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CONTRO IL GOVERNO D’ALEMA

Indice

Onore al merito dell’Italia per ciò che ha fatto nella guerra contro la Jugoslavia. La "comunità internazionale" dovrà dare il giusto riconoscimento al paese per il suo ruolo militare e politico. Così D’Alema condensa il "successo" italiano, e rivendica a se stesso, al suo governo, e alla "sinistra" la benemerenza per il "rilancio" del ruolo internazionale dell’Italia.

Per quel che attiene al "rilancio" è tutto da vedere, per i "meriti" D’Alema ha ragione: la sua politica non è stata di puro appoggio, è stata determinante per la guerra. Alla pari di tutti i governi di "sinistra" dell’Europa, e, forse, con qualche contributo in più. Il pesante atto di guerra in preparazione nei Balcani rischiava, infatti, di trovarsi contro settori decisivi del proletariato. Data l’attuale situazione di debolezza politica e organizzativa, la classe operaia non sarebbe, forse, riuscita a bloccare l’aggressione armata, ma ne avrebbe potuto condizionare, limitandoli, i risultati. Né questo era solo problema italiano, giacché una decisa mobilitazione in Italia avrebbe potuto innescare la scintilla per una maggiore mobilitazione contro la guerra anche altrove, e viceversa. Per neutralizzare ogni reazione proletaria niente di meglio poteva esserci di governi di "sinistra", per tenere a bada la propria base e per inocularle il virus dell’interventismo armato contro i popoli ribelli. D’Alema ha svolto il compiti con estrema diligenza, riuscendo a depotenziare dall’interno ogni reazione proletaria, guidando gli alleati nell’uso propagandistico della questione "profughi", e offrendo, con Arcobaleno, l’esempio per incanalare verso il "concreto" il malcontento popolare, ottenendo, così, di deviarlo.

Esaurito il compito, s’era disposto a ricevere per encomio il sostegno a una linea di introduzione graduale e contrattata delle riforme rivendicate dai mercati, senza la loro continua pressione ad attuarle tutte e subito. Puntuali, come la morte, sono spuntate le "rivelazioni" sui rapporti Kgb-Pci, lasciate "in libertà" da un governo di cui D’Alema pensava d’aver conquistato l’appoggio imperituro. Altro che encomio; il preannuncio del "ben servito"!

La polemica innescata dai veleni ha subito evidenziato i suoi scopi: costringere i Ds a ulteriori abiure sul loro passato, a ennesime prese di distanza dal comunismo che fu, non per pura correzione storico-ideologica, ma per una concreta ricaduta sul piano politico. All’ordine del giorno c’è l’accelerazione del distacco del partito da ogni cura per gli interessi dei lavoratori, nonché il completo affrancamento da ogni "ricatto" dei sindacati: basta con gli annunci e le chiacchiere per convincere i lavoratori a riformare le pensioni e ad accettare l’idea che il posto fisso non c’è più. O passate finalmente a fatti più decisi, o sarete costretti a passare la mano a chi è più deciso di voi.

Dietro l’oscuro agente del Kgb manovra non il semplice tentativo inglese di destabilizzare l’Italia, ma l’interesse della finanza internazionale, e, in ultima istanza, dell’intero sistema capitalista, a bruciare i tempi in Italia, e in tutta Europa, per quelle "riforme" che stentano, passando sopra il cadavere di quello che resta del movimento operaio tradizionale.

E, infatti, la destra d’opposizione e il centro interno al governo hanno immediatamente messo a frutto le rivelazioni del dossier per costringere i Ds a nuovi arretramenti.

Se la "sinistra" è stata indispensabile a condurre la guerra, rischia di essere un impiccio per realizzare tutto il resto nei tempi dovuti e con la dovuta determinazione di classe. E anche per quanto riguarda la prosecuzione della guerra, o nuove guerre, il suo ruolo non è più decisivo: lo è stato per dare l’abbrivio, non lo è per proseguire, grazie ai risultati da lei garantiti nel sottomettere il proletariato all’interesse imperialistico (nazionale e occidentale) anche quando è perseguito con le armi.

Allo stesso tempo questa ossessiva ostilità non è una semplice vendetta per il passato, non è legata ai soli motivi contingenti, ma guarda al presente, al futuro prossimo e remoto, a quell’antagonismo operaio che incuba sotto l’incedere dell’attacco capitalistico.

Non vendetta verso il "comunismo" e il classismo passati, ma dichiarazione di guerra al comunismo e al classismo che l’esplosione delle contraddizioni capitalistiche allevano nel ventre del sistema.

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Irrefrenabile "jugoslavizzazione"

La "sinistra" s’oppone a tali pressioni come il burro al coltello. Inchinata ab origine agli interessi nazionali e alle compatibilità capitalistiche, dinanzi all’ulteriore ricatto reagisce accelerando lo scioglimento di ogni residuo di classismo nel "partito democratico", dove la "questione lavoro" avrà un ruolo sempre più marginale e subordinato agli interessi nazionali e a quelli del mercato.

Questo processo scarica micidiali effetti sul grado d’organizzazione e di combattività del proletariato, ma indebolisce anche la tenuta organizzata e militante degli stessi partiti di "sinistra", finendo con l’indebolire anche il grado di tenuta di tutto l’insieme delle forze borghesi. Così, la scomparsa dalla scena dell’attivismo proletario, sindacale e politico, invece di favorire un accorpamento delle forze borghesi intorno a un programma nazionalistico e di classe, ne induce l’ulteriore sfilacciamento.

Il quadro offerto dall’attuale situazione è, al proposito, più che indicativo. Un governo formato da una miriade di partiti, partitini, circoli, camarille e singoli personaggi tenuti insieme dal solo vincolo anti-berlusconiano. Una maggioranza costituita ormai senza neanche il ricorso formale alla "libera scelta degli elettori", ma su quella di travasi e compra-vendite post-elettorali. Questo gioco è servito, finora, agli anti-berlusconiani, ma è pronto per riproporsi contro questo stesso centro-sinistra in agonia. Siamo, tra maggioranza e opposizione, a una cinquantina di partiti che s’interdicono a vicenda e nessuno dei quali ha un chiaro programma "nazionale". La forza di interdizione dei Cossiga, Boselli, Di Pietro, non si fonda su una propria base di massa tra i "cittadini", ma unicamente sul fatto che la "sinistra", a sua volta, ha dismesso tale base, avendone dismesso i relativi programmi.

La strada alla "jugoslavizzazione" è sempre più spianata e il disastro incombe con l’inevitabile venire al dunque di tutti i nodi finora elusi o curati con placebo.

La borghesia si crogiola per gli incrementi di profitto realizzati. Ma questi sono assolutamente insufficienti ad attrezzarla per partecipare come soggetto attivo alla globalizzazione. La sua sorte è sempre più quella di essere "globalizzata" e non di, a sua volta, "globalizzarsi". Le poche grandi imprese rimaste rischiano tutte di essere inglobate, essendo incapaci di inglobare a loro volta per rafforzarsi. Nessuna delle "riforme" necessarie per tentare un serio rilancio del proprio ruolo di "competitore globale" (commerciale, finanziario, politico, militare) è stata conseguita appieno. Né è in atto una riorganizzazione seria della classe borghese per realizzarle.

Con ciò la borghesia italiana non smetterà di essere imperialista per trasformarsi in "colonizzata", ma rischia di essere declassata al rango di comprimario, molto secondario. Un passaggio non indolore, che non lascia tutto come prima, ma che dà la stura all’esplodere di tutte le contraddizioni secondo linee di ulteriore frammentazione del tessuto unitario nazionale degli interessi di classe.

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Difendere le postazioni di classe del proletariato anche contro gli affossatori "dall’interno"

Non meglio se la passa il proletariato. Innanzitutto la sua condizione generale sta già peggiorando in tutti i sensi, e con l’ulteriore e definitiva rottura del tessuto unitario borghese peggiorerebbe in modo catastrofico. Non avrebbe più la forza neanche per rallentare, come oggi fa, la propria tosatura, e si ritroverebbe vittima degli appetiti più bestiali delle singole sezioni di borghesia "nazionale" o regionale, e di quella borghesia internazionale che si contenderà le spoglie dell’Italia disunita.

Al momento non manca a buona parte dei proletari la coscienza dei propri interessi immediati, ma non sanno dove sbattere la testa. Nonostante le ripetute esperienze, continuano a credere che sia obbligata la via di un "cedimento controllato", nella speranza che prima o poi la situazione si stabilizzi. Una parte è convinta che il "controllo" sui cedimenti sia meglio farlo stando dentro il governo, e, di fronte a un’estromissione dei Ds, sicuramente si schiererà a sostegno della "legittimità governativa" del "proprio" partito, a costo di accettare ulteriori arretramenti. Quale, d’altra parte, l’alternativa immediata che gli viene offerta? I "sinistri" alla Bertinotti, in una tale evenienza, lavoreranno, ancor più di quel che fanno già ora, per "riallacciare i fili della sinistra", rincorrendo i Ds che per stare al governo saranno disposti a immolare altri pezzi dei già pallidi residui di classismo riformista.

In tal quadro Rifondazione potrebbe persino conservare o aumentare i propri voti. Ma diverrebbe, con ciò, un partito in grado di rilanciare l’iniziativa operaia, sia pure su un terreno riformista? E, con quale programma, con quali obiettivi? Le 35 ore, i "diritti" da morsicare, la difesa della costituzione, la pressione affinchè "il palazzo" torni ad occuparsi della condizione operaia (come si legge in un invito per un convegno del Prc sulla "crisi del tessile" a Como)? Risposta già data dall’inossidabile Totò: ma ci faccia il piacere!

Basta vedere l’opposizione odierna del Prc a D’Alema, al quale sembra dire: "dì, se non qualcosa di sinistra, almeno qualcosa. Quello che neppure noi sappiamo dire!". Opposizione, poi? Quella fatta al governo, ma non alle giunte locali che praticano la stessa politica? Quella che si predispone a rifare con il centro-sinistra liste comuni alle prossime elezioni?

I voti conservati o presi in più lo sarebbero su di una base di malcontento verso i Ds, soprattutto di quelle generazioni legate alle tradizioni del vecchio movimento operaio, ben difficilmente verrebbero dai giovani proletari, tanto meno dai proletari che già ricercano, sia pur confusamente, qualcosa che sia al di là di quel riformismo che vedono già fallito. Ciò, di per sé, non avrebbe niente di preoccupante, la preoccupazione sta nel fatto che l’eventuale (non certa!) raccolta di tali voti verso il Prc non avverrebbe sulla base di un rilancio di combattività di classe, ma su di una base passiva, "residuale", priva di grandi attese, "difensivista".

Nella necessità di "difendersi" non c’è, intendiamoci, nulla di negativo. Anzi, i comunisti non hanno alcuna esitazione nel difendere le postazioni attualmente esistenti del movimento operaio. Il fatto è che questa battaglia si può dare solo combattendo contro i loro affossatori, e, quindi, anche contro coloro che ne provocano l’affossamento dall’interno stesso del movimento operaio. La "difesa" che ne fa Rifondazione è, invece, una difesa del quadro politico precedente, nel quale quelle condizioni s’erano realizzate, quello dello "stabile" compromesso di classe, o del conflitto a bassa intensità, che aveva soluzioni "soddisfacenti" per entrambe le classi. Insomma, esattamente quel quadro che coltivava tutti i germi della successiva degringolade del riformismo e del movimento operaio. Una riproposizione, a tempo definitivamente scaduto, di un riformismo di sinistra, per altro, a sua volta, sempre più depurato da elementi classisti, sempre più inclinante verso il "grido di dolore" affinché i potenti fermino la loro fame di profitto, prima che ciò provochi l’inevitabile esplosione della sacrosanta rabbia delle masse lavoratrici, con le conseguenze inevitabili che ciò avrebbe sulla tenuta degli assetti democratici, sulla pace sociale e la "convivenza civile".

In tale modo non è possibile alcuna reale difesa neanche delle postazioni attuali, già fortemente indebolite, del movimento operaio. Nessuna "difesa" può darsi mai senza contemplare una contemporanea "offesa". Nulla può essere conservato della residua condizione di resistenza della classe operaia, se non si dà, allo stesso tempo, battaglia contro tutto lo schieramento che la vuole cancellare, ivi comprese quelle forze e quelle politiche che per "difenderla" vogliono evitare di aggredire, a loro volta, chi la vuole distruggere.

All’ultimo Comitato Nazionale del Prc più di una voce si è levata contro la deriva del partito, per denunciare la contraddizione che c’è tra l’"opporsi" al governo D’Alema e perseguire accordi elettorali con il centro-sinistra, per sostenere che una vera opposizione non può che basarsi sulla ripresa della lotta di massa e non con l’inseguimento della "sinistra liberale", per invocare che il partito riconquisti la sua autonomia politica e riesca a rappresentare le istanze e i bisogni di classe del proletariato, per perorare che non si abbandoni l’idea stessa del partito per avventurarsi in "eventi di sinistra" al carro di personaggi programmaticamente anti-partito e programmaticamente votati a fare da mosche cocchiere alla "sinistra" maggioritaria. Voci della minoranza di Ferrando e non solo.

Ma sono semplici, e inconcludenti, invocazioni all’insieme del partito, non piani di battaglia rivolti ai proletari e ai sinceri militanti di classe presenti ancora in buon numero nel Prc. Invocazioni, per di più, che astraggono completamente dalla dimensione internazionale dello scontro e sono irrimediabilmente adagiate a quella nazionale. Impossibile non ricordare un copione già visto nella storia del Pci, ove alla fase di costruzione del movimento di classe "nazionale" è logicamente seguita quella... del nazionalismo.

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Difesa impossibile senza un’adeguata offensiva

Ci sono già, e dove sono, le forze chiamate all’offensiva? Sul piano elettorale esse stanno, come massa, al di fuori della presa di queste "sinistre" che hanno spezzato il filo storico, sia come sia, del movimento di classe. Possono astenersi o anche votare per sigle del tutto estranee e avverse ai loro interessi storici e immediati, nella (giustificata) convinzione che questa "sinistra" non offre nulla e che tanto vale tentare "condizionatamente" altrove. Né possono trovare nei sindacati attuali alcun conforto alle esigenze di dare battaglia. Non c’è nulla da aspettarsi da una Cgil che attacca D’Antoni in nome della solidarietà con il governo. È vero che il gioco della Cisl non è meno sporco. Ma l’opposizione a tale gioco, che potrebbe servire a sviluppare un fronte unitario di classe, finisce, invece, con l’essere giocata in senso diametralmente opposto, con la proposta di fronte unico con il governo e la borghesia.

Guardare a queste forze potenzialmente chiamate all’offensiva (non già all’offensiva!), saperle tallonare costantemente partendo dalla situazione di fatto, senza mai smarrire il punto di arrivo e relativi passaggi obbligati, è il lavoro di lungo periodo che i comunisti hanno da assolvere (in ciò si colloca perfettamente il lavoro verso i lavoratori leghisti, come verso gli immigrati e verso tutti i segnali di protagonismo proletario, anche a partire da questioni non direttamente "di fabbrica", come il degrado della vita dei quartieri, la crescente "insicurezza" per il diffondersi della criminalità, ecc.). Sono forze che al momento appaiono più distanti dai comunisti di quanto lo siano le forze del movimento operaio tradizionale, ma, che nel mettersi in movimento, dovranno bruciare illusioni e resistenze, anche quelle che il movimento operaio tradizionale ha contribuito a consolidare nelle coscienze proletarie.

Lavorare verso queste forze, e lavorare verso quella parte di proletariato che s’attarda nella nostalgia dei "bei tempi". È una stessa battaglia, da fare senza astrarre dal terreno specifico su cui le varie sezioni del proletariato, al momento, si collocano, per contribuire a far emergere la necessità di un fronte comune di classe che non esiti a passare all’attacco contro il comune nemico capitalista, e che, perciò stesso, faccia i conti con e scarti definitivamente ogni riproposizione del riformismo.

Una battaglia che non sia indifferente verso nessuno dei problemi avvertiti dalla classe operaia. Neanche a quello dell’eventuale estromissione dei Ds dal governo. Hanno assolutamente ragione quei proletari che si preoccupano per questa eventualità, perchè colgono che è solo la premessa per scatenare contro i lavoratori un attacco più duro di quello condotto da D’Alema e consorti. Bisogna lottare per contrastare questo disegno. Ma, qual’è il modo efficace per contrastarlo? Sostenendo il governo D’Alema? Condividendo la logica secondo cui per evitare guasti peggiori provocati dalle destre è meglio indursi guasti "limitati" e "controllati"? Questa logica ha già prodotto un gran numero di guasti "limitati" (guerra contro la Jugoslavia, ulteriore scrematura dello "stato sociale", flessibilità del lavoro, riforma della leva, "sanatoria" ricattatoria ai danni degli immigrati, ecc.). E ha già prodotto anche un guasto illimitato: quello d’aver ricacciato nella sfiducia larghe masse di lavoratori, di aver indebolito il nostro fronte, rischiando di consegnarlo impotente difronte a un attacco più deciso. La giusta esigenza di prepararsi a rintuzzare aggressioni maggiori si può, allora, concretizzare solo in una lotta aperta contro il governo D’Alema e la sua politica. Ed è anche la condizione migliore per la lotta contro il ritorno delle destre. Impostata in questo modo la lotta, sarà possibile anche richiamare in campo quei settori sfiduciati e quei settori che, delusi dal riformismo di "sinistra", si vanno schierando con partiti o movimenti, i cui programmi ripercorrono, non meno di quelli della "sinistra", una strada di sottomissione del proletariato ai diktat del capitalismo.

Si tratta su questo, come sulle varie altre questioni (alcune delle quali trattiamo in questo numero: quella sindacale, dei referendum pannelliani, del processo di riorganizzazione dei lavoratori immigrati, del coinvolgimento delle donne nelle forze armate, dei lavoratori aderenti alla Lega Nord) di conquistare, da parte almeno di un’avanguardia proletaria, una vera autonomia di classe, che può darsi alla sola condizione di convergere (e non la si interpreti come una sbrigativa richiesta di adesione all’Oci) verso un partito genuinamente comunista, e che, quindi, non può nascere né da trasformazioni, né da scissioni di formazioni dell’attuale "sinistra", tutte impossibilitate a recidere il cordone ombelicale che le lega al capitalismo.

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