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Ieri, oggi e domani

1959: "LA RIVOLTA DEL TIBET
E IL COMUNISMO RIVOLUZIONARIO"

Nella pagina pubblichiamo stralci di due articoli, e i titoli originali, apparsi su il programma comunista nel 1959, immediatamente a ridosso della "riconquista" del Tibet da parte dei cinesi. La loro attualità è evidente.

Indice

I fatti del Tibet, controprova del conformismo nazionalcomunista ("il programma comunista" n. 7/1959)
La rivolta del Tibet e il comunismo rivoluzionario ("il programma comunista" n.8/1959)
Il Dalai Lama e la Cia (Sara Flounders,Workers World, 26.8.99)
Poche settimane orsono il Budda vivente ha onorato l’Italia di una sua graziosissima visita. Platee di teatri (rigorosamente paganti in volgarissimo denaro) e pubblico televisivo di ogni canale hanno potuto saziare la fame del proprio "spirito" con il suo alto insegnamento. Perchè tanto interesse per una personalità che rappresenta non tanto e non solo una religione, quanto la giustificazione storico-ideologica dell’assetto sociale -feudale e schiavistico- che il Tibet aveva prima di essere "annesso" alla Cina "comunista"? I governi, i media e gli intellettuali d’Occidente non mettono, certo, la stessa passione difensiva e tutelatrice verso qualunque altro rappresentante di religioni ugualmente antiche. Anzi, i paesi "avanzati" e la loro religione ufficiale, il cristianesimo, si fanno vanto di aver cancellato un gran numero di "religioni antiche" per proiettare i loro fedeli nella "civiltà" moderna, non importa se sterminandone milioni e convertendo i rimanenti con la forza delle lame e delle pallottole, o, come è emerso durante il viaggio del papa in India, con i fondi del Fmi regalati ai cristiani per sovvenzionare le loro "caritatevoli" istituzioni, scuole, asili, ospedali (qualche organizzazione indù ha sintetizzato felicemente rivolgendo al papa una sola parola: bandito!).

L’interesse non è, evidentemente "spirituale", ma è esclusivamente materiale, di quella materia che va sotto il nome di imperialismo: il sostegno alla rivendicazione dell’indipendenza del Tibet dalla Cina nell’ambito della politica atta a forzare la resistenza che la Cina fa tuttora all’invasione del capitale occidentale, cui, pur aprendo le frontiere, continua a porre vincoli che preservino il proprio interesse a uno sviluppo economico e sociale "autonomo". In piena continuità con la storia di strappare alla Cina intere zone in cui insediare i propri distaccamenti per conquistarne il mercato delle merci, prima fra tutte la merce-uomo, la forza-lavoro.

Nella pagina pubblichiamo stralci di due articoli, e i titoli originali, apparsi su il programma comunista nel 1959, immediatamente a ridosso della "riconquista" del Tibet da parte dei cinesi. La loro attualità è evidente. Non solo perchè inquadrano dal punto di vista storico il problema-Tibet, ma soprattutto perchè inquadrano dal punto di vista teorico e politico la questione che viene divenendo esplosiva, in Tibet, in Cina, in tutto il mondo prima "coloniale", poi "decolonizzato": il ruolo e la funzione della rivoluzione anti-imperialista.

È tema di decisivo interesse per l’oggi, allorchè vengono al pettine tutti i nodi delle contraddizioni capitalistiche, e anche tutti quelli lasciati intricati dal corso delle rivoluzioni precedenti, ivi comprese quelle anti-coloniali (che rivoluzioni lo furono davvero, a scorno degli "indifferentisti" di ieri) e delle rivoluzioni anti-imperialiste a venire, che rientrano perfettamente nel corso della rivoluzione proletaria mondiale, a scorno degli "indifferentisti" di oggi, cui sono applicabili, pari pari, le parole di fuoco di Bordiga, mutuate, con perfetta aderenza, dalle classiche soluzioni di Marx e di Lenin.

Nella pagina vi sono anche degli stralci di un articolo (Workers World, 26.8.99) di Sara Flounders, dell’International Action Center di New York, che danno qualche lume sui veri motivi dell’amore che si raccoglie in Occidente attorno al Dalai Lama (amando il quale i nostrani "sinistri" dimostrano solo di amare perdutamente... Washington, come capitale dell’imperialismo mondiale), e dimostrano come anche quelle ridotte trasformazioni realizzate da una rivoluzione inconseguente (sotto la spinta delle masse tibetane!) abbiano reso di già impossibile il semplice ritorno ai tempi che furono (quale tibetano accetterebbe che torni, ora, la schiavitù? Quello sicuro di conservare, e rinforzare con la schiavitù altrui, la propria libertà, ovvero i monaci). Impossibile il ritorno al mitico "idilliaco" passato, ma possibile che l’imperialismo riesca a rimestare nelle difficoltà esistenti per giocarle contro l’intera Cina e risottometterla tutta al suo completo dominio.

Non sarà inevitabile, e neppure facile. E della cosa noi gioiamo, perchè da essa sicuramente trarrà immensi benefici la ripresa della lotta e dell’antagonismo del proletariato occidentale.

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I fatti del Tibet, controprova del conformismo nazionalcomunista

Mentre scriviamo, la rivolta del Tibet appare domata. Il Dalai Lama, che agli occhi della stampa atlantica è assurto a nuovo simbolo della lotta contro il "materialismo ateo", ha raggiunto il territorio indiano. Il Budda vivente, il Grande Oceano incarnato, è salvo! I conformisti di tutto il mondo, resisi improvvisamente consci della importanza che riveste il lamaismo nella lotta per i "diritti dell’anima", hanno tratto un sospiro di sollievo. Di che meravigliarsi? La borghesia occidentale, pur di servirsi della influenza della chiesa cattolica, ha rinnegato tutte le tradizioni di pensiero anti-ecclesiastico che, bene o male, permisero lo sviluppo di potenti strumenti intellettuali, come quelli forgiati dalla rivoluzione scientifica del darwinismo, e nella ricerca affannosa di argini da opporre alla marea proletaria si è buttata in ginocchio davanti ai Papi cattolici. Ma ora nemmeno il cattolicesimo basta più: ed eccola prosternarsi al papa dei tibetani!

La malafede della stampa occidentale è provata a sazietà dal comportamento, del tutto opposto, che osserva nei confronti delle rivolte dei "popoli di colore" oppressi dal colonialismo bianco. La spedizione nell’al di là di qualche migliaio di monaci tibetani, abituati come i religiosi di tutte le latitudini a vivere alle spalle del popolo, ha avuto il magico effetto di accendere passioni umane nei cuori di granito che assistono impassibili al massacro del popolo algerino e alle repressioni della polizia colonialista nel Camerun, nel Congo, nel Nyassa. La "barriera di colore" è improvvisamente caduta. Il razzismo degli illustri prostituti intellettuali che scrivono nel "Popolo", nel "Corriere della Sera", nel "Tempo", nel "Secolo", ha dall’oggi al domani concesso un esonero all’aristocrazia feudale tibetana. Coloro i quali predicono che "L’Africa, abbandonata dai civilizzatori, ricadrebbe ineluttabilmente nelle tenebre della barbarie, e forse nel cannibalismo", scoprono "il diritto delle popolazioni del Tibet a svolgere il proprio tipo di civiltà!" (…)

Che cos’era il Tibet quando le armate di Mao-Tse Dun vi misero piedi (n.)? Per saperlo, leggiamo un brano dell’articolo "Tibet: società feudale immutata nei secoli", apparso ne "L’Unità" del 31-3-59 (...):

"Ancora oggi, dopo l’accordo del 1951, questo paese (il Tibet) che si estende per circa un milione di chilometri quadrati sul più elevato altopiano del mondo, è retto autocraticamente dai monaci buddisti. È una società feudale, organizzata rigidamente a piramide, al vertice della quale è il Dalai Lama e alla cui base sono i servi della gleba. Tutto il potere emana dai monaci dei tre grandi monasteri di Drebung, Sera e Ganden, ed è tra essi che vengono scelti sia i membri del Casiag, il governo responsabile verso il Dalai Lama, che i funzionari Lama…La suprema autorità è, come si è detto, il Dalai Lama, il "Grande Oceano", che, per i credenti lamaisti è l’incarnazione di Cerenzi, il signore della Misericordia, dio patrono del Tibet…Esiste tuttavia, un’altra somma incarnazione, quella di Opame, il Budda della Luce smisurata, ed è il Pancen Lama, o comunemente chiamato anche il Figlio, rispetto al Padre che è il Dalai Lama, e divide col Dalai l’autorità spirituale e temporale, quando non è diviso da esso da insanabili contrasti, come è accaduto in più di una occasione nella secolare storia del Tibet".

Dopo averci erudito circa la struttura politica del "misterioso" paese e il fatto che la chiesa lamaica accentra nelle sue mani il potere spirituale e temporale, il governo delle anime e dei corpi, l’"Unità" passa a descrivere le condizioni sociali del paese. Potremmo ricavarle da qualsiasi testo di geografia, ma preferiamo che sia l’"Unità" ad informarcene: "Monaci e proprietari fondiari posseggono tutta la ricchezza del Tibet, se di ricchezza si può parlare, in una società di tribù nomadi ed in perenne guerriglia tra di loro. Una parte dei proventi di allevamento (del bestiame) debbono essere versati ai monasteri, e al governo centrale, e i lamasteri e i notabili sono stati fino a qualche anno fa la sola fonte di credito, dato a tassi di interesse esorbitanti, per i contadini e i pastori…Il contadino tibetano è press’a poco al livello di tredici secoli fa, quando il contatto con la Cina della dinastia Tang gli insegnò ad usare i primi strumenti agricoli. Il suo aratro è ancora quello, rudimentale, di legno a chiodo, così leggero da poter essere portato a spalla".

(...) Le condizioni in cui si trovavano i paesi europei invasi dalle armate napoleoniche all’inizio del secolo scorso, erano più avanzate di quelle tutt’ora esistenti nel Tibet. Ma la conquista francese, benché non immune da tendenze nazionaliste, condusse energicamente la sua missione di diffondere la rivoluzione democratica nell’ostile mondo feudale che attorniava la Francia. Perciò, i comunisti non hanno mai nascosto l’ammirazione per le imprese napoleoniche (n.): lo stesso Marx, come è noto, definì Napoleone I° "eroe della rivoluzione". (…)

La rivoluzione non ha "patti" da rispettare, che non siano quelli che ha stretto, sul terreno della dottrina e della azione, nei riguardi della classe rivoluzionaria. La legalità borghese, di cui il diritto internazionale è un aspetto, pensino a difenderla i servi della borghesia dominante. La rivoluzione proletaria non esiterà, se necessario, a passare in armi i "sacri confini" nazionali, propagando l’incendio sociale (n.). La campagna militare contro la Polonia reazionaria, scatenata nel 1920, dalla Russia leninista resta per noi un’esperienza valida. All’epoca appoggiammo con entusiasmo l’azione dell’Armata Rossa e da allora nessun dubbio ci ha sfiorati. Dal punto di vista della lotta di classe, il comunismo aveva tutte le ragioni di portare l’attacco militare alla Polonia, sostenuta ed aizzata dall’imperialismo occidentale. Il bolscevismo russo e l’Internazionale agivano in perfetta coerenza coi principi marxisti e gli interessi della classe operaia sforzandosi di portare la rivoluzione fuori dai confini che i rapporti di forza assegnavano alla Russia rivoluzionaria. Allora, non si predicava certo la "coesistenza pacifica" col capitalismo e apertamente si dichiarava che la "dominazione mondiale" del comunismo - già dominazione mondiale del proletariato sulla borghesia mondiale - era la finalità suprema dell’azione rivoluzionaria comunista. (…)

("il programma comunista" n. 7/1959)

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La rivolta del Tibet e il comunismo rivoluzionario

(…) Che il paese "più alto" del mondo sia anche, dal punto di vista della evoluzione storica, "il più basso", si è incaricata la stampa politica di ricordarlo ai distratti. La dominazione di una ristretta aristocrazia fondiaria, che vive alle spalle delle tribù disseminate negli immensi altopiani; la servitù della gleba che ancora perpetua condizioni presenti in Europa nell’alto Medioevo; la concentrazione dei mezzi di produzione, principalmente della terra, nelle mani dell’aristocrazia e del clero lamaista; l’oligarchia monastico-aristocratica, che si regge sulla simbiosi tra il potere locale dei capi-tribù e i monasteri lamaisti, organi politici e economici oltre che religiosi; il potere assoluto del Dalai Lama, il dio-re, che accentra il potere temporale e "spirituale"; sono elementi essenziali della organizzazione sociale tibetana, di cui ogni giornale ha dato erudite descrizioni. (…)

I nostri estremisti infantili, si sa, professano indifferenza verso le rivoluzioni nazionali afro-asiatiche. Anzi, negano che si tratti di trasformazioni rivoluzionarie echeggiando stranamente i pregiudizi razzisti dei nostri peggiori reazionari, i quali affermano che l’Asia, l’Africa, l’America Latina sono condannate a restare in eterno nelle condizioni in cui si trovano. Noi, invece, pensiamo che nulla autorizzi a ritenere che la teoria marxista sulla questione nazionale e coloniale sia stata superata dagli eventi (n.). Crediamo, in particolare che nei continenti una volta soggiogati dal colonialismo bianco sia in atto un rivolgimento di portata rivoluzionaria, e in quanto tale merita di essere appoggiato dai comunisti rivoluzionari.

(...) Vedremo che cosa architetteranno i nostri sinistrissimi, quando scenderanno dal loro piedestallo di indifferenza e si degneranno di dirci che pensano delle "cose del Tibet". Intanto, le posizioni che abbiamo prontamente prese dimostrano ampiamente come sia possibile seguire una giusta linea marxista senza precipitare nei burroni, ugualmente pseudomarxista e dell’ultra-sinistrismo. Abbiamo dimostrato, in particolare come l’appoggio al movimento rivoluzionario antifeudale non comporti che le posizioni del partito comunista rivoluzionario si confondano con quelle dei partiti che del comunismo rappresentano la degenerazione opportunista. Esiste una reale politica di intervento nella organizzazione sociale di un paese feudale, nel nostro caso il Tibet, che non può definirsi marxista anche se applicata da un partito che al marxismo pretende di rifarsi. Ed è quella seguita dal partito comunista cinese, il quale, per soddisfare certe esigenze di politica estera, accondiscende a "coesistere" col feudalesimo tibetano. Esiste, invece, una politica, purtroppo solo virtuale, che, se applicata, riscuoterebbe il nostro appoggio. Quale? L’abbiamo detto nell’articolo precedente: la guerra rivoluzionaria, cioè la conquista militare portatrice di rivoluzione. Ciò significa che se le armate di Mao Tse Dun, entrate nel 1950 nel Tibet, avessero abbattuto il potere temporale della Chiesa lamaista, spodestata l’aristocrazia tribale-feudale e liberati i servi della gleba, noi avremmo appoggiato, sia pure dalle colonne di questo foglio, tale impresa? Esattamente. Avremmo plaudito alle armate di Mao Tse Dun, come plaudiremmo, se la storia potesse ripetersi, alle truppe della Convenzione Giacobina. Ma ciò sarebbe bastato a farci considerare il partito comunista cinese come un partito marxista ortodosso? No di certo. È storicamente provato che un partito proletario comunista può capeggiare, nell’epoca dell’imperalismo, una rivoluzione antifeudale. Ma non è vero il contrario: cioè che chiunque porti avanti una rivoluzione antifeudale si debba considerare marxista (n.). (…)

L’altra geniale obiezione dei nostri estremo-sinistri da asilo infantile è che noi, appoggiando le rivoluzioni afro-asiatiche (magari avessimo tanta forza da appoggiarle sul serio, con le armi in pugno!) aiutiamo la borghesia indigena a costruire lo Stato nazionale. Altra accusa idiota. (…)

Noi, con Lenin e le tradizioni della Terza Internazionale, siamo per la liberazione delle nazionalità oppresse, perché la rottura dei vincoli coloniali e paracoloniali è condizione indispensabile della liquidazione di forme produttive arretrate. Cioè, i marxisti appoggiano la formazione dello Stato nazionale, in ambiente storico precapitalista, perché esso rappresenta lo strumento indispensabile, nell’assenza della rivoluzione proletaria, per abbattere rapporti sociali e politici antiquati. Quel che conta, in sostanza, è appunto la messa in moto dei profondi fattori economici che il colonialismo e il paracolonialismo tenevano immobilizzati (n.). Per tal ragione, come avremmo salutato con soddisfazione una rivolta antifeudale delle classi inferiori tibetane, così avremmo appoggiato, per quel che possiamo, una guerra rivoluzionaria della Cina contro l’aristocrazia feudale del Tibet, una guerra di tipo napoleonico che unisse la conquista militare del territorio allo spodestamento delle vecchie strutture politiche.

(...) Senza la rivoluzione antifeudale, non è possibile la rivoluzione proletaria. Senza l’abolizione della servitù della gleba e della clericocrazia (ci si perdoni il termine), non è possibile la nascita di un proletariato tibetano, destinato ad impugnare, presto o tardi, la bandiera rossa della rivoluzione comunista. Qui il punto. Ma i nostri estremisti infantili non lo comprendono, chiusi come sono nel lamasterio dell’indifferentismo.

("il programma comunista" n.8/1959)

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Il Dalai Lama e la Cia

(...) Il Dalai Lama, con l’aiuto dei media, è divenuto una figura di culto. Qualunque tele o radio-utente lo definirebbe "persona buona, santa".(...) Perchè questo "santo", che si ritiene non ammazzerebbe un insetto, ha appoggiato i bombardamenti Nato sulla Jugoslavia? (...) Hollywood ha realizzato due film sul Tibet... per glorificare la classe religiosa tibetana e il suo presunto idilliaco passato, allo stesso modo in cui "Via col vento" glorifica la classe dominante schiavista del vecchio Sud.

(...) Per oltre 100 anni le potenze imperialiste europee e il Giappone hanno mantenuto la Cina nelle sfere di loro influenza... Gli Usa si opponevano, ma solo perché esclusi dall’accesso in Cina per i loro affari. (...) Nell’800 la Gran Bretagna combattè due guerre contro la Cina per il diritto di vendita dell’oppio nei suoi territori. Nel 1904 lanciò un’invasione in grande scala del Tibet e costrinse la Cina a concedergli due aree per il commercio. (...) Nel 1949 l’Armata Rossa stava per vincere definitivamente sul Kuomintang, aiutato dagli Usa. Washington allora operava per far aderire il Tibet all’Onu come paese indipendente. Gli sforzi fallirono perché il Tibet era considerato da oltre 700 anni provincia cinese, e anche per il Kuomintang era parte della Cina al pari di Taiwan. (...) Oggi l’imperialismo Usa diventa sempre più aggressivo, e cerca di forzare la separazione dalla Cina del Tibet, Taiwan e Xinjiang, e supporta, come nei Balcani e in Russia, i separatisti.

(...) Il Tibet pre-rivoluzionario era totalmente sottosviluppato... senza sistema viario... una teocrazia feudale basata sull’agricoltura, con il 90% della popolazione in servitù o schiavitù... non vi erano scuole, eccetto i monasteri riservati a pochi... l’educazione delle donne era sconosciuta. Non vi era alcuna forma di assistenza sanitaria e ospedali. (...) Un centinaio di famiglie nobili e gli abati dei monasteri (di famiglie nobili anch’essi) possedevano tutto. Il Dalai Lama viveva nel palazzo di 1.000 stanze di Potala... per il contadino la vita era breve e misera. Il Tibet aveva il più alto tasso di tubercolosi e mortalità infantile nel mondo.

(...) Oggi il Tibet ha 2.380 scuole primarie, moltissime scuole professionali e l’istruzione si svolge in lingua tibetana. Vi sono oltre 20.000 medici, 95 ospedali cittadini e 770 cliniche.

(...) Nel 1949 la rivoluzione cinese stabilì che il Tibet fosse una regione autonoma con molti più diritti di quanti ne avesse in precedenza... La schiavitù fu dichiarata fuorilegge solo dal 1959... Ciò avvenne dopo un grande movimento di massa che isolò il Dalai Lama... Prima di tutto il governo cinese pagò un salario adeguato a tutti coloro che lavorassero alla costruzione delle strade. Ciò distrusse totalmente l’usanza della servitù... Ancora più rivoluzionario fu pagare i ragazzi e gli ex-schiavi per frequentare le scuole...

(...) Dal 1955 la Cia iniziò a costruire un esercito controrivoluzionario in Tibet... Un articolo su Newsweek del 16.8.99 descrive in dettaglio le operazioni della Cia in Tibet dal 1957 al 1965... Il Chicago Tribune del 25.1.97 descriveva l’addestramento di mercenari tibetani in Colorado... Secondo il Pentagono migliaia di loro, con circa 700 voli, furono paracadutati in Tibet negli anni ’50...Il fratello del Dalai Lama seguiva tutte queste operazioni e se ne faceva vanto... La Cia diede una rendita annuale di 180.000 dollari al Dalai Lama per tutti gli anni ’60 (...)

(Sara Flounders,Workers World, 26.8.99)

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