CONTRO IL RAZZISMO DEI BIANCHI
DIFENSORE DELLE REGOLE DEL CAPITALISMO

Indice

"Un tempo i musulmani venivano a predare le nostre città, oggi hanno una parola d’ordine: sposare le donne cattoliche per convertirle all’Islam. Bisogna bloccare questo germe." Il proclama l’ha lanciato Don Gelmini a un’assemblea di An. Su il Corriere della Sera del 6.3 l’ha ripreso Panebianco. Ne ha smussato i toni apocalittici, ma ha ammesso che un problema esiste. Dell’immigrazione non possiamo fare a meno, ha detto, ma se vogliamo che vi sia vera integrazione degli immigrati, non dobbiamo piegarci ai sensi di colpa per la "povertà" del mondo extraoccidentale, e dobbiamo ritrovare l’orgoglio delle nostre tradizioni. Solo così potremo presentare un quadro forte di valori certi ai nuovi arrivati, e ottenere di integrarli a certe condizioni, la principale delle quali è: "se un’usanza del gruppo immigrato entra in conflitto con una regola del Paese ospitante, quest’ultima deve prevalere". Quel che conta, insomma, è che gli immigrati stiano al loro posto. Quale? Quello fissato dalle nostre regole.

Il buon borghese sa che non si può ragionevolmente sperare di fermare i flussi di immigrazione. È una inevitabile valvola di sfogo per i paesi del Terzo Mondo. La rapina delle materie prime a prezzi vieppiù calanti e la schiavitù del debito vieppiù crescente mandano a precipizio le economie di questi paesi e gettano sul lastrico enormi masse di lavoratori. Ciò può innescare ribellioni tali da spazzare via i governi compiacenti con l’Occidente. Meglio accogliere una parte della loro manodopera nella metropoli, trasformandola in uno strato di proletariato da super-sfruttare e da usare come elemento per acuire la concorrenza con il proletariato locale, al fine di piegarne la resistenza a un proprio maggiore sfruttamento. "Gli immigrati sono una risorsa", predicano governo, Bankitalia e Vaticano. Sì, una risorsa per le sanguisughe del lavoro umano che prendono l’oggi riveritissimo appellativo di imprenditori, di capitalisti.

Per mantenere gli immigrati nella condizione di super sfruttamento è, però, indispensabile che essi non possano mai, nella loro maggioranza, sollevarsi dagli ultimi gradini sociali. Vi debbono, anzi, essere confinati con assoluta risolutezza. Debbono essere permanentemente "cittadini di serie B". Debbono perennemente sperare di passare alla serie superiore senza mai ottenerlo. E debbono, per inseguire questa speranza, attraversare una serie di interminabili prove: essere, in buona sostanza, tenuti in condizioni costanti di ricatto. Un esempio tipico di come si esercita il ricatto lo dà l’attuale governo "progressista" con la sua "regolarizzazione". Questa non è mai una piena parificazione al "cittadino" della repubblica italiana, e si può ottenere solo a determinate condizioni, e solo se queste condizioni si rinnovano. La difficoltà di conseguirle costringe gli immigrati a diventare vittime dei venditori di false documentazioni, della criminalità italica. Questa ha ottenuto dalle politiche governative il prezioso regalo di un mercato sul quale estendere i suoi affari. Dalle campagne sulla criminalità degli immigrati ha ricevuto, poi, come ulteriore regalo uno status di maggiore rispettabilità nei confronti di quella "d’importazione".

Supremazia bianca

Tutta l’impalcatura di segregazione giuridica non è, però, di per sé in grado di garantire il mantenimento dei lavoratori immigrati nelle condizioni di oppressione. In astratto essa potrebbe, prima o poi, anche venire a cadere. Negli Usa, per esempio, le discriminazioni per legge ai danni degli afro-americani sono quasi del tutto scomparse. Le loro condizioni di super sfruttamento non sono, invece, scomparse; si sono, anzi, aggravate. Lo stato americano può formalmente dichiarare la "parità tra le razze" e, contemporaneamente, praticare una politica di aperto razzismo che ha mostrato di recente il suo apice: ogni nero deve sapere che, anche senza la sanzione di alcuna legge scritta, il semplice fatto di circolare la notte è reato da pena di morte, eseguibile seduta stante da una polizia che nessun tribunale mai punirà.

Ma, come mai lo stato americano pratica una politica talmente razzista senza che nessuna protesta si levi contro di lui, se non quelle, per ora blande (per quanto ancora?), della comunità colpita? Il fatto è che l’insieme della "popolazione bianca" condivide profondamente quella politica, è convinta nel suo intimo che non ci sia altro modo per imporre ai neri il "rispetto delle regole", di cui la principale è di accettare di rimanere nei bassifondi della società, costretti ad arrangiarsi per vivere, e suscettibili, in virtù di ciò, di diventare bersagli ordinari delle forze armate dello stato.

La scomparsa della discriminazione giuridica non impedisce, dunque, che continui, e si rafforzi, la discriminazione e l’oppressione di fatto: è sufficiente che vi sia, e sia rinfocolato di continuo, un sentimento di razzismo, un sentimento di "superiorità bianca", di preservazione delle regole della società da ogni elemento di perturbazione che potrebbe sfuggire al controllo.

E la stessa impalcatura giuridica di segregazione intanto può sussistere e svolgere la sua funzione, in quanto sia accompagnata da questi sentimenti.

L’aspetto decisivo è che questo sentimento pervada lo stesso proletariato. È soprattutto al proletariato che l’establishment capitalistico chiede di non farsi fiaccare da "sensi di colpa per la povertà dei popoli extraoccidentali". È innanzitutto il proletariato che è sollecitato a preoccuparsi che gli immigrati rispettino le regole della "nostra" società, che restino al loro posto, cioè un gradino sotto al suo. In questo modo il proletariato partecipa, da oppresso, all’oppressione della gente di colore, in casa e fuori, e può, in virtù del privilegio di sopravanzarli nelle condizioni di lavoro e di vita, sentirsi partecipe del sistema economico che lo sfrutta e lo opprime: aguzzino dei suoi simili per difendere i suoi stessi aguzzini.

Don Gelmini e Panebianco, Clinton e D’Alema stanno, insomma, sulla stessa lunghezza d’onda di un Haider o di un Bossi, e -lo sappiano o meno- di un Adolf Hitler che ben seppe delineare e praticare la politica della gerarchizzazione di "razza" dentro il proletariato. Se ne possono distinguere quanto a truculenza del linguaggio e a drasticità delle misure, ma non quanto ai fini politici: preservare la doppia oppressione ai danni degli immigrati e dei popoli di colore, per preservare meglio l’oppressione ai danni del proprio proletariato, e, con tutto ciò, la sopravvivenza del sistema capitalista.

Al momento il proletariato bianco mostra, disgraziatamente, nella sua maggioranza, di condividere i fondamenti di tale politica, e si presta al ruolo che gli viene affidato. Ciò avviene non solo perché si lascia ingannare dalla propaganda borghese, ma, in primis, perché deriva da quella politica vantaggi reali sul piano immediato: le sue condizioni salariali e i suoi livelli di consumo sono in linea di dipendenza diretta dalla conservazione dell’attuale ordine mondiale; che gli arabi non alzino troppo la testa, tanto per dire, "conviene" anche al lavoratore occidentale, come consumatore schiavo del capitale, in quanto il basso prezzo del petrolio gli consente l’uso della scatoletta viaggiante privata, nonché l’acquisto a buon mercato d’ogni altra merce derivante, direttamente o no, dal petrolio.

Tolleranza ma nel rispetto delle regole bianche

Le posizioni esaminate finora conducono, in blocco, a rinvigorire il senso di diversità tra proletariato metropolitano e lavoratori di colore, che è la condizione principe per evitare la saldatura di lotta tra i due blocchi che sarebbe esiziale per il capitalismo. Contro di esse sembra ergersi la soluzione, di massima sposata dalla "sinistra alternativa", che si distingue per la teoria della "società multi-etnica", che, a sua volta, richiama notevoli analogie con impostazioni cristiane. I suoi sostenitori pensano che i problemi nel rapporto tra le diverse razze possano essere risolti con un’adeguata "educazione culturale", basata essenzialmente su una diffusione dei criteri della "tolleranza". L’educazione andrebbe comminata principalmente agli strati proletari e sottoproletari, essendo gli altri, per definizione "più acculturati", già più inclini a "tollerare". Tolleranza per costoro è non solo una virtù da spendere nei confronti dello "straniero", ma una virtù da applicare a tutti i rapporti sociali. È l’alfa e l’omega della democrazia, della "convivenza civile" tra razze, classi, religioni, e ogni altra diversità. È tolleranza dentro questo sistema, che, da parte sua, soffia sulle diversità, cioè sulle disuguaglianze, sulle contraddizioni tra gli oppressi, per garantirsi la sopravvivenza. È, al fondo, tolleranza di questo sistema di sfruttamento capitalistico.

Come i nostri lettori sanno, noi facciamo apertamente il tifo per l’"intolleranza" proletaria, e il nostro assiduo impegno è non per spegnerla, bensì per cercare di evitare che si diriga verso falsi bersagli e si diriga, invece, verso chi davvero la merita. Chiediamoci, però, se questa politica affronta in modo diverso la questione del "rispetto delle regole", se si batte, cioè, per impedire che essa venga usata come uno strumento per acuire il contrasto tra proletariato bianco e colorato.

Viene a fagiolo quanto scrive il manifesto l’8.3: due parlamentari di Rifondazione, Russo Spena e Pisapia, hanno presentato una proposta di legge che modifica la normativa sui "Centri di permanenza temporanea", quelli considerati, giustamente, dei lager. Scopo della proposta è: "una nuova procedura delle espulsioni degli extracomunitari non in regola, che concili l’esigenza di rendere effettive le espulsioni qualora ve ne siano i presupposti con quella imprescindibile di tutelare diritti e garanzie individuali". "Le modifiche legislative -spiegano i due parlamentari- sono volte a rimuovere una situazione incompatibile con i principi democratici e dello stato di diritto e a eliminare quello che è stato definito un vero e proprio ‘diritto speciale’ nei confronti degli stranieri".

Ciò che agita i due è che le procedure di detenzione non siano compatibili con lo "stato di diritto", ma, una volta corrette e rese "veramente democratiche", il loro appoggio all’assoluta necessità del "rispetto delle regole" da parte degli immigrati è totale: siano espulsi! Miseria di una presunta "alternatività", si potrebbe commentare. Ma non è solo, né principalmente, questo il problema. La sostanza è che anche questa posizione "alternativa" non fa nulla per abbattere la "diversità" (cioè: la disuguaglianza, la distanza, la separatezza) tra proletariato metropolitano e lavoratori di colore. Al contrario, dà il suo contributo a rinforzarla, rinforzando l’adesione del proletariato bianco alle "regole del proprio stato", la cui democraticità andrà pure corretta, ma è pur sempre una virtù che, per l’appunto, "fa la differenza". Per lo stesso pregiudizio democratico si commemora l’anno trascorso dall’inizio dei bombardamenti sulla Jugoslavia lamentando che Milosevic sia ancora lì, ma non lamentando che siano ancora qui i veri carnefici D’Alema, Clinton, Jospin, ecc.

Pregiudizio democratico o pregiudizio social-imperialista? Dilemma di facile soluzione: pregiudizio democratico e social-imperialista insieme.

Quella dei due parlamentari non è posizione isolata nello schieramento "alternativo", ma corrisponde al "comune sentire" di tutto l’insieme. Non hanno anche i Centri sociali manifestato per chiudere i centri di detenzione in quanto inumani? Ergo, la soluzione è "umanizzarli". Il che dal seno del governo è stato preso talmente sul serio da proporre a simili "paladini degli immigrati" di gestire loro i centri, in cambio di adeguati finanziamenti. Hanno rifiutato. Per ora.

Integratevi! Con le buone o con le cattive

Un muro divide tuttora il proletariato bianco da quello di colore. Non lo si abbatte accogliendo i lavoratori immigrati come generici "fratelli" da circondare di caritatevoli cure per aiutarli a piegarsi al "nostro" sistema di regole. In tal modo il muro si eleva ancora di più. Ed elevandosi, non provoca soltanto diffidenza culturale o comportamentale, ma produce, ormai, reazioni come quelle di El Ejido, in Spagna, dove centinaia di rabbiosi bianchi -tra cui anche qualche proletario, c’è da credere- hanno aggredito per tre giorni gli immigrati marocchini, devastato le loro povere case, bruciato i negozi. Chi ha armato le loro mani? Gli Haider, i Panebianco, i Don Gelmini, i D’Alema e i loro epigoni locali, non c’è dubbio. Ma non c’è dubbio che abbiano contribuito ad armarle, indirettamente, anche i multi-etnici, locali e non. Nessuno di loro ha partecipato all’aggressione, ne siamo sicuri (per ora, almeno), ma è certo che la loro politica non ha scalfito nessuna delle motivazioni alla base dell’azione bianca, anzi ha contribuito a rafforzarle. Se tutti noi bianchi riconosciamo che gli immigrati devono rispettare e adeguarsi alle nostre regole, e la tolleranza non consegue i risultati sperati, non rimane che educarli a colpi di bastone.

Quanto è successo a El Ejido dimostra qual è l’inevitabile conclusione sia delle politiche tese a erigere i muri, sia di quelle che non sono in grado di demolirli davvero: elementi bianchi, tra cui, sciaguratamente, anche proletari, passano alle vie di fatto per educare gli immigrati a stare nel posto loro assegnato dalle "nostre" regole.

È questa l’imputazione principale che muoviamo alle politiche "multi-etniche", e l’elemento di riflessione su cui invitiamo a soffermarsi i più sinceri tra i loro sostenitori.

Gli immigrati in lotta per sé e per il proletariato bianco

Il proletariato di colore, e quello di razza bianca proveniente dai paesi oppressi, ha già dietro di sé una lunga storia di lotte, una lunga storia di resistenza alle condizioni di schiavitù in cui il capitalismo ha cercato sempre di costringerlo. Una storia che risale alla notte dei tempi della schiavitù moderna, con le lotte degli afro-americani fin dagli albori della loro conduzione in schiavitù, che prosegue, negli Usa, fino ai nostri giorni con le punte degli anni ’70 in cui maturò anche la necessità di dare alla lotta per la propria liberazione una dimensione internazionale, legandola ai moti anti-imperialisti in Africa, in Asia e in America Latina. E una storia non meno significativa è quella che hanno scritto i lavoratori immigrati d’ogni razza e colore in Europa, sia nell’opposizione al nazismo e al fascismo, che nella resistenza alle nuove condizioni di sfruttamento cui li ha sottoposti il capitalismo "antifascista". Una lotta che non si è mai fermata e che continua tuttora, anche mentre il proletariato bianco sembra aver tirato dappertutto, o quasi, i remi in barca.

L’episodio recente più significativo è, senza dubbio, quello che s’è svolto a El Ejido, che ha dimostrato, una volta di più, come gli immigrati siano pronti a reagire alla loro oppressione, e a farlo con la lotta organizzata e collettiva. Preferirebbero farla assieme ai proletari bianchi, e, non a caso, ricercano legami con le loro organizzazioni, come i sindacati. In assenza di loro, però, non esitano a condurla da soli. Straordinario è il grado di coscienza che i 10.000 lavoratori marocchini hanno dimostrato. La loro lotta è stata uno sciopero di 7 giorni, non semplici manifestazioni, presidi, o quant’altro sia pure utile a sostenere le loro rivendicazioni. Uno sciopero, perché essi hanno compreso la vera natura del problema: l’oppressione razziale cui sono sottoposti ha l’unico scopo di poterli sfruttare meglio; le si può, dunque, respingere solo in blocco. A loro sostegno hanno chiamato lo stato e il governo del loro paese d’origine. È un’illusione verso poteri che vivono nella compiacenza (e con la complicità) dell’imperialismo occidentale, ma si muove nella direzione di chiamare alla lotta l’intero loro popolo, perché solo una sollevazione generale contro l’imperialismo può aggredire i problemi di chi è rimasto in patria e di chi è emigrato, e può sollevare ognuno dalla necessità di emigrare.

Pur essendo soli nella lotta, il loro appello al proletariato bianco è stato esplicito. È stato lasciato cadere, e sarà lasciato cadere fin quando il proletariato bianco continuerà a ergersi dinanzi a loro come il maestro che gli indica la strada del "rispetto delle regole", di quelle regole fondate sull’unico principio dello sfruttamento capitalista, e non si determinerà a infrangerle assieme a loro.

La doppia oppressione cui gli immigrati sono sottoposti e la solitudine cui sono lasciati nelle loro iniziative di reazione e di lotta, li conducono a una lotta molteplice, sul piano politico, culturale, religioso, sindacale. Essi percepiscono che l’insieme dei valori, delle regole, che l’Occidente gli propone e gli impone hanno come unico scopo quello di sottometterli a condizioni di vera e propria schiavitù, a conservarli in uno stato di inferiorità permanente. La ribellione alla schiavitù deve necessariamente essere a "tutto campo": non solo alle condizioni economiche, politiche, giuridiche, ma anche all’insieme dei "valori" che ne giustificano l’esistenza. Chi, come e quando è in grado di proporgli, oggi, in modo credibile (cioè, facendo seguire alla loro formulazione anche un’azione coerente di battaglia, sostenuta da forze reali) "nuove regole" che li affranchino dalla loro condizione? È, dunque, per essi inevitabile attingere alle "loro regole", legare la ribellione alle condizioni d’oppressione alla riscoperta e alla difesa dei valori, dei principi, degli usi e dei costumi delle loro società di provenienza. Tanto più se tutto ciò trova il collante in una religione che, come l’Islam, sembra prestarsi a fornire una base ideologica e programmatica di lotta all’imperialismo e allo sfruttamento capitalistico.

Un filo rosso collega, tra le tante altre, la manifestazione con cui a Torino nell’ottobre ’99 migliaia di immigrati islamici rivendicavano il pieno riconoscimento dei loro diritti, tra cui anche quello di avere la libertà di indossare il velo nelle foto per i documenti d’identità, alla lotta di El Ejido. Un filo rosso che è la necessità di riscoprire e rivendicare con orgoglio la propria identità. Il borghese rabbioso glie la vuole strappare d’un botto. Il borghese illuminato la tollera purché rimanga in limiti "ragionevoli", innocui per la conservazione del sistema. Il "progressista" lo vorrebbe convincere ad abbandonarla per condurlo sulla via luminosa del "progresso", i cui risultati il lavoratore immigrato ben vede nella sua condizione di doppia oppressione.

"Difesa della propria identità" e lotta contro l’oppressione razziale e lo sfruttamento. La prima è indispensabile premessa delle seconde. L’identità che si rivendica in questo modo non è quella proletaria, di classe, ma quella di popolo, delle "proprie" tradizioni, religioni, costumi di vita. Non è con essa che si può distruggere alle fondamenta il sistema di sfruttamento capitalistico. Ma i lavoratori di colore possono farne a meno a un’unica condizione: che trovino tra i bianchi oppressori chi sia davvero disposto a lottare assieme a loro contro le seconde. Solo così potrebbero conquistare un identità più propria, e davvero in grado di sbaraccare il capitalismo. Finché il proletariato metropolitano non si determinerà a ciò, e continuerà a essere verso i lavoratori di colore nient’altro che un anello della catena della loro oppressione, sarà inevitabile che questi ultimi debbano ripartire dalla propria identità e dall’orgoglio per le loro regole di vita sociale, familiare, religiosa.

Un filo nero collega coloro che a Torino hanno storto il naso davanti alla "arretrata" difesa del velo e a El Ejido lo hanno storto di nuovo e sono corsi a fare i pompieri, per spegnere la sacrosanta reazione dei lavoratori marocchini e per incanalarla verso il proprio ruolo di mediazione nei confronti dello stato in una lotta che ottenga una "maggiore tolleranza" da parte di tutti. Che sono andati a spiegare ai lavoratori immigrati come non abbiano compreso il bene della "nostra" libertà e della "nostra" democrazia, sia pur imperfette o da riformare. Che sono andati a proporsi loro come guida sulla via del buon uso di tali sommi tabù, per ottenere quella "tolleranza" che ancora non gli viene concessa.

No, i lavoratori in lotta a El Ejido l’hanno compreso meglio di ogni alternativista: libertà e democrazia sono soltanto i mezzi che servono a sfruttare loro e tutto il proletariato occidentale. È quest’ultimo che deve prendere lezione dalla lotta degli immigrati, che deve compiere i primi passi per abbattere i muri della differenza e della diffidenza, per costruire un fronte comune di lotta. I lavoratori immigrati di passi verso il proletariato occidentale ne hanno già mossi e ne muovono di continuo. Anche quando sembra che lottano soltanto per se stessi, per il riconoscimento dei propri diritti, essi già lottano anche per il proletariato bianco, perché più è forte la loro capacità di resistenza, più è difficile per la borghesia usarli nella concorrenza coi lavoratori bianchi.

Il primo passo che il proletariato bianco deve compiere è quello di difendere i lavoratori immigrati, le loro lotte e le loro rivendicazioni, senza porgli condizione alcuna, per fornire così la prova -di cui i lavoratori immigrati e tutti i popoli di colore, dopo secoli di oppressione bianca, hanno bisogno- di voler rinnegare il proprio ruolo di oppressore nei loro confronti.