Italia

PER NON AFFONDARE NELLA MELMA GENERALE,
IL PROLETARIATO DEVE DARSI UN INDIRIZZO DI PARTITO

 

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Ci mancava solo Rutelli. È proprio vero che al peggio non c’è mai fine! Per fermare un dichiarato alfiere anti-proletario, sono in lizza due campioni dell’anti-comunismo. Il primo proviene dalle truppe craxiane, il secondo da quelle pannelliane. Entrambi dalle rispettive postazioni si sono distinti in politiche dirette a estirpare dalla "sinistra" ogni carattere di classe proletario. Se la sinistra diessina si mette nelle mani di simili figuri, senza smettere di cercare alternative, se possibile, anche peggiori (il banchiere Bazoli, l’eterno Fazio o, se del caso qualche altro rappresentante del "moderatismo" non eccessivamente destrorso), è perché, da parte propria di strada per ripulirsi di ogni ipoteca di classe ne ha già percorsa per lunghi tratti. Ancora qualche anno fa tra D’Alema e Veltroni si svolgeva uno scontro nel quale il primo cercava di conservare una qual certa identità di sinistra, che non mettesse definitivamente in soffitta un richiamo agli interessi dei lavoratori. Il secondo discettava di partito democratico da costituire assieme alle frattaglie del centro non ancora fagocitato da Berlusconi, nel cui magma disperdere del tutto i lavoratori e le loro istanze. Oggi, il primo sembra precipitarsi più del secondo verso la completa estinzione persino della forma-partito, alla quale sostituirebbe volentieri fondazioni o quant’altro possa garantire un minimo di presenza politica in grado esclusivamente di affrontare le competizioni elettorali. Entrambi, ad ogni buon conto, concordano sulla necessità di disfarsi de l’Unità, un organo che ancora non ha reciso sufficientemente (nelle apparenze più che nei contenuti) tutti i fili con un passato ritenuto, ora, troppo sbilanciato su una sola classe.

Per fermare le destre bisogna dimostrare di essere più di loro capaci di interpretare le esigenze dei mercati e delle aziende, e di saper meglio di loro realizzarle, scansando le possibili resistenze sociali e politiche che la loro arroganza inevitabilmente produrrebbe. Non più accordi tattici in chiave elettorale, ma un’assunzione diretta, dichiarata ed esplicita delle esigenze del capitale. A riproporre in termini tattici le cose rimane Bertinotti, che pur denunciando la deriva dei Ds e dell’Ulivo, non vede altra prospettiva che quella di stringere con loro un nuovo accordo: desistenza in alcuni collegi in cambio di qualche parvenza di "misure sociali". Nient’altro che scivolamenti ulteriori pur di evitare l’unico modo per contrastare le destre disfacendosi di questa sinistra: lotta e organizzazione sulla base degli interessi di classe, contrasto a fondo di ogni politica "interna" ed "estera" di aggressione alle condizioni proletarie e dei popoli da spolpare a pro’ dell’imperialismo occidentale. Guai se il patto non si realizzasse: nuove fetide ondate di garavinismo e cossuttismo si scatenerebbero dentro il Prc.

Una sinistra continua a riproporsi nel ruolo di gestore moderato dei programmi anti-proletari del capitale nazionale e delle impersonali leggi del mercato, un’altra aspira unicamente a evitare che il livello di compromesso tra le classi, già abbondantemente sconvolto a favore del capitale negli ultimi decenni, non abbia a precipitare ancora di più, pena il definitivo rompersi di ogni "pace sociale", e, con ciò, di ogni elemento che ha concesso a entrambe le sinistre di sopravvivere. Non che il proletariato nel suo insieme manifesti di desiderare qualcosa di più o di diverso da tali propositi. Vale anche per lui, al momento, l’assunto che altro non si può fare che adeguarsi al mercato e ai suoi interpreti, cercando, tuttalpiù, di non buscarne troppe e tutte d’un botto. Vero è che una sua buona parte versa nella sfiducia e s’astiene anche dal depositare la scheda nell’urna (e Di Pietro prova a recuperarla sulla base della sua versione di "legge e ordine", del cui significato e delle cui scarse possibilità s’è già detto nel che fare n. 44), ma la logica del "meno peggio" continua a presiedere a tutte le sue scelte. Su ciò conta la sinistra, e spera di recuperare sul filo di lana l’annunciata sconfitta. Dopo aver digerito rospi come Ciampi, Dini, Prodi e Amato, chissà che non si possa ingoiare anche una serpe come Rutelli, o qualche altra più velenosa ancora.

Avances da destra al proletariato

La sinistra va abbandonando ogni velleità di organizzare e rappresentare le istanze dei lavoratori, ma, con questo, esse non scompaiono, anzi si fanno ognora più brucianti. È gioco forza dover cercare altrove chi le assuma e faccia proprie. Ottimi risultati, in tal senso, ha già raggiunto la Lega, che di consenso operaio ne raccoglie in grande quantità al Nord. Il ripiegare verso la devolution, mettendo la sordina all’obiettivo Padania, e il rinnovo dell’accordo con Berlusconi, hanno, senza dubbio, raffreddato le aspettative operaie, e, soprattutto, depotenziato il protagonismo dei lavoratori tra le sue file militanti. Ma, almeno il voto gli operai del Nord a Bossi non lo negano, né hanno perso la (illusoria) speranza che la Lega possa tornare a essere quell’elemento di rottura radicale, favorevole agli interessi operai, della mefitica situazione attuale, in virtù del quale avevano iniziato a guardarla con simpatia.

Buon ultimo ai lavoratori cerca di riferirsi anche il partito berlusconiano. Non che gli mancasse un certo consenso elettorale da parte degli operai, ma ora si tratta di qualcosa di più. Più di un settore di Forza Italia, in particolare in Piemonte e in Campania, ha preso, infatti, a cimentarsi con l’esigenza di aggiungere al programma del partito uno specifico spazio per i problemi dei lavoratori. Nel congresso piemontese di FI, il coordinatore regionale, Roberto Rosso, si è esplicitamente rivolto agli operai delusi da questa sinistra sottomessa ai poteri forti. In seguito ha organizzato un convegno con la partecipazione di D’Antoni per rivolgersi oltre gli stessi operai di sinistra. Il segretario della Cisl aspira a un ruolo politico a tutto tondo. Progetta non di rifare semplicemente la DC, ma di mettere a frutto, nelle condizioni date, l’insegnamento che deriva dalla storia di questo partito: acconsentire alle necessità del capitale grande, senza penalizzare il piccolo e coltivando il consenso anche di strati popolari. Il suo programma generale non si distingue da quello della sinistra, ma l’uomo è convinto che per ottenere un’attiva partecipazione dei lavoratori al rilancio del capitalismo nazionale sia più funzionale pescare dall’armamentario del "cattolicesimo sociale" piuttosto che da quello ex-Pci. La corrente cui si riferisce ha dato buona prova nel garantire la "coesione sociale" negli anni fulgidi del democristianismo, ma impatta oggi nella stessa identica barriera contro cui si infrange la "sinistra": al proletariato non c’è nessun "di più" da concedere, si tratta solo di togliere; poco cambia se per farlo si ricorre all’uno o all’altro strumentario.

Per il suo progetto, D’Antoni ritiene equivalente iniziare da destra o da sinistra, quel che conta è scompaginare gli attuali schieramenti, e ricostruire un centro che ripeta, aggiornandolo, l’eterno refrain democristiano. All’interno di FI c’è chi ne appoggerebbe il tentativo, ma, per adesso, si cerca di utilizzare il dialogo con lui in chiave di riavvicinamento con le tematiche più proprie dei lavoratori, per cercare di ripulire l’immagine apertamente anti-operaia che il partito si è costruito fin dalla nascita. La questione non attiene unicamente a risvolti elettorali. È più seria. Qualunque partito voglia davvero tentare un rilancio dell’insieme del capitalismo nazionale non può ingaggiare con il proletariato uno scontro permanente. Deve tener conto dei suoi problemi, e, soprattutto, assumere nei propri programmi le sue istanze. Quali condizioni abbisognano, però, per evitare che il tutto si riduca a improbabili e irrealizzabili promesse? A quali condizioni si può garantire al proletariato di dare soluzione, sia pure in parte, alle sue aspettative? Una soltanto: che il capitalismo italiano rafforzi grandemente il suo ruolo imperialista, che partecipi con ganasce più solide alla spartizione del bottino rapinato ai continenti oppressi e che possa, per ciò, affrontare con più forza gli analoghi appetiti dei concorrenti.

La classe al servizio della nazione

Una mobilitazione proletaria, insomma, a favore di una maggiore aggressività del capitalismo nazionale. Il fascismo mostrò di saper manovrare i due corni del dilemma e lanciò l’"Italia proletaria" alla conquista del suo "posto al sole" e contro le "plutocrazie", potendo, con ciò, attuare anche svariate misure "sociali", che mentre concedevano qualcosa al proletariato lo legavano sempre più al carro degli interessi patrii, sciogliendolo, di conseguenza, da quelli di classe. L’opera ebbe un discreto risultato, ma solo grazie al fatto che fu messa in atto da un partito, che mentre rivendicava tutto il potere sullo stato, riusciva a proporsi anche come partito-movimento, cui non solo delegare, ma cui aderire con il proprio diretto protagonismo.

Non una di queste caratteristiche si riscontrano nell’attuale FI e in tutto il Polo. Non una chiara battaglia "nazionale" contro i concorrenti predoni, ai cui piedi si striscia scodinzolando e cercando di mostrarsi più affidabili degli avversari interni nell’interpretarne i comandi. Non una chiara rivendicazione del proprio "spazio vitale" se non qualche briciola per i servizi resi ai capi-banda americani. Non un appello al proletariato a lottare per migliorare la sua esistenza materiale appoggiando l’Italia nella conquista dei suoi spazi imperialisti. Meno che mai l’appello a dar vita a un vero partito di lotta nazionale e internazionale, alimentandolo con il protagonismo delle masse lavoratrici (e piccolo-borghesi) per sé stesse in quanto parte di un’unica nazione (non mai come classe separata, ovviamente). In mancanza di tutto ciò si finisce con il dare spazio a patti elettorali con la Lega, il cui rispetto creerà per l’unità nazionale difficoltà ancora maggiori di quelle già esistenti.

La rincorsa del consenso operaio potrà, dunque, per la destra attuale, portare solo scarsi risultati, sempre validi a dimostrare l’inconsistenza della sinistra a catalizzarli, ma non validi per affrontare in modo conseguente le necessità che l’intera borghesia italiana si trova davanti per fermare il processo da tempo avviato di suo confinamento ai gradini più infimi della pirateria imperialista internazionale.

Partito: questione decisiva per tutte le classi

Per avviare un serio processo di rilancio nazionale, mancano, insomma, a Berlusconi e alle sue truppe tutti i coefficienti. Le dichiarazioni e le doti polemiche del gran capo potranno pure attirare voti, ma non producono un di più di mobilitazione e protagonismo, né danno alcun contributo all’avvio della costruzione di un vero partito. Anzi, a destra come a sinistra la stessa parola "partito" provoca vertigini e senso di vomito. La tendenza generale non è a costruirli i partiti, ma a distruggerli, a negarli, a rifuggirli, nella convinzione che si possa andare avanti nell’"ordinaria amministrazione" e senza avere alcuna percezione del vulcano che, sotto i piedi, cumula la potenza esplosiva di contraddizioni, non solo mai risolte, ma neanche mai davvero affrontate.

Gli uni e gli altri sono, d’altra parte, in buona compagnia. Non si vede chi in Europa stia dandosi da fare per dare strutture organizzate e di lotta ai propri programmi, e sono pochi anche quelli che cercano almeno di avere dei programmi coerenti e che si elevano un tantinello dal giorno per giorno (Haider, Bossi e qualche altro partito che coniuga l’opposizione al "mondialismo" con la riaffermazione di un’identità comunitaria a base territoriale o etnica). Il clima generale di flaccidezza s’è visto anche nell’andamento del giubileo. L’evento avrebbe dovuto rafforzare la fede, dare ai fedeli l’ardore di sostenerla e diffonderla, nonché farli sentire soldati di un partito, quello della fede in Cristo. Per quel che s’è visto finora i segnali sono stati tutti deludenti. Il solo appuntamento che ha avuto una partecipazione massiccia, il giubileo dei giovani, ha mostrato anche tutta la moderazione con cui i cattolici vivono il loro credo e il rapporto con il resto dell’umanità. A Tor Vergata i giovani sono andati convinti che il loro disagio può essere risolto solo nell’ambito di un generale ribaltamento del modo di vivere del mondo attuale, e che la visione cristiana contiene i canoni sia per un mondo più giusto che per una vita individuale più sensata di quella indotta dalla mercificazione avanzante. Ma per darle concretezza non basta viversela dentro, bisogna battersi affinché l’intero mondo la faccia propria. L’appello finale del Papa ("se sarete quello che dovete essere, metterete fuoco a tutto il mondo") è parso, invece, grottesco se raffrontato con i suoi destinatari, tanto bravi a resistere al caldo e alla sete, quanto bravi a lanciare messaggi di tolleranza a "chi non crede" (solo il manifesto -del 22.8- è riuscito a intimorirsi comunque, paragonando l’adunata giubilare a quelle del fascismo. Ogni volta che le masse si muovono, si sa, è una dittatura che si prepara!).

Nessuno vuole imporre qualcosa a nessun’altro, nessuno pensa di dare un’organizzazione adeguata a combattere per le proprie idee, i propri programmi. Nessuno percepisce come le contraddizioni stanno per esplodere (e tutte d’un colpo!), ed esigono che ci si organizzi a combattere per affrontarle. Finché la patina di quieto vivere può essere sparsa sul cancro che avanza nessuno sente di dover fare passi decisivi.

Per quanto ancora potrà continuare questa melassa? Eppure già oggi tutte le vecchie certezze sono messe a dura prova. L’insicurezza sociale cresce e lo stato si rivela incapace di garantire alcuna sicurezza, né economica, né dal crimine grande e piccolo. L’usura finanziaria alita i suoi mefitici miasmi sul collo di milioni di piccoli produttori. La vita degli operai è risucchiata dal vortice della produzione e diviene sempre più precaria e incerta. La ricchezza crescente creata dal loro lavoro si accentra solo a un polo della società, lasciando l’altro in miseria. Le donne sono ricacciate nel loro ruolo di madri e mogli e anche quello sempre più difficile da esercitare. Per i giovani il futuro genera sempre meno speranze. La stessa infanzia è sempre più piegata alle esigenze di sfruttamento economico e le è lesinato sempre meno ogni altro tipo di sfruttamento. Gli stati e le classi proprietarie dell’Occidente proseguono indefesse la loro crociata per rapinare il resto del mondo e ciò provoca la certezza di nuove sanguinose guerre. Per non dire degli stati elefantiaci che assorbono risorse e le distribuiscono tra pletoriche moltitudini di parassiti giganteschi e minuscoli, o delle comunità sconvolte dalla rapina sistematica e costrette a emigrare. Nulla più di ordinario c’è nell’amministrazione di questo marasma e di quello ancor più tempestoso che si prepara.

Ripresa delle lotte e ricostruzione del partito sono tutt’uno

Il proletariato segue disorientato i vari attori sulla scena, attento solo a non subire colpi troppo violenti, ma anche questo "andamento lento" di danni alle sue condizioni ne ha già fatti in grande quantità, e ne continua a fare. Danni economici, materiali, in rapporto al lavoro e alla vita familiare e sociale. Ma il danno peggiore è quello di averlo indotto a disperdere la sua organizzazione distinta di classe, persino quella nella versione pcista che già annacquava gli interessi di classe nell’ambito di un quadro compatibile con quelli nazional-capitalistici. Deve oggi ripartire da un punto molto vicino allo zero, ma non di meno per ripartire anche solo sul terreno della lotta immediata sindacale dovrà fare i conti con la necessità di dotarsi di un proprio autonomo partito, con un programma che assuma su di sé il compito di aggredire tutte le contraddizioni che il sistema capitalista sta portando al loro apice, il che solo potrà fare attingendo a piene mani dalla teoria marxista che quelle contraddizioni ha non solo previsto e studiato, ma alle quali ha dato un quadro generale di effettiva risoluzione.

Per questo, e per nulla di meno, noi comunisti internazionalisti ci battiamo: ricostruire l’autonomia della nostra classe, che vuol dire oggi riprendere la battaglia contro l’offensiva padronale, ritessere i fili dell’unità di classe con tutto il proletariato avventizio, gettare ponti di lotta e di organizzazione al proletariato internazionale e alle masse oppresse dall’imperialismo, e, soprattutto, fare tutto ciò assieme (non prima, né dopo) alla ricostruzione del proprio autonomo partito, il partito comunista internazionale.