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FERMARE GLI OMICIDI SUL LAVORO È POSSIBILE!

Uno stillicidio quotidiano di morti e infortuni sul lavoro, che in qualche giorno diviene una cascata. Le statistiche contano, in media, ogni giorno tre morti sul lavoro in Italia. Se poi si considerano anche quelli che normalmente non si contano come dovuti al lavoro (incidenti nel lavoro domestico) o si rubricano sotto altre voci (incidenti stradali a chi viaggia per lavoro), per non dire di quelli che figurano nelle "morti naturali" perché dovuti al lavoro nero, il fenomeno assume risvolti molto più allarmanti. Ogni volta che gli incidenti assumono caratteristiche eclatanti, per il numero dei morti o per le modalità, la stampa e le tv ne parlano portando allo scoperto rapporti di lavoro puntualmente definiti "d’altri tempi".

Che nessuno osi pensare che lo sfruttamento più bestiale sia oggi la norma; lo è stato soltanto ieri. Che nessuno abbia da mettere in discussione che il lavoro è ormai pulito, senza rischi, controllato, capace di rendere felici chi lo fa, al punto di vederli saltellare giulivi da un posto all’altro in nome di quella flessibilità che è tanto prossima alla vera libertà: mai più schiavi di un singolo padrone, ma liberi di voltargli la faccia e librarsi verso lavori più appaganti e sicuri!

Migliaia di morti all’anno e più di un milione di infortuni in Italia, 200.000 morti e milioni di infortuni nel mondo, scaraventano sulla scena la vera natura del lavoro in regime capitalista: si lavora solo se chi possiede i mezzi produttivi, cioè il capitale, compra la tua forza-lavoro e solo alle condizioni che lui stabilisce. Mai come ora questa realtà si manifesta in tutta la sua semplice essenza: dittatura del capitale sul lavoro, diritto di vita e di morte su chi possiede nient’altro che le sue braccia, nient’altro che la sua forza-lavoro. Proletari macellati dalle leggi del profitto. Proletari anche quando rivestano la giuridica, e beffarda, veste di padroncini di sé stessi nei sub-appalti dell’edilizia o nell’agricoltura, dominata anch’essa del tutto, ormai, dagli imperativi di produttività (ritmi di lavoro e utilizzo di sostanze tossiche) e meccanizzazione. Nulla è cambiato rispetto a ieri, se non in peggio.

La ricerca sui sistemi di sicurezza ha fatto passi da gigante, la legislazione s’è perfezionata, lo stato ha assunto impegni solenni, gli apparati di controllo si sono a tal punto diffusi e democratizzati da coinvolgere pure i lavoratori creando "rappresentanti della sicurezza" protetti per legge dai ricatti padronali. Eppure la situazione è peggiorata, drammaticamente peggiorata. Perché?

Lo stato che fa le leggi e ne controlla il rispetto è lo stesso che sostiene e propaganda l’esigenza di aiutare le aziende a stare sul mercato, ed è, perciò, il primo a essere disposto a chiudere entrambi gli occhi pur di aiutare le imprese nazionali a conservare e a espandere i propri mercati, e promuove la diffusione della flessibilità, ossia del dispotismo padronale nei confronti del lavoro. Queste politiche sono divenute, poi, carne e sangue anche della "sinistra" e dei sindacati, pronti a voltare lo sguardo ogni volta che la richiesta di rispetto di determinate norme potrebbe causare difficoltà a una qualche azienda. E l’opera di questi ultimi ha cercato di diffondere anche tra i lavoratori la stessa identica ideologia: tutto sia subordinato al bene delle imprese, solo se esse hanno successo, fanno profitti, resistono sui mercati, potrete conservarvi il lavoro e il salario. Perciò cercate di avere comprensione per le loro difficoltà, andategli incontro senza attestarvi su rigide richieste di rispetto delle norme.

E i lavoratori? Nessuna legge, anche la più perfetta, li garantisce. Nessun organo statale li protegge. Essi sono alla mercé dei "datori di lavoro" (ovvero: prenditori, sanguisughe, del lavoro altrui) sia dei piccoli e dei confinati nell’economia sommersa, ma anche, e sempre più, dei grandi e dominatori dell’economia ufficiale. Nulla ci si può attendere dallo stato. Nulla ci si può attendere da sindacati sempre più inclini a proteggere e promuovere lo sviluppo delle "proprie" aziende.

Come sempre, e più di sempre, la soluzione è in noi, in noi lavoratori. Siamo noi che non dobbiamo fare più sconti a nessuno. Siamo noi a dover considerare ogni morto e ogni infortunio sul lavoro come un fatto che ci riguarda tutti. Se i padroni si concedono la libertà di assassinare per i profitti qualcuno di noi è perché noi tutti lasciamo che questo succeda senza reazione. Noi concediamo ai padroni questa libertà. Gliela concediamo perché non reagiamo come un sol corpo, come una sola classe, quando anche uno soltanto di noi soccombe sotto le condizioni di insicurezza del lavoro. Più libertà gli concediamo, più si riducono gli spazi della nostra sicurezza: non esiste, ormai, più nessun posto, nessuna azienda, in cui esercitiamo un vero controllo sulle nostre condizioni di lavoro. Dobbiamo riconquistarlo. E non può essere un fatto aziendale. È tutta la nostra forza che deve essere riversata sul terreno dello scontro. Tutti i padroni devono sapere che il male fatto anche a uno di noi gli costerà il prezzo dei nostri scioperi, delle nostre lotte, della nostra organizzazione anche a mille miglia lontano dal fatto.

Per riconquistarci condizioni di maggiore sicurezza dobbiamo, dunque, ricostruire una nostra forza di classe. Non possiamo, certo, ricostruirla se continuiamo a seguire politiche che ci vogliono fedeli cagnolini alle dipendenze delle aziende, fedeli soldati agli ordini della patria belligerante per conquistarsi la libertà di sfruttare come noi, e peggio di noi, i popoli balcanici e islamici. Non possiamo ricostruirla se continuiamo a seguire politiche che ci vogliono schiavi del profitto.

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