamico di quanto si voglia far credere qui in Occidente, ma anche una economia (e delle istituzioni) a crescente rischio di slabbrarsi, proprio in relazione al crescere del dinamismo delle aree forti, e per contro del ritardo di quelle più sfavorite e dei settori produttivi meno appetibili (si tratta, né più, né meno, del riflesso russo della esasperazione concorrenziale che caratterizza l’intero capitalismo mondiale). Ed è una situazione che è emersa anche a livello politico nelle elezioni del 1996 quando si notò una notevole differenziazione del voto tra Sud e Centro del paese, tra le regioni che sovvenzionano lo stato e quelle che sono dallo stato sovvenzionate, tra le regioni agricole e quelle maggiormente industrializzate, tra le grandi città e le città minori. Lo stesso PCR, il più importante dei partiti della Duma, ci appare dalle parole del suo dirigente Potapov riportate nella pagina a fianco, come una federazione di interessi locali, coalizzati tra loro fintantoché si ha da contrastare Eltsin, ma non per questo fusi tra loro, ché anzi disponibili a farsi vicendevolmente le scarpe.

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L’affondo del FMI e la crisi del rublo

La necessità di mettere un deciso freno sia all’avventurosa economia "di carta" e allo sregolato federalismo centrifugo di cui s’è detto, sia alla espansione della "economia ombra", è presente, da un po’, trasversalmente, a molti esponenti della "classe politica" russa, inclusi settori schierati (ideologicamente) su posizioni liberiste. Tra i più consapevoli della chiara valenza anti-occidentale di una simile "rettifica" è stato, ancora una volta, Eltsin, che non a caso due anni e mezzo fa provvide a sostituire agli esteri Kozyrev (l’uomo "che aveva abituato male gli occidentali, dicendo di sì a tutte le loro richieste anche quando non erano state ancora formulate", La stampa 11 settembre ’98) con un Primakov, fautore del riorientamento della politica estera della Russia in direzione della Cina, dell’Asia e del mondo arabo-islamico.

Ma non si può certo dire che il rafforzamento del potere centrale in Russia, di quello della banca centrale nei confronti della pletora di banche e finanziarie d’assalto, e di quello del governo centrale nei confronti dell’autonomismo sempre più spinto della costellazione dei poteri locali, coincida con gli interessi e i desiderata occidentali. Tutt’altro. L’Occidente finora ha tentato in ogni modo di approfittare delle mille difficoltà della perestrojka per colonizzare a costo zero l’economia russa, impulsando "riforme" rivolte alla mera svendita dell’apparato produttivo russo sulla base di semplici giochi finanziari a costo zero.

Come ha documentato Chossudovsky (in The Globalization of Poverty), il FMI, la vera e propria punta di lancia di questa politica neo-colonizzatrice per conto degli USA, ha fatto tutto quanto era in suo potere, tanto attraverso le condizioni esplicite apposte ai suoi prestiti quanto attraverso i "consigli" elargiti alle autorità di Mosca, per indebolire la Russia, e impedirle di portare a termine la riorganizzazione competitiva del proprio apparato produttivo. Nessun tipo di protezione accordata all’industria nazionale e una pressione ininterrotta per congelare i crediti occidentali legati all’acquisto di macchinari in modo da spezzare le gambe innanzitutto ai rami dell’industria russa a più alto livello tecnologico. Drastico taglio del potere d’acquisto delle masse lavoratrici, con la conseguente contrazione del mercato interno russo e la necessità per le imprese più dinamiche di orientarsi crescentemente verso il mercato estero e così dipendere sempre più da esso. Per contro, facilitazioni di ogni genere all’ingresso delle multinazionali occidentali nel mercato russo, ed in particolare a quelle tra esse (Lockheed, Boeing, AT&T, etc.) più interessate a colpire i propri diretti concorrenti russi. Rafforzamento della autonomia fiscale di repubbliche ed enti locali, accollando per converso ad un governo centrale dal potere fiscale sempre più limitato ed incerto (viste le dimensioni del sommerso) l’integrale onere del rimborso del debito estero. Indebolimento programmatico dell’"area del rublo", con l’obiettivo di far saltare in aria la CSI e, al limite, la stessa repubblica federativa russa. Infine per quel che riguarda in modo specifico il debito, la terapia del FMI ha avuto di mira non solo l’inasprimento delle condizioni collegate a esso, ma il suo continuo allargamento, onde provocare una sorta di "paralisi" nell’economia russa, accentuandone la dipendenza dai crediti e dai creditori esteri.

La Russia ha fatto una crescente resistenza a tutto ciò, assai prima dell’ultima crisi. E però questa resistenza, che ha trovato una sponda in Occidente soltanto nella Germania, l’unico paese che si sia impegnato in qualche misura nella "cooperazione produttiva" (se così la si può chiamare) con la Russia, ha sollecitato le contro-reazioni del FMI e di Washington, con i relativi costi accollati sia alla Germania, esplicitamente accusata di aver fatto fallire i piani di "salvataggio" del FMI che, ancor più, all’economia e alla società (in primis alle classi lavoratrici) russe.

L’esplosione della crisi di agosto è dovuta appunto all’attrito sempre più forte tra l’esigenza "russo-centrica" di una maggiore centralizzazione economico-politica, di un maggior controllo statale sulla moneta circolante e sui movimenti di capitale, sui flussi produttivi e sui giochi finanziari, e la contro-esigenza del capitale finanziario ultra-centralizzato (in modo anarchico) che è dominante sui mercati mondiali, di ingerirsi ancor più in profondità nella vita economica e politica della Russia per funzionalizzarla in modo più stringente alle necessità dell’Occidente creditore.

Per intenderci nel "concreto": la svalutazione del rublo era, senza dubbio, una necessità per le stesse autorità russe, in quanto mezzo per prosciugare la massa di denaro parassitario venutasi a creare e ad accumularsi in modo artificiale, senza ricadute positive, o in contrasto, con l’economia reale. Altrettanto inevitabile era colpire la massa di risparmio della popolazione destinata alla "auto-valorizzazione" (il denaro che cresce su se stesso). Ma è evidente che era nell’interesse delle autorità russe che la svalorizzazione della massa di rubli circolante non fosse talmente violenta da porre in crisi le fondamenta stesse dell’accumulazione per esaurimento delle fonti, dovendo anzi servire a riacquistare competitività da un lato e, dall’altro, a concentrare e centralizzare capitali reali. La banda di oscillazione prevista inizialmente dallo stesso governo Kirienko (6-9 rubli per un dollaro) può dare l’idea, appunto, di una svalutazione controllata nel senso su indicato.

Ma la svalutazione del rublo ha seguito invece un corso catastrofico arrivando in pochi giorni fino a quota 30 e oltre, e trascinando con sé la borsa di Mosca. La spontaneità di mercati assatanati di profitti ci ha messo del suo, ma bisogna dare al FMI, ai Soros, alla Standard&Poor e simili (ed ai poteri politici con essi intrecciati) quello che loro spetta di diritto: l’avere fatto tutto il possibile per amplificare la crisi russa, e farne passare la gestione da Mosca a Wall Street. La situazione deve essere parsa loro particolarmente favorevole per il concorso di tre circostanze: l’essere in sella a Mosca un governo più arrendevole dei precedenti (basti pensare che, partito da una richiesta di 2 miliardi di $ al FMI, se n’era fatti appioppare, non come regalo ma come nodo scorsoio!, 14); le aumentate difficoltà di pagamento del debito estero dovute al crollo del prezzo del petrolio; e lo stato di turbolenza dei mercati borsistici e monetari in Asia (e oltre).

L’affondo può anche avere prodotto risultati eccedenti i "piani" di partenza (gli stessi USA, che stanno dietro il FMI, pur intendendo colpire la Russia, sanno di non poterlo fare oltre un certo punto critico perché ne avrebbero immediate ricadute al proprio stesso interno, rimettendo in moto forzatamente un poderoso schieramento sociale e politico anti-imperialista sin nel cuore dell’Europa; è la medesima contraddizione di fronte a cui si trovano in Asia, lambendo per ora, la Cina). E tuttavia le ricette salvifiche formulate da FMI e grande stampa yankee nel momento più drammatico della crisi russa non lasciano il minimo dubbio sugli obiettivi di costoro. Puntavano, nientemeno, ad espropriare la banca centrale russa del controllo della moneta russa affidandolo, secondo il "modello argentino", a un currency board misto, russo-internazionale, nel quale avrebbero ovviamente comandato i creditori. E puntavano, altresì, a spalancare i settori strategici di petrolio e gas allo shopping americano:

"Mentre è in bilico sull’orlo dell’abisso, Mosca deve fare largo alla proprietà straniera in questo importante settore e dimostrare al mondo che ha finalmente scelto il capitalismo" (così i lupi mannari della Washington Post del 3.9.98). Senza dire che erano già pronte "favorevolissime" proposte per trasformare quote del debito estero russo in swaps, in pacchetti azionari delle società russe operanti nelle produzioni strategiche.

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Primakov, ovvero il (provvisorio) compromesso social- nazionale

Mosca ha per ora parato e sostanzialmente respinto l’affondo, confermando la nostra convinzione circa la solida refrattarietà della Russia a farsi trasformare in una vera e propria colonia occidentale e la sua capacità-potenzialità di resistere in modo sempre più centralizzato all’assalto da Occidente. Eltsin e la Duma sono riusciti a trovare una pacifica soluzione di compromesso alla grave crisi economico-politica, a differenza di quel che accadde nell’autunno del ’93, quando a regolare i contrasti inter-borghesi dovettero intervenire i carri armati (segno di una accresciuta maturità della sua classe dirigente borghese e di una maggiore consapevolezza "generale" delle necessità del capitalismo nazionale). Quanto alla stabilità (o meno) dell’intesa raggiunta, sarà il tempo a confermare -o fugare- la sensazione del momento che essa possa durare più dello spazio di un mattino.

Significa l’avvento di Primakov alla guida del governo quel ritorno "all’indietro", al "comunismo sovietico", così tanto paventato dai bavosi scagnozzi del capitale alla Galli della Loggia? Neanche a parlarne. "Indietro non si torna", ha subito affermato il nuovo premier, ad uso interno non meno che esterno. Ed è così: indietro al pre-Gorbaciov (lasciamo stare, per favore, il comunismo), e neppure al pre-Eltsin, è impossibile tornare. "Procederemo nelle riforme economiche e politiche avviate, ma con maggiore gradualità; metteremo gli interessi nazionali al loro giusto posto; riattiveremo l’intervento dello stato nell’economia, ispirandoci a Keynes; faremo sì che il sistema finanziario e creditizio creato in questi anni sia usato ai fini dello sviluppo interno e dell’industria". Benché al momento non si abbia a disposizione altro che questi intendimenti di carattere generale, la linea di marcia è sufficientemente chiara, e sembra rispondere all’esigenza di un giro di vite centralizzatore. La Russia ripiega, per dir così, provvisoriamente, sul proprio mercato interno, ma tale "ripiegamento" non ha nulla, a parte la sua forma apparente, dei precedenti aspetti autarchici, perché le sorti della Russia si sono ormai definitivamente integrate a quelle dei mercati mondiali. Questa nuova "rettifica" del corso della perestrojka russa (che non sarà l’ultima, né per quel che riguarda l’economia, né per quel che riguarda la politica) rappresenta soltanto un episodio dello scontro inter-capitalistico a scala mondiale, e dei complessivi rivolgimenti sociali e politici che esso contiene.

La formazione del governo Primakov è frutto anche di un compromesso sociale (non solo nazionale). Il proletariato non ha svolto un ruolo da protagonista in questo frangente; basterebbe a provarlo il fatto che il suo sindacato più rappresentativo, la Federazione dei sindacati indipendenti, per tutto il corso delle crisi non è stato capace di alcuna iniziativa per rendere più tangibile anche solo una presenza in piazza con un carattere di pressione, prendendosi circa tre mesi (!) di tempo per organizzare lo sciopero generale (o per revocarlo). Nondimeno, la contraddizione di classe non solo resta completamente aperta, ma è destinata in tutti i casi ad acutizzarsi. E’ ben per questo che tra le prime mosse di Primakov c’è stata l’assicurazione che salari e stipendi arretrati verranno pagati (con rubli emessi ad hoc), ciò che, insieme alla garanzia del rilancio prioritario dell’industria nazionale (altra richiesta del sindacato), rappresenta il tentativo di prevenire l’entrata in campo da vero protagonista della massa del proletariato, la radicalizzazione e l’unificazione di un conflitto di classe che è al momento molto frammentato e di bassa intensità.

Ma anche su questo versante la soluzione di compromesso Primakov non potrà non essere provvisoria. Perché, ammesso pure che possa esserci una risalita del capitalismo russo nel contesto di una relativa tenuta dell’economia mondiale, non ci potrà essere, invece, una vera e corrispondente ripresa delle condizioni del proletariato. E se poi i così precari equilibri internazionali dovessero ricevere nuove scosse telluriche, che immancabilmente si comunicherebbero al suolo russo...

In prospettiva, in Russia e nel mondo, c’è la crescita esponenziale dell’antagonismo tra capitale e lavoro, non certo la pacificazione sociale.

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