Un libro da leggere

"Tempi moderni, orari antichi"

Un’analisi impietosa delle condizioni di lavoro (e di vita) in Occidente alle soglie del Duemila

Indice

Una specie di ossessione, in Occidente, sta invadendo la vita di un numero crescente di lavoratori: quella del tempo che non c’è, che non basta. La racconta, triturando gli interessati luoghi comuni in circolazione, il libro "Tempi moderni, orari antichi. L’orario di lavoro a fine secolo": "Il tempo non basta mai, ci si sente dire [nelle rare ricerche sociologiche che si rivolgono direttamente ai lavoratori, n.]. (...) Oppure, icasticamente, con le parole di una lavoratrice francese: ‘On court, on court toujours après le temps’. Noi non si fa che correre, correre, correre sempre, dietro il tempo. E cioè: dietro la vita. Dietro i bisogni autentici, profondi, emancipativi, che fuggono, che sfuggono, a quanti debbono passare la gran parte delle proprie giornate, della propria ‘routine’, e dunque della propria vita, a lavorare a salario" (pp.141-142).

Non si fa che correre perché -è questa la tesi sostenuta- sempre più energie della classe lavoratrice sono assorbite dal primo e dal più centrale di tutti i tempi, quello intorno a cui si organizza il resto della vita sociale: il tempo di lavoro. A tutta prima l’affermazione potrebbe sembrare paradossale. Ma come, l’orario di lavoro negli ultimi anni non è rimasto invariato? Non è addirittura sceso al di sotto delle 40 ore settimanali per alcune fasce di lavoratori come i turnisti? L’introduzione delle tecnologie informatiche e robotiche, poi, non lo sta rendendo meno faticoso?

Una giornata di lavoro sempre più massacrante

Le domande non sono peregrine, e il libro vi risponde con una documentazione ampia e articolata. Per arrivare a dire -fatti alla mano- quello a cui accennavamo sopra: e cioè che, da venticinque anni a questa parte, la giornata di lavoro di un salariato sta diventando sempre più massacrante (per le donne in misura ancora maggiore che per gli uomini, nel tradizionale settore automobilistico come nella "presunta Disneyland del terziario"). Non tanto o semplicemente perché in questo o quel settore l’orario di lavoro reale tende ad allungarsi oltre le 40 ore settimanali (per la crescita degli straordinari, per la riduzione dei giorni di malattia... mentre, mistero del capitalismo, la salute operaia peggiora!, per la dilatazione dei tempi di viaggio richiesti per recarsi in fabbrica o in ufficio, ecc.). Questo dato quantitativo accompagna un tempo di lavoro che s’è fatto in ogni caso più denso, più spossante: per l’aumento dell’intensità del lavoro, per il suo impoverimento, per la sua crescente flessibilità, per l’accorpamento delle pause a fine turno, per le ripercussioni dell’estensione dei rapporti di lavoro precari...

Tanto per dare un’idea del mare di informazioni riportate al proposito nell’opera. Agli inizi degli anni ottanta il ritmo abituale degli operai negli stabilimenti della General Motors, della Ford e della Chrysler era tale da coprire tra i 40 e i 50 secondi al minuto. I rimanenti erano tempi di pausa e di "respiro" per i lavoratori. Per lo sfruttamento capitalistico erano tempi... morti. Oggi nelle imprese automobilistiche si sta passando a cadenze che impegnano l’operaio per quasi 57 secondi!! È vero che essi sono chiamati a compiere operazioni lavorative via via più semplificate e meno faticose sul piano fisico immediato. Ma ciò, lungi dall’essere una compensazione all’impennata dei ritmi, ne appesantisce il tormento. Perché? Perché le operazioni lavorative odierne -diversamente da quanto accadeva alla (tutt’altro che scomparsa!) catena di montaggio- richiedono anche un grosso impegno mentale, ed esso nel 90% dei casi non si esplica nell’applicazione dell’intelligenza, ma in migliaia di operazioni stupide svolte in serie, avvilenti, che debbono essere svolte con la più spasmodica delle attenzioni a fabbricare merci con "zero difetti". L’effetto -come denunciano tanti passi del testo- è un’estenuazione ancor più profonda delle capacità psico-fisiche del lavoratore, una colonizzazione globale del tempo di vita da parte del tempo di lavoro. Specie quando, come accade a una fascia sempre più larga di lavoratori in Occidente (uno su cinque), si è costretti a fare orari variabili e "atipici", e in special modo il turno di notte. Le pagine sul lavoro a turni sono una sferzante denuncia di questo aspetto della nuova frontiera della flessibilità, e -implicitamente- del servilismo di quei vertici sindacali che credono e tentano di far credere che i lavoratori abbiano qualcosa da guadagnare dallo scambio di una manciata di minuti di lavoro in meno con l’accettazione di orari più variabili e più "atipici" (e cioè: più innaturali e più a-sociali).

"Il tempo è lo spazio dello sviluppo umano."

Come stupirsi allora che un numero crescente di lavoratori è pressato dall’ossessione del tempo (per sé) che fugge via? Fugge via, perché una parte crescente della loro vita viene succhiata dall’impresa e dal lavoro, che t’inseguono -raccontano le operaie della Barilla di Castiglione delle Stiviere- fin nella camera da letto. Con quali conseguenze sulla personalità dei lavoratori, sulla loro conoscenza del mondo, sulla loro gioia di vivere, sulla loro capacità di reagire al trattamento subìto sul posto di lavoro e nella vita sociale, non è difficile immaginare. Come non è difficile comprendere come mai, per continuare a tirare avanti, sempre più operai ricorrano agli psicofarmaci: "Sono diminuiti gli infortuni, denuncia un lavoratore della Zanussi, però continuano le piccole (o grandi) malattie che portano all’esaurimento nervoso. Abbiamo tantissimi casi di persone esaurite: ce n’è uno che per due o tre anni bisognava portarlo fuori perché vedeva gli Ufo. Di queste persone ce ne sono in media cinque-sei ogni cento: persone che sono veri e propri robot, e questo è il frutto di questa nuova moderna azienda, il frutto dell’alienazione che tuttora i lavoratori subiscono." (p. 302).

L’aspetto più significativo di "Tempi moderni, orari antichi", forse, sta proprio nel mostrare come il tempo di lavoro -soprattutto se analizzato con la giusta unità di misura, e cioè l’orario giornaliero- non è qualcosa di diverso dal tempo di vita, come la degradazione del lavoro è la degradazione, il rattrappimento e lo schiacciamento della vita, e come la difesa elementare della classe lavoratrice, di un qualsiasi aspetto della sua esistenza richieda il cambiamento radicale dell’intero meccanismo dei tempi dell’attuale società e del fulcro intorno a cui tutto si congegna, il tempo di lavoro, con una sua drastica riduzione. Gli economisti e i giornalisti di grido sostengono che questo sogno sarà realizzato -in un futuro più o meno lontano- dal capitalismo, o grazie ad esso. Rivolti ai lavoratori, li invitano a non preoccuparsi dell’appesantimento del tempo di lavoro regalato dal capitale negli ultimi vent’anni, rassicurano che si tratta solo di un’"oscillazione congiunturale" nell’ambito di un percorso in discesa iniziato nell’Ottocento verso il traguardo del tempo libero di massa, che si raggiungerà se l’economia di mercato capitalistica sarà lasciata libera di agire e di applicare su larga scala le tecnologie informatiche e robotiche! L’opera di Pietro Basso smonta questa promessa da cima a fondo. Non possiamo seguire qui la complessa analisi sviluppata, a cui rimandiamo i lettori. Ci limitiamo a segnalarne un aspetto, dal diretto risvolto politico.

La forza motrice della riduzione d’orario

È vero che dall’Ottocento ad oggi c’è stata una diminuzione del numero di ore lavorate. Essa, però, non ha affatto seguito il trend del progresso tecnico-scientifico e quello in ascesa della produttività del lavoro, come emerge dagli interessanti grafici presentati e commentati nel paragrafo "I numeri, di ieri e di oggi". Tale riduzione non è stata neanche il frutto di sua maestà le imprese capitalistiche, che sin dai primordi, al contrario, hanno operato per allungare e appesantire in modo smisurato la giornata di lavoro rispetto ai livelli delle società feudale e naturale, e per imporre un tempo vieppiù cadenzato, astratto, disciplinato, disciplinare,... l’inumano "tempo del mercante".

La forza trainante della riduzione d’orario è stata la lotta organizzata dei proletari contro le normali politiche delle direzioni aziendali, contro il normale tentativo capitalistico di utilizzare il progresso tecnico-scientifico quale mezzo per torchiare più a fondo i lavoratori. In questa lotta il movimento operaio ha incontrato nel corso degli ultimi centocinquant’anni una resistenza crescente da parte dei capitalisti. E oggi -alla faccia delle rassicurazioni sull’oscillazione congiunturale!- tale resistenza sta raggiungendo una specie di apice, come riconosce lo stesso padronato quando grugnisce senza ipocrisia attraverso l’istruttivo articolo di Cipolletta riprodotto a p. 316. Lo stesso esponente confindustriale confessa che "siamo oramai non lontani dal limite inferiore" raggiungibile dall’orario di lavoro compatibilmente alle esigenze di competitività delle imprese. Come mai? E da dove discendono tali esigenze? La questione non è peregrina, perché da qui dipende quale impostazione debba assumere, per essere vincente, la lotta per la drastica riduzione della giornata di lavoro, lotta di cui sta crescendo il bisogno vitale perché le 8 ore giornaliere o le 40 settimanali di oggi implicano un tale affaticamento dei lavoratori da condurre a una lenta "emorragia dell’essere" e al degrado di ogni momento dell’esistenza.

Il libro che recensiamo cerca di rispondere all’interrogativo nella terza parte intitolata "Tempi moderni, orari antichi: un enigma?". Lo fa nel solo modo a nostro avviso possibile. Sforzandosi di tornare all’unica teoria in grado di spiegare realmente la vita nella società capitalistica, alla teoria di Marx. A quale conclusione si perviene su questa via? All’affermazione che l’odierna tendenza all’irrigidimento e all’appesantimento della giornata di lavoro, e -altra faccia della stessa medaglia- alla crescita della disoccupazione (più o meno temporanea) sono le inevitabili conseguenze delle regole di funzionamento del modo di produzione capitalistico e del fatto che esso è giunto al suo capolinea storico. Sperare che il sistema capitalistico possa essere diverso da quello che è, è un sogno (pericoloso). Cosa ne discende? Primo: che, non diversamente da ieri, un nuovo, significativo limite al vampiro del tempo di lavoro può essere messo solo dalla ripresa della lotta del proletariato contro il capitale e le sue istituzioni, e contro il tentativo di mantenerla prigioniera entro le compatibilità del mercato e della concorrenza. Secondo: che, oggi più di ieri, la contesa di classe intorno al tempo di lavoro tocca il cuore del sistema del profitto, trova sempre più ridotti margini di mediazione, richiama e s’intreccia con quella rivoluzionaria per l’instaurazione di un’altro sistema sociale. Terzo: che il tema della riduzione dell’orario di lavoro deve essere rimesso in campo come momento di battaglia non solo sindacale ma anche politica, come momento di ricostituzione di una forza e di un’identità di classe per sé da parte del proletariato, come momento per conquistare "spazio libero" per il proprio sviluppo e la maturazione della propria auto-organizzazione.

Tocchiamo così un’altra caratteristica importante del testo. A differenza di quello che solitamente accade nelle rare opere che oggi hanno l’ardire di denunciare l’oppressione capitalistica o uno dei suoi aspetti, "Tempi moderni, orari antichi" non celebra l’onnipotenza del capitale, neanche inconsapevolmente. Nell’analisi e attraverso di essa non riverbera disperazione per e sulla classe dei lavoratori. Bensì la speranza e la fiducia in un ribaltamento degli attuali rapporti di forza inscritto nella stessa estensione e profondità raggiunte dallo sfruttamento capitalistico. È quello che matura in silenzio -a saperlo guardare- nel fondo dell’animo dei lavoratori: "Si potrà continuare a occultarlo -è scritto a p. 177-, perfino, agli stessi occhi degli operai, così protesi come sono nello sforzo che debbono compiere nella produzione; alla fine, però, questo malessere, come e più che negli anni del sessantotto, esploderà, riconquistando d’un tratto la parola e il tempo perduto. Diventerà chiaro, all’improvviso, che non covava ‘soltanto’ una disaffezione di massa al lavoro, come negli anni successivi alla ricostruzione post-bellica, ma qualcosa di ancora più radicale." Sì, sta covando l’esigenza di passare dal "tempo del mercante", impostosi nei secoli scorsi contro il "tempo della Chiesa", al tempo quale spazio per un pieno sviluppo dell’umanità. Un tempo che potrà affermarsi solo se le macchine saranno utilizzate per liberare l’uomo dalla maledizione del lavoro e non per inchiodarvelo, solo se questi gioielli saranno presi in carico dalla società armonicamente felice del comunismo.

Il capitalismo avverte che questo vulcano si sta caricando. E cerca di controllarlo, deviarlo ed evirarlo con il "gioco" della mondializzazione, con la strumentalizzazione degli immigrati nelle metropoli e con l’avvelenamento politico delle divisioni razziali nel proletariato. Il tema non è svolto esplicitamente e a fondo nel libro. Non mancano però pagine interessanti anche da questo punto di vista. Ad esempio quelle sull’effetto a catena sugli operai di Mirafiori dell’apertura di una nuova fabbrica della Volkswagen in Brasile e dell’estensione della dominazione imperialista sul resto del mondo. È una conferma, nell’empirico, di un nodo per noi vitale: la lotta per la drastica riduzione della giornata di lavoro non può che avere un respiro internazionale...

Il libro è un utile strumento nell’attività dei compagni e dei lavoratori che sono impegnati nel rimettere in pista questa battaglia. Essa richiede come il pane che si riconquisti una conoscenza effettiva e globale della realtà proletaria in cui si è chiamati ad intervenire. Non la potrà coagulare una scienza sociale schierata con la salvaguardia del sistema capitalistico o soddisfatta di una (illusoria) neutralità accademica. Parafrasando Marx, ci permettiamo di dire che anche solo per interpretare la realtà in modo verace (e quindi diverso da quello dettato dal "pensiero unico"), c’è bisogno di sentirsi (ed essere) interpreti e parte integrante delle esigenze del movimento collettivo teso a rivoluzionare tale realtà, a stretto contatto con quelli che ne saranno i protagonisti: i lavoratori. Il libro per certi aspetti è una conferma anche di questa necessità e crediamo che, affermandolo, non travisiamo affatto il pensiero dell’autore.