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A proposito di astensionismo

A novembre si sono svolte le elezioni per le Rsu del pubblico impiego. Si è votato in tutti i comparti (autonomie locali, aziende, sanità, ministeri, parastato) a esclusione delle scuole. La partecipazione al voto è stata, ovunque, molto alta. Se si considera il normale livello di assenze (ferie, malattie, maternità, ecc.) si può dire che è stata quasi totale, tranne, forse, che nella sanità. Tutt’altra cosa rispetto ai livelli d’astensionismo delle recenti elezioni amministrative. La cosa non è senza significato. Si partecipa sempre meno, e sempre più stancamente, quando si è chiamati a scegliere tra politiche avvertite sempre più distanti dai problemi reali, sempre meno capaci di risolverli davvero o di prospettare soluzioni credibili, e, quindi, sempre meno coinvolgenti e mobilitanti. Viceversa, si partecipa in massa allo stesso rito elettorale quando si ha la sensazione che esso serva a dare strumenti reali di espressione a istanze proprie, e strumenti che appaiono come direttamente controllabili con il voto, e oltre il voto.

Questo valore è riscontrabile al di là del contenuto politico di queste elezioni. Per analizzare questo in profondità bisognerebbe esaminare la situazione nei vari comparti (e ci torneremo su), ma, in linea di massima, non v’è dubbio che i lavoratori pubblici hanno, con il voto, confermato la fiducia ai sindacati su di una base essenzialmente corporativa, di difesa dei propri interessi non in quanto lavoratori (e, quindi, assieme a tutti gli altri lavoratori), ma in quanto "lavoratori pubblici". Ciò è vero sia nel voto ai confederali, quanto nello (scarso) voto a quelli "autonomi" tradizionali (per lo più partoriti all’interno delle varie categorie, spesso con l’aiuto delle stesse dirigenze amministrative), che nel voto (scarsissimo) ai nuovi sindacati autonomi, nati da una critica da "sinistra" alle confederazioni, e finiti con il diventare, spesso, più corporativi ancora di quelle. Lo stesso successo della Cgil s’inserisce in un quadro di montante corporativizzazione di questo sindacato nel settore; non è certo il voto dato a un sindacato che si distingue (come, una volta, pure avveniva… anche se mai da un punto di vista coerentemente di classe) per denunciare almeno i privilegi parassitari che tuttora si annidano nelle varie categorie, ma, anzi, assume il segno di un voto dato al sindacato che appare, in certa misura, come quello più vicino agli attuali tenutari del potere politico e governativo.

A cosa è, dunque, dovuta quest’alta partecipazione (analoga, peraltro, a quella per le Rsu nelle fabbriche)? Non è una questione di federalismo, nel senso che si sente come lontano un governo centrale di cui non si percepisce la possibilità di poterne davvero controllare le scelte, mentre si esprime il voto per strutture "più vicine", e territorialmente "più omogenee", su cui esercitare teoricamente maggiore influenza e controllo. No, qui il confronto è esattamente tra "strutture" entrambe "vicine"; le une sono i governi locali, le altre sono strutture di contrattazione sindacale sul posto di lavoro.

La questione non è, dunque, di organizzazione, di forme della democrazia, ma essenzialmente politica e di classe: non si è partecipa attivamente con il voto, con la militanza, a una politica vieppiù staccata dalla società. Proprio per questo non va tratta una conseguenza meccanicistica, cioè che la tendenza a partecipare alla lotta politica "nazionale" è destinata a decrescere indefinitamente, mentre quella a partecipare alla lotta politica "vicina" resterà stabile o crescerà in alternativa alla prima. La conseguenza da trarne è tutt’altra: se sorgeranno opzioni politiche in grado di rimobilitare l’interesse, la partecipazione e la militanza, anche l’astensionismo alle elezioni politiche e amministrative potrà facilmente ridursi, così come se le aspettative riposte nell’elezione di organismi tipo Rsu dovessero essere deluse, ne conseguirebbe un crescere dell’astensionismo anche su questo terreno.

Sia ben chiaro che quello dell’astensionismo è, per noi, solo un segnale dell’indebolimento delle capacità di lotta e d’organizzazione di classe da parte del proletariato. Non certo il più importante. E, d’altra parte, se lo prendiamo in considerazione per misurare il grado di disponibilità alla lotta da parte della classe, non ne traiamo la conseguenza di doverci battere per… risollevare i tassi di partecipazione al voto. Al contrario, ne traiamo la conseguenza che bisogna lavorare per far riprendere la militanza e la partecipazione attiva da parte del proletariato in un senso esclusivamente di classe; il che si può dare alla sola condizione che emerga un indirizzo di mobilitazione, un programma, un partito che diano alle istanze di classe una conseguente e decisa impostazione di battaglia. Non per "rivitalizzare" la democrazia, per immettere "sale" rigeneratore nei suoi meccanismi inceppati, ma per poterla definitivamente spazzare via, insieme al sistema sociale e produttivo di cui costituisce lo strumento di dominazione.

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