LA RIUNIFICAZIONE DELLA COREA
BRUTTA BESTIA PER L’IMPERIALISMO

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Sorprendente. Questo il commento più diffuso all’esito dell’incontro di giugno tra i due Kim delle Coree. I capi di due stati tuttora ufficialmente in guerra hanno amabilmente colloquiato e desinato, e, meraviglia delle meraviglie, hanno concordato di dare inizio al processo di riunificazione tra gli stati. "La riunificazione non è il futuro, ma il presente" ha dichiarato Kim Dae Jung, presidente della Corea del Sud. E ha scritto (Corriere, 20.6): "Siamo una stessa nazione, stessa popolazione, stesso sangue. A dispetto di quello che hanno sempre detto all’esterno, i coreani del Nord amano quelli del Sud". Le manifestazioni di giubilo a Nord e a Sud hanno dimostrato come la riunificazione non sia solo l’obiettivo di politiche statuali, ma è un forte e comune sentimento popolare a voler abbattere il muro del 38° parallelo.

La divisione durata 50 anni ha rivelato, con ciò, la sua artificiosità. Il popolo coreano non si è fatto avvincere dall’odio che soprattutto i padrini occidentali del Sud hanno cercato di iniettargli, e, oggi, vuole eliminare tutte le barriere che l’hanno innaturalmente diviso. È questa la garanzia migliore per affrontare con successo gli ostacoli oggettivi (e non sono pochi) e quelli che gli saranno artatamente frapposti per bloccarlo.

A favore della riunificazione militano, poi, altre molteplici ragioni.

Nord: "transizione morbida"

Dopo il crollo del "blocco socialista", la Corea del Nord si era trovata in grandi difficoltà. Le potenze imperialiste occidentali per strapparle ogni autonomia e renderla libero territorio di caccia per i propri profitti, ne avevano decretato l’isolamento stringendola dentro le ganasce di un ferreo embargo, cui avevano costretto anche i governi dei paesi ex-socialisti, i quali, per parte loro, avrebbero avuto, invece, un interesse naturale a conservare il reticolo di flussi commerciali e politici rimastogli in eredità dai precedenti rapporti. Solo la Cina aveva cercato di continuare a sostenere il Nord, per impedire all’imperialismo occidentale di conquistare il dominio completo della penisola coreana, e memore della guerra del ’50-’53, combattuta fianco a fianco (centinaia di migliaia di volontari cinesi accorsero ad aiutare i coreani dall’aggressione occidentale, giustamente avvertita come aggressione alla Cina stessa, e più di mezzo milione vi lasciò la vita), ma il suo aiuto non poteva essere sufficiente. Mancanza di pezzi di ricambio per industrie, attrezzature agricole e di trasporto, penuria di fertilizzanti agricoli e di petrolio, avevano portato il paese sulle soglie di un miseria generalizzata. A ciò si sono aggiunte prima devastanti inondazioni, poi anni di terribile siccità. La capacità di resistenza dei coreani del Nord è stata, ed è tuttora, straordinaria. I becchini dell’Onu e delle Ong hanno sparato per anni cifre apocalittiche sulla carestia, fino a contare 3-4 milioni (su 22) di morti per fame, e hanno messo in scena il teatrino degli "aiuti alimentari" che il dittatoriale regime avrebbe rifiutato. Lo scopo degli "aiuti" è, come sempre, di introdursi nel paese per assumerne il governo, e produrre quelle trasformazioni necessarie al diffondersi della libertà di sfruttamento del capitale occidentale. Con il tempo s’è visto che la Corea del Nord era riuscita a contenere al minimo le conseguenze della carestia, e che provava anche a reagire, dotandosi, per esempio, di autonomia energetica con il ricorso al nucleare. Che le ricerche sul nucleare fossero anche per scopi militari è più che probabile, e più che naturale per un paese vittima degli appetiti dei famelici e super-armati stati usurai dell’Occidente. Con la scusa di "lavorare per la pace" (ovvero disarmare le vittime, mentre si potenzia di continuo il proprio armamento), l’Occidente ha posto la Corea del Nord sotto un pressante ricatto: disarmate e vi aiuteremo, smantellate il "socialismo" e vi sommergeremo di capitali per rilanciare l’economia. Il prezzo da pagare è per i nord-coreani altissimo: cedere ogni autonomia, rinunciare a ogni difesa sociale, consegnarsi senza margini di difesa al più brutale degli sfruttamenti. Ci sarebbe l’alternativa di rispondere all’aggressione con l’incendio di una lotta anti-imperialista che chiami al proprio fianco le masse lavoratrici di tutti i paesi oppressi. Un programma da forza davvero comunista. Quello coreano è "comunismo" al tipico modo stalinista, che cerca di favorire uno sviluppo capitalistico nazionale quanto più indipendente possibile dall’imperialismo, chiamando per ciò alla mobilitazione le masse operaie e contadine, cui dare in cambio un certo strumentario, non solo formale, di "egualitarismo". Date le premesse è ovvio che Kim Jong-Il consideri ormai inevitabile uscire dall’isolamento "socialista", e nuotare nel mare del capitalismo senza le difese che il blocco "socialista" forniva. Ma un conto è mettersi direttamente nelle mani dei padroni del mondo, altro è transitare all’aperta concorrenza del mercato sfruttando il filtro dell’unificazione con la Corea del Sud, con la parte di stesso popolo che possiede più solidi attributi per non essere completamente schiacciati dalle macine dei mercati.

Il momento per tentare questa "transizione morbida" è quanto mai opportuno; anche al Sud sono maturate necessità che rendono conveniente la riunificazione.

Sud: più forza contro la rapina occidentale

Al Sud si era accettata per decenni la separazione, non in maniera convinta, ma, in virtù di uno scambio a lungo vantaggioso. Si lasciava che l’imperialismo usasse la Corea del Sud in funzione anti-URSS e anti-Cina, in cambio di un forte sviluppo industriale e di un miglioramento anche delle condizioni di vita e di lavoro proletarie (conquistate, pur sempre, al prezzo di lotte dure e di scontri violenti con regimi che sono stati a lungo delle vere e proprie dittature implementate dall’Occidente). Oggi, la musica è radicalmente cambiata, e anche alla Corea del Sud non viene concesso alcuno "sconto", non viene lasciata alcuna "nicchia" di mercato. L’imperialismo esige senza mezzi termini che neanche un briciolo dei profitti rimanga nel paese o sia dedicato a conservare quel livello di benessere relativo conquistato dalle masse lavoratrici. Per ultimo la crisi del ’97-’98 ha schiarito le idee anche ai più ottusi.

Vale per la Corea quanto ha scritto (Corriere, 17.7) Steve H. Hanke sull’Indonesia. L’emerito professore americano (firmatario, tra l’altro, del piano per fare del marco tedesco la moneta nazionale del Montenegro) scrive: "Il FMI ha cospirato con l’Amministrazione Clinton e altre potenze occidentali per permettere al caos della valuta di fare il suo incantesimo". Reso onore (per gli allocchi) al motivo democratico (far dimettere Suharto) vomita la verità con una diretta ingiunzione al nuovo presidente: "Il presidente Wahid deve abolire la Banca di Indonesia e la rupia indonesiana". Per adottare il dollaro, of course.

Si parla dell’Indonesia, ma si tratta di tutto il sud-est asiatico. Per ora. Si spera di poter, prima o poi, ingiungere anche alla Cina di "abolire banca nazionale e moneta propria", onde consentire all’onnipotente dollaro di raschiare in tutta l’area fino all’ultimo profitto.

Non basta, insomma, essere amici dell’imperialismo per sottrarsi alla sua insaziabile usura. Ciò è sempre più evidente anche in Corea del Sud, e costringe la stessa borghesia a cercare soluzioni da un punto di vista capitalistico nazionale, per salvaguardarsi, cioè, dalla completa spoliazione a beneficio dei più potenti confratelli di classe che risiedono oltre Pacifico e in Europa.

L’unificazione della penisola offrirebbe, sotto questo riguardo, grandi opportunità. Innanzitutto il capitale del Sud troverebbe una manodopera sufficientemente professionalizzata e con salari ridotti. Poi, avrebbe un mercato domestico più amplio, con infrastrutture e industrie da ammodernare, con ampie garanzia di assistenza dello stato, e magari anche aiuti internazionali. Insomma, un’occasione di profitto, ma anche per ingrandire le proprie imprese, dargli una base più solida per affrontare la concorrenza sui mercati internazionali. Inoltre, l’eliminazione della barriera sul 38° parallelo darebbe finalmente la possibilità all’industria sud-coreana di sfruttare un sistema di trasporti terrestri, emancipandosi dalla sostanziale condizione insulare nella quale si è trovata negli ultimi 50 anni. I traffici con Cina e Russia ne sarebbero oltremodo favoriti (i lavori per autostrade e ferrovie sono già iniziati), ma diverrebbe anche conveniente approvvigionarsi di petrolio e gas dalla Russia.

Blocco asiatico

Quest’ultimo aspetto introduce un argomento che dà alla riunificazione coreana un significato che va oltre le vicende della penisola e riguarda l’intera Asia e, in ultima istanza, il mondo intero, e che non manca di agitare i sonni delle cancellerie degli stati imperialisti.

A nessuno è sfuggito l’intenso impegno diplomatico della Cina per favorire la ripresa dei rapporti tra le Coree, né è sfuggito come la Russia abbia immediatamente rivelato il suo pieno appoggio al progetto. A preoccupare è il fatto che la riunificazione coreana potrebbe assumere, oggettivamente e soggettivamente, il significato di un passaggio deciso alla costituzione di un vero e proprio blocco asiatico, ossia dell’intrecciarsi di rapporti economici, finanziari, politici, militari tali da opporre una resistenza collettiva al tentativo occidentale di impadronirsi completamente delle risorse naturali e umane dell’intera regione. È bene comprendere fino in fondo che si tratterebbe esclusivamente di un’alleanza difensiva, di un tentativo delle borghesie locali di frapporre un argine "anti-imperialista" -dai caratteri genuinamente borghesi- agli appetiti occidentali. Non certo di un blocco in grado di competere con l’imperialismo occidentale per il dominio sul mondo. Gli mancherebbero, al momento, per una tale sfida, tutti i connotati (in termini di potenza economica, finanziaria e militare).

Le vicende dell’ultimo decennio hanno aumentato le spinte in tal senso in tutti i paesi della regione. Il ricatto finanziario, la spoliazione economica, la manomissione politica e militare che le potenze occidentali, anche tramite FMI e ONU, stanno esercitando sempre più brutalmente fanno, di converso, crescere la necessità di unificare le proprie forze per resistervi. Una serie di dichiarazioni diffuse e di atti concreti dimostrano come questa tendenza avanzi. La Cina la persegue lucidamente, la Russia ve ne è pericolosamente (per l’Occidente) attratta.

L’immenso gigante asiatico si erge sempre più minaccioso contro lo sfruttamento che le potenze usuraie dell’Occidente hanno cominciato a imporgli con le cannoniere nell’800 e che continuano a imporgli con i moderni strumenti termo-nucleari e politico-finanziari. Le cancellerie occidentali hanno di che inquietarsi. Può apparire strano che si "inquieti" anche Liberazione (17.6) per il ruolo di primo piano che va assumendo nella politica mondiale la Cina. Ma strano non è per una sinistra che è quieta solo quando il "proprio" imperialismo domina incontrastato il mondo, affettando solo di non condividere l’"eccesso" di mezzi militari adoperati a tal fine (la sua paura è che gli "eccessi" finiscano, prima o poi, con il provocare una reazione uguale e contraria, inducendo le masse lavoratrici dei paesi oppressi a una guerra a fondo contro l’imperialismo, che manderebbe in malora l’intero sistema, ivi comprese quelle briciole distribuite al proletariato metropolitano).

E le cancellerie occidentali si preoccupano. Eccome! Ufficialmente non possono dichiararsi contro la riunificazione coreana, né esistono più le condizioni per suscitare una guerra, come quella del 1950. Non rinunciano, però, a mettere in campo ogni mezzo per ostacolarla, o per condizionarne l’esito, per avere, cioè, un’unica Corea, ma saldamente ancorata all’Occidente. Per far ciò devono dichiarare sempre più apertamente che il loro vero obiettivo è piegare la Cina. E la campagna anti-cinese si incrudisce, infatti, in tutti i sensi (siamo ai tentativi di creare panico per l’"invasione" dei cinesi del territorio europeo, via Serbia, naturalmente). Si potrà, con ciò, far crescere un’ansia anti-cinese in Occidente, molto più difficile che si possa sortire lo stesso effetto in Asia. Lì si tentano strade diverse, come quella, per esempio, di appellarsi direttamente agli operai coreani, prospettandogli il rischio che la riunificazione sia un salasso per le loro tasche (essi sono i veri destinatari delle previsioni terrificanti degli "esperti" occidentali che calcolano in 1.000/2.000 miliardi i dollari necessari a "risanare" il Nord, perché la borghesia coreana, da parte sua, non ha timore di ciò, anzi vi vede solo la possibilità di immensi affari). Nel frattempo si raffinano le più classiche delle strade: ricatti politico-finaziari, attizzamento di focolai di guerra nella regione, che consentano di conservare e rinforzare i presidi armati occidentali e consolidare il ruolo "stabilizzante" degli apparati di dominio finanziario, politico e militare dell’Occidente.

Intanto, però, la riunificazione della Corea toglie ogni giustificazione alla presenza militare nell’area delle installazioni americane. Quella del Nord ha esplicitamente richiesto di voler trattare con uno stato sovrano, e tale non è uno stato che ospita truppe straniere sul territorio. Quella del Sud ha usato toni più cauti, ma ha rivendicato la propria autonomia, confermato che la riunificazione eliminerebbe i rischi di guerra e, per intanto, imposto che le recenti manovre militari congiunte con la marina americana fossero ridimensionate per non "urtare la sensibilità" della Corea del Nord.

Di fronte alla possibilità di dover smantellare la presenza militare in Corea, gli euro-americani hanno cominciato a minacciare che il loro abbandono potrebbe rendere necessario il riarmo del Giappone. Si sa come questo possa risvegliare antiche paure nella regione, avendo la dominazione giapponese della prima metà del secolo lasciato una lunga scia di risentimento e di odio anti-giapponese. Ma è questa soluzione sicura? Vi è la certezza che il Giappone accetti docilmente di intrupparsi in un blocco con le potenze occidentali per andare all’assalto dell’Asia continentale? È tema delicato su cui ritorneremo. Per ora ci limitiamo a segnalare come cresca anche in Giappone l’esigenza di "saper dire di no" (come titola un fortunato libro del sindaco di Tokyo) all’onnipotenza euro-americana.

Su un altro versante la diplomazia occidentale lavora per impedire che al blocco asiatico in formazione si aggreghi anche la Russia. La borghesia di questo paese, pur "delusa" dall’atteggiamento occidentale dei primi anni del dopo-comunismo, potrebbe essere ugualmente interessata a uno scambio con l’imperialismo: rango di potenza regionale in cambio della militanza anti-cinese a fianco dell’Occidente. È partita aperta, cui dedicheremo uno specifico approfondimento.

Anti-imperialismo e rivoluzione sociale

Al di là, dunque, dei vari tasselli che debbono ancora trovare collocazione, il processo di riunificazione della Corea segnala il farsi strada di un’esigenza di blocco anti-occidentale in tutta l’area. Come comunisti internazionalisti non possiamo che salutarlo con soddisfazione, pronti a prendere il nostro posto nella battaglia che incombe, sia in rapporto alle masse proletarie e contadine dell’Asia, che al proletariato metropolitano.

Il piano di questa battaglia è definito dalla concreta strada che la lotta deve inevitabilmente prendere. Le masse lavoratrici asiatiche hanno tutto l’interesse a lottare contro l’oppressione imperialista e vedono di buon occhio la costituzione di un fronte ampio di stati che contrasti l’onnipotenza occidentale. Lo stesso anti-occidentalismo borghese non può prescindere, anzi deve fondarsi sulla mobilitazione delle masse lavoratrici. Ma, mentre questa è l’unica vera arma che possiede, è anche, nel contempo, una prospettiva da cui è spaventato, e che ne determina l’inconseguenza. La messa in moto delle immense popolazioni lavoratrici asiatiche è suscettibile, infatti, di non fermarsi dinanzi all’obiettivo di conquistarsi un’autonomia in senso capitalistico dall’imperialismo, ma di proiettarsi oltre, verso, cioè, anche un proprio riscatto sociale e politico, di classe oltre che di nazione. Oggi, più ancora che nel passato questa trascrescenza della rivoluzione anti-imperialista in rivoluzione sociale, diretta, cioè, anche contro il dominio della propria borghesia, è inscritta nelle possibilità dello scontro. Oggi, più di ieri, è visibile come la "liberazione" dall’imperialismo che le borghesie nazionali perseguono, sia il prodromo di un maggiore sfruttamento delle classi lavoratrici a proprio vantaggio. Oggi più di ieri è visibile come gli stati non sono di "tutto il popolo", ma appartengono alle classi sfruttatrici o sono, comunque, difensori di un sistema di sfruttamento delle masse lavoratrici, anche quando ingaggiano battaglie in nome dell’anti-imperialismo.

Oggi, più di ieri, dunque, per le masse lavoratrici liberarsi dall’imperialismo coincide con la liberazione dal capitalismo.

Nulla in questo processo è, però, automatico. Solo una costante azione dei comunisti organizzati, in Asia e nel mondo intero, può mettere l’azione delle classi lavoratrici sulla strada del loro completo riscatto di classe. E solo una corrispondente azione del proletariato metropolitano può favorire questo processo. Per questo, oltre che registrare come avanzi la lotta contro il dominio di questo putrescente ordine sociale capital-imperialista, i comunisti si dispongono al loro posto nello scontro e chiamano tutti i militanti di classe ad agire di conseguenza: incrementare il lavoro nel proletariato metropolitano, battersi affinchè separi le sue sorti dall’invito alla mobilitazione sciovinista, anti-cinese e anti-asiatica, e si schieri contro le politiche di conquista, di dominio e di sfruttamento dei propri stati, governi e borghesie, così come riprenda a difendersi seriamente dall’aumento dello sfruttamento ai suoi propri danni. È un’unica identica lotta, da condurre in fraterna unità con le masse lavoratrici asiatiche e dell’intero mondo, a partire dai loro distaccamenti di proletari immigrati. È una lotta che esige organizzazione, teoria, programmi che solo il vero comunismo è in grado di fornire.