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Guerra all’Iraq, 1999

E SE GLI ARABO-ISLAMICI RICORRERANNO AL "TERRORISMO"?

Abbiamo davanti il Guardian Weekly del 10 gennaio di quest’anno, che ci è stato passato da un amico (ne vengano molti, procuriamocene molti, di amici che ci aiutino nella raccolta di documentazione utile alla lotta anti-capitalistica). Esso contiene la prima inchiesta compiuta sul campo da un giornale europeo nel sud dell’Iraq (la zona di Bassora) dal 1991, a firma di Maggie o’Kane. Ne emerge un "quadro terrificante", un Day After nucleare di, se così possiamo dire, "bassa intensità". Si, perché gli alleati, per "liberare" il popolo iracheno dalla "dittatura di Saddam", hanno pensato bene d’irrorarlo con un’abbondante razione di uranio. Qualche decina di tonnellate, a dir poco.

Leggiamo insieme. "Durante le cento ore della battaglia terrestre del febbraio 1991, gli aereoplani alleati spararono almeno un milione di proiettili rivestiti di materiale radioattivo noto come uranio impoverito". Un "materiale sconosciuto e finora non testato" su esseri umani, dei cui poteri devastanti le genti dell’Iraq sono state le prime cavie. Essendo il metallo più pesante del mondo, esso ha la capacità di "tagliare i carri armati come la lama di un coltello taglia il burro". Ma è un’altra la sua qualità più "preziosa": "quando i proiettili ricoperti di uranio arricchito colpiscono un bersaglio, esplodono liberando nell’atmosfera milioni di piccole particelle radioattive"…

I primi effetti di questo nobile esperimento su carni arabe compiuto (con la benedizione dell’ONU) dagli Stati imperialisti occidentali, si stanno cominciando a vedere soprattutto sui bambini iracheni. Il numero dei bambini "che nascono con deformità congenite che minano il loro fisico è cresciuto vertiginosamente". Sempre più spesso nascono bambini senza cervello, o senza testa. Bambini con teste giganti. Bambini con braccia corte e tozze "come quelli vittime del talidomide". Con mani a due dita, invece che a cinque. Creature dai cuori senza valvole. Creature senza orecchie. Ci sono "interi villaggi in cui i bambini di diverse famiglie stanno nascendo ciechi, o con difetti congeniti al cuore o ai polmoni". Ci sono donne di vent’anni che generano bimbi affetti da mongolismo. Un numero abnorme di piccoli nasce con la sindrome di Down. Ed in tutti i casi, i difetti sono congeniti.

"Non è altro che l’inizio", dice un pediatra iracheno,. Perché di sicuro "qualcosa è accaduto al nostro ambiente". "Non si sa ancora esattamente cosa", se si è trattato di uranio, o di altri materiali chimici; di sicuro, però, "qualcosa è cambiato nel nostro ambiente. Lo vediamo perfino nelle piante e in agricoltura. Zucchine giganti, pomodori enormi; è chiaro che dopo la guerra si è determinata una sorta di trasformazione genetica". Questa enorme semina di radioattività si è già sparsa su un largo raggio spaziale (ammesso e non concesso che bombardamenti nucleari di questo genere non siano avvenuti anche nel resto dell’Iraq) perché le particelle radioattive "possono essere inalate direttamente, e possono inquinare l’acqua che si beve, o entrare nella catena alimentare". Quest’ultima cosa è successa con certezza perché il Sud produce arance, pomodori e altri tipi di frutta per il resto del Paese.

C’è in Iraq, c’informa la cronista, pure un’altra ragione di preoccupazione. È che "la radioattività delle particelle di uranio dura mediamente almeno 4.000 anni". Quattromila anni. Ma non basta. Stiamo sentendo or ora dalla Tv (è il 26 di gennaio) che i lupi mannari della Casa Bianca e del Pentagono hanno disposto nuovi bombardamenti, tanto sul nord quanto sul sud dell’Iraq, anche per testare dei nuovi missili. Non ci si dice cosa contengano i missili. Però, non è escluso che tra dieci anni, se un qualcuno dovesse "per caso" arrischiarsi a fare un’altra inchiesta nel campo…

Se si considera che questa pianificata somministrazione di morte straziantemente lenta e piena di orrori (le metodiche del nazismo, al confronto, erano robette da dilettanti "umanitari") è solo un aspetto delle atrocità della guerra del ’91. Se si considera che i crimini della pace onuista sono, finora, assai più gravi di quelli di guerra. Se si considera che la guerra è tutt’altro che terminata, con il suo corredo di esperimenti nucleari, chimici, biologici, etc. in corpore vili. Se si considera la protervia con cui gli USA rivendicano il proprio diritto a continuare indefinitamente in questo martellamento su un avversario ormai totalmente disarmato. Viene spontaneo chiedersi: come mai gli iracheni, gli arabi, gli islamici, non fanno a pezzi ogni americano, ogni occidentale che gli capita a tiro? Come mai non siamo ancora al "terrorismo" anti imperialista su grande scala? E viene altrettanto spontaneo rispondere: è solo questione di tempo. Quando riesploderà nel mondo islamico la rivolta generale contro le democrazie imperialiste assetate di profitti e di sangue, i mezzi d’azione "terroristici" ne saranno necessariamente parte.

Che faremo allora? Non ci sposteremo di un solo millimetro dalla nostra posizione d’incondizionato sostegno alla lotta di liberazione antimperialista delle masse oppresse dell’Iraq, dell’Islam, di tutto il Terzo Mondo. Perché, comunque sia , esse "restituirebbero" ai propri assassini solo una minimissima frazione della violenza subita (da secoli), e perché la loro violenza non sarebbe, com’è quella imperialista, strumento di sfruttamento e di oppressione, ma sarebbe un mezzo di riscatto dallo sfruttamento e dall’oppressione. Anche se e quando dovesse rivolgersi non, com’è accaduto in Arabia Saudita, in Libano o in Sudan, contro l’esercito o le ambasciate statunitensi ma in modo "indiscriminato" contro gli occidentali in genere, contro gente "che non c’entra nulla".

Poiché le popolazioni dell’Occidente non possono dire, e lo stesso proletariato occidentale non può dire: "io non c’entro", fino a quando continua a rimanere inerte (o peggio a tifare per i "nostri") davanti a questa macellazione di umani "colpevoli" solo di non voler essere "nostri" schiavi. Fino a quando non dimostrerà, fino a quando non dimostreremo come classe, con i fatti, di essere contro la politica di pace e di guerra delle "nostre" classi capitalistiche predatrici. Fino a quando al "morte a Clinton!", al "morte a Blair!" gridato nelle piazze arabe non si risponderà da qui con il grido di guerra "morte all’imperialismo!", nessun atto di ritorsione "terroristica" compiuto da mani arabo-islamiche potrà essere ritenuto eccessivo. Semmai, questo sì, troppo debole ancora.

Non abbiamo sponsorizzato in passato il "terrorismo", né lo facciamo ora. E non certo per la ripulsa della violenza. L’uso della forza, della violenza, del terrore rosso, dei metodi dittatoriali di classe è parte integrante, irrinunciabile della lotta rivoluzionaria per il comunismo. La dominazione del capitale non può essere spezzata in altro e diverso modo. È che l’ideologia, la strategia, la tattica di tipo "terroristico" (pur dovendosi sempre distinguere se ad agire siano stati o popoli) non può raggiungere lo scopo di detronizzare il sistema capitalistico in quanto non è in grado (non se lo propone neppure) di avvicinare, di unire gli sfruttati dell’Islam e del Terzo Mondo con i proletari delle metropoli. Se un Ben Laden dice: "Quelli che rischiano la vita per guadagnarsi il favore di Allah, sono veri uomini. Essi sono riusciti a liberare la nazione islamica dal disonore", lo comprendiamo, come comprendiamo i milioni di arabi della strada (e non solo) che pensano e sentono nello stesso modo.

Ma il nostro programma è un altro. È il programma internazionalista del comunismo, e va al di là di ogni confine nazionale, per sua natura sempre e comunque borghese. Va al di là di ogni obiettivo di liberazione nazionale (pur ripudiando come tradimento di classe ogni forma di indifferentismo verso le lotte delle nazioni oppresse), perché la nostra meta è la liberazione universale della classe proletaria e di tutte le classi sfruttate dal giogo del capitalismo. Più marcerà questa prospettiva, che compendia in sé e fonde tutte le istanze di liberazione che fremono nel mondo d’oggi, più marcerà in particolare qui, nelle terre dove risiedono le grandi centrali del terrorismo capitalistico internazionale, più intenso si avvertirà il bisogno di non dissipare le nostre energie, ma di concentrarle sui bersagli giusti per aprirci la strada, con la forza, al socialismo.

1857: Marx e la resistenza dei cinesi al colonialismo britannico

(….) Oggi, fra i cinesi, regna manifestamente uno stato d’animo ben diverso da quello della guerra 1840/42. Allora il popolo non si mosse: lasciò che i soldati imperiali lottassero contro gli invasori e dopo ogni sconfitta si inchinarono con fatalismo orientale alla volontà superiore del nemico. Ora invece, almeno nei distretti del Sud ai quali il conflitto è rimasto finora limitato, le masse popolari partecipano attivamente, quasi con fanatismo, alla lotta contro lo straniero. Con fredda premeditazione, esse avvelenano in blocco il pane della colonia europea di Hongkong. (Liebig poté stabilire in alcune pagnotte, che gli erano state mandate in esame, la presenza diffusa ed uniforme di grandi quantità di arsenico: segno indubbio che il veleno era già stato lavorato nella pasta. Ma la dose era così potente che agì come ematico, annullandone gli effetti mortali). I cinesi salgono armati sulle navi mercantili, e durante il viaggio massacrano la ciurma e i passeggeri europei. Si impadroniscono dei vascelli. Rapiscono e uccidono qualunque straniero capiti vivo nelle loro grinfie. Perfino i coolies a bordo delle navi di trasporto degli emigranti si ammutinano come per un intesa segreta, lottano per impossessarsi degli scafi, piuttosto che arrendersi, colano a picco con essi o muoiono nelle loro fiamme. Anche i coloni cinesi all’estero – finora i sudditi più umili e remissivi – cospirano e, come a Sarawak, insorgono in brusche rivolte o, come a Singapore, son tenuti in scacco solo da un rigido controllo poliziesco e dalla forza. A questa rivolta generale contro lo straniero ha portato la brigantesca politica del governo di Londra, che le ha imposto il suggello di una guerra di sterminio.
Che cosa può fare un esercito contro un popolo che ricorre a questi mezzi di lotta? Dove, fino a che punto, deve spingersi in territorio nemico? Come può mantenervisi? I trafficanti di civiltà, che sparano a palle infuocate contro città indifese, e aggiungono lo stupro all’assassinio, chiamino pure barbari, atroci, codardi, questi metodi; ma che importa, ai cinesi, se sono gli unici efficaci? Gli inglesi, che li considerano barbari, non possono negar loro il diritto di sfruttare i punti di vantaggio della loro barbarie. Se i rapimenti, le sorprese, i massacri notturni vanno qualificati di codardia, i trafficanti in civiltà non dimentichino che, come hanno essi stessi dimostrato, i cinesi non sarebbero mai in grado di resistere coi mezzi normali della loro condotta di guerra, ai mezzi di distruzione europei.
Insomma, invece di gridare allo scandalo per le crudeltà dei cinesi (come suol fare la cavalleresca stampa britannica), meglio faremmo a riconoscere che si tratta di una guerra pro aris et focis, di una guerra popolare per la sopravvivenza della nazione cinese – con tutti i suoi pregiudizi altezzosi, la sua stupidità, la sua dotta ignoranza, la sua barbarie pedantesca, se volete, ma pur sempre di una guerra popolare. E in una guerra popolare i mezzi dei quali si serve la nazione insorta non si possono misurare né col metro corrente nella guerra regolare, né con altri criteri astratti, ma solo col grado di civiltà che il popolo in armi ha raggiunto. (….)

(Marx, New York Daily Tribune, 5 giugno 1857, in K. Marx-F. Engels, India Cina Russia, Il Saggiatore, 1976, pp.196-197)

Queste le posizioni irrinunciabili dei comunisti, anche quando sono costretti ad esprimersi attraverso la stampa borghese, di fronte alle reazioni "selvagge" dei barbari sottoposti all’oppressione e alle aggressioni dell’imperialismo "civile".
A maggior ragione identico è il nostro atteggiamento rispetto alla resistenza disperata espressa dai popoli arabo-islamici contro gli attuali "trafficanti di civiltà" che hanno moltiplicato nel frattempo la loro potenza di fuoco e il potere dei propri mezzi di distruzione.
Piuttosto che temere le "selvagge" reazioni dei popoli oppressi dall’imperialismo (come suol fare la cavalleresca stampa occidentale di destra e di sinistra) noi le salutiamo come segnale di sana rivolta, dolendoci anzi della loro ancora relativa scarsità, cui però siamo altrettanto sicuri che i nostri "barbari" sapranno in breve rimediare.

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