IL NO DEI LAVORATORI ZANUSSI AL LAVORO A CHIAMATA

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Dopo Melfi, su cui il piccolo riquadro descrive cosa è stato il modello "partecipativo" per i lavoratori e come vi stanno reagendo, anche alla Zanussi, il simbolo nel Nord-Est della "moderna" tipologia di relazioni sindacali, i lavoratori bocciano a schiacciante maggioranza la piattaforma proposta dall’azienda e fatta propria da Cisl e Uil, facendo riemergere tutte le contraddizioni tra capitale e lavoro che solo l’illusione riformista può dare per scomparse o assopite.

Su 12.074 aventi diritto al voto, ben 10.412 sono andati a votare (considerando gli assenti, per ferie e malattie, è un valore mai raggiunto nelle passate consultazioni), e di questi 6.811 (pari al 67.04%) hanno votato NO, mentre i favorevoli sono stati 3.348 (pari al 32.96%).

Le pretese del padrone (sottoscritte da Cisl e Uil)

A parte il lavoro a chiamata, che era la principale innovazione peggiorativa introdotta nell’accordo dalla direzione aziendale, gli altri punti importanti dell’intesa bocciata erano i seguenti:

Art. 6 - Flessibilità. Fino ad 8 ore la settimana e 96 ore l’anno, per ogni turno. Il contratto nazionale prevede massimo di 64 ore ed esclude 3° e 4° turno.

Art. 7 - Banca ore. Decide il sindacato in che misura il lavoratore può destinare lo straordinario in banca ore. Il contratto nazionale lascia ora la decisione al singolo lavoratore.

Art. 8 - Salari d’ingresso. In Zanussi è stato introdotto nel ’97 (1.350.000 al mese) ed era previsto sino alla fine del ’99, per "rispondere a un periodo di crisi del gruppo Electrolux". Ora, l’accordo è scaduto, il gruppo non è più in crisi ma l’azienda non vuole assolutamente rinunciare a questa agevolazione.

Art. 9 - Tariffe notturne. Gli aumenti previsti erano di 500£ l’ora nel 2001, 500£ nel 2002, 250£ a gennaio 2003 e 250£ a luglio 2003, per arrivare a 3.000£ a fine 2003.

Art. 10 - Reperibilità. Si introduceva la reperibilità fuori orario di lavoro per tutti i giorni della settimana nell’arco delle 24 ore. Il lavoratore comandato non può rifiutarsi e deve garantire la presenza in 30 minuti dalla chiamata.

Art. 12 - Premio di produttività. Aumento del 15% di produttività in 3 anni, con un premio (1.800.000) a obiettivo raggiunto (100%). Nel caso la produttività non aumenti, si perdono i soldi. L’aumento dei pezzi per dipendente è pari al 15%. Dal ’97 al 2000 l’aumento dei ritmi di lavoro è stato del 10%, ottenuto aumentando ovunque i cartellini, portando le linee sotto il minuto, riducendo il personale e aumentando le ore di lavoro.

Art. 13 - Premio Boden. Legato alla completezza e tempestività nell’esecuzione dei volumi come da documentazione aziendale. Tra gli obiettivi c’è di abbassare il costo del lavoro. Ogni voce deve superare l’85% del programmato, altrimenti si perde tutto il premio.

Tutte queste misure proseguivano ulteriormente il cammino verso un aumento della flessibilità e della stratificazione dei lavoratori. Aumentano le quote di salario legate alla produttività, cioé all’intensificazione dei ritmi , e solo se si raggiungono gli obiettivi si può contare su aumenti del 5% l’anno. Gli aumenti, poi, sono legati all’ immediata risposta dei lavoratori a eventuali ordini improvvisi e alla rapidità nell’esecuzione. Accettato l’accordo, il premio rappresenterebbe da una parte un vincolo per i lavoratori a essere più flessibili sugli orari (è previsto l’allungamento di tutte e 4 le turnazioni), dall’altra determinerebbe divisioni tra gli operai in quanto i nuovi assunti, i precari, hanno -a parità di lavoro- quote di premio più basse (all’oggi sono esclusi per almeno due anni dalla possibilità di percepire i premi!).

Come in ogni contratto, non mancava il capitolo inadempienze, in cui l’azienda concentra la sua capacità intimidatoria e repressiva. Questa voce permetteva di togliere tutti i "benefici" concordati qualora i lavoratori oppongano resistenze (ossia si mobilitino) durante la fase applicativa dell’accordo.

Il lavoro a chiamata

Il punto della piattaforma aziendale e del mancato accordo che ha ricevuto più enfasi dalla stampa ed è apparso clamoroso, è stato l’art. 4, riguardante il "job on call", il lavoro a chiamata, subito ribattezzato come l’atto di nascita dell’"operaio squillo". Una definizione cinica e schifosa, ma nello stesso tempo disgraziatamente veritiera dell’odierna condizione operaia, che costringe il lavoratore a una vera e propria forma di prostituzione, per cui non vende solo le proprie braccia, ma la sua stessa vita.

Cosa prevedeva in sostanza, il contestato art. 4 presente nell’accordo?

Art. 4 - Contratti a chiamata. Diverse centinaia di assunzioni a tempo indeterminato con garanzia di 500 ore annue in periodi prefissati, ma soprattutto chiamate repentine in caso di ordini industriali da evadere urgentemente, con un preavviso di 72 ore (riducibili a 48 "su consenso" del lavoratore), per prestazioni impreviste, un numero minimo garantito di giorni lavorati e una maggiorazione retributiva di circa il 5%. Nel periodo non retribuito, il lavoratore può partecipare a corsi di formazione concertati tra azienda e sindacati.

La Zanussi vista da dentro.

Parla un delegato della Fiom che è alla Zanussi da oltre 24 anni ("La Stampa", 4.7.2000).

[ ] "La maggioranza degli stabilimenti Zanussi sono a nord-est, dove il tasso di disoccupazione è intorno allo zero. Qui non c’è il problema del lavoro che manca e neanche della flessibilità, ci sono tutte e due in abbondanza. Se prendiamo dieci buste paga Zanussi e le confrontiamo, vediamo che sono tutte diverse. Quando sono entrato facevo 8 ore al giorno, dalle 7 alle 4 del pomeriggio. Adesso dalle 5 del mattino c’è un va e vieni per tutta la giornata. Si lavora anche il sabato con gli orari più strani.

[ ] Fim e Uilm dicono che il lavoro a chiamata aiuterà soprattutto i giovani e le donne, ma io non sono d’accordo, anzi, è una ulteriore introduzione di precarietà.

Già oggi il salario d’ingresso è di 1.300.000 al mese e riguarda al 90% lavoratori extracomunitari. Saranno loro in maggioranza ad accettare il lavoro su chiamata perché, con la minaccia d’espulsione dall’Italia, grazie a questo tipo di contratto potranno dimostrare alle questure di avere un lavoro.

Resteranno qui, d’accordo, ma a quali condizioni di vita? Succederà che si potrà essere tirati fuori dal letto con il miraggio di un contratto di lavoro decente e che i più disperati saranno davanti ai cancelli alle 6 del mattino a supplicare di essere presi. Alla Fincantieri di Portomarghera succede così. Vi ricordate cosa vuol dire caporalato ?".

Bene, questa denuncia, in quanto coglie lo sfruttamento che giornalmente subiamo, così come è giusto evidenziare che se l’attacco padronale non viene fermato in una fabbrica, si ripercuote sulle altre (Fincantieri è un esempio molto indicativo). Ma un delegato dei lavoratori dovrebbe farsi carico anche di dare un indirizzo e una prospettiva di lotta. O sono bastati tre governi "amici" e la politica sindacale del "non disturbare il manovratore" a passivizzarci al punto da renderci innocui?

Nella storia del movimento operaio, questa innovazione rappresenta un salto all’indietro, un ritorno alle condizioni precedenti le lotte per la conquista delle 8 ore, con cui si impose una separazione tra il tempo dedicato al lavoro e quello dedicato al riposo e alla riproduzione. Per il capitale rappresenta un enorme balzo in avanti, in quanto si appropria così, ancor più, dell’intero tempo di vita del lavoratore. Al lavoratore viene chiesto di lavorare per un minimo di 500 ore annue; in cambio l’azienda, con una paga "certa" per soli tre mesi, ottiene la totale disponibilità del lavoratore in qualsiasi momento gli serva: giorno, notte, sabato e domenica.

Questa forma di lavoro, già applicata in Olanda, ha trovato pieno consenso da parte di Fim e Uilm.

È indicativo quanto dichiarato da Pier Paolo Baretta, segreteria nazionale Cisl: "Sono per un contratto nazionale più leggero, di garanzia, che si occupi di difendere i salari dall’inflazione e che definisca la cornice delle regole. A livello decentrato o territoriale invece, è necessario legare il salario alla produttività. Non abbiamo preclusioni, e teniamo ben presente che in Italia ci sono realtà diverse, un conto è trattare in Veneto, un altro al Sud" (Il Gazzettino, 14.6.00).

Una cornice di regole da stravolgere in sede decentrata, come piace a Confindustria. Da chi è di casa nei salotti di Berlusconi ci si può aspettarsi altro?

La Fiom, nonostante l’iniziale parere favorevole di una parte delle Rsu aderente alla stessa Cgil, ha respinto l’ipotesi contrattuale "in quanto cancellerebbe istituti già rodati come il lavoro a termine, che già è una voce delle dodici forme di lavoro atipico previste dalle normative vigenti". Insomma, non è che la Cgil abbia fatto barricate: si è limitata a dire che erano sufficienti le forme di flessibilità già concesse. È una scena già vista altre volte…, prima dell’introduzione di nuove forme di flessibilità.

L’atteggiamento consenziente di parte delle Rsu Fiom di fronte all’ipotesi contrattuale è comprensibilissimo, visto che la stessa Cgil educa da decenni i propri quadri, delegati e lavoratori a un’azione sindacale tutta improntata al rispetto delle compatibilità aziendali, alla difesa degli interessi dell’economia nazionale, all’accettazione dei sacrifici qualora l’azienda non "tiri", all’accettazione di ogni forma di precarizzazione delle condizioni di lavoro, a partire dalla sicurezza e dalla salute fino all’introduzione di salari differenziati anche per le stesse mansioni lavorative. Se non nelle dichiarazioni di principio, nei fatti anche la Cgil ha finito per accettare ogni forma di flessibilità, se è utile all’azienda per essere più competitiva sui mercati.

La Fiom, o meglio l’ala "dura" della Fiom, percependo l’umore negativo dei lavoratori, si è opposta all’accordo, accusando la Zanussi di violare il contratto nazionale, e rimandando il tutto alla consultazione dei lavoratori.

Rifondazione non è andata oltre le posizioni dell’ala "dura" della Fiom, limitandosi a far credere che si possa arginare l’attacco con l’appello al governo di centrosinistra (simile a quelli che negli scorsi anni, sostenuti da Rifondazione, hanno introdotto tutte le riforme peggiorative in materia di rapporti di lavoro, tra le quali il lavoro in affitto, il part-time, e ogni sorta di precarietà).

La critica che Rifondazione muove (con una interrogazione parlamentare) è limitata al mero campo giuridico e istituzionale, in quanto l’accordo violerebbe tutte le normative che regolano sia il contratto a tempo indeterminato, sia i contratti "atipici", limitandosi a chiedere al governo "se è intenzionato a predisporre un disegno di legge che mira a rendere legittimo un contratto, quale quello siglato dalla Zanussi, e da alcune OO.SS., modificando alcuni principi del nostro ordinamento del lavoro".

Questo modo di "condurre la lotta" (meglio sarebbe dire: di dirottare e sabotare) tra le poltrone di Montecitorio, è gravido di sconfitta. Perché non chiama in campo i lavoratori né spinge per una loro risposta in prima persona, ma delega la battaglia al parlamento, un parlamento che sta più che mai dalla parte dei padroni, svendendo la disponibilità espressa dai lavoratori con il NO, nel referendum, ad agire contro questa nuova forma di caporalato.

Il risultato referendario premia la coerenza e la disponibilità alla lotta che la parte più combattiva delle Rsu ha messo in campo in questi mesi (come nella vicenda delle "ferie lunghe" per i lavoratori immigrati). Questa fiducia non deve andare sciupata!

Bisogna capitalizzarla, costruire iniziative di lotta e di riflessione sull’attuale condizione di lavoro ed estendere la denuncia e l’azione contro la flessibilità e la precarietà, (cos’altro è il "job on call" se non una generalizzazione della flessibilità?), anche alle altre fabbriche in Italia e nel mondo. È questo l’unico argine reale davanti all’attacco del fronte padronale.

E ora?

È opinione di alcuni delegati che anche il prossimo congresso della Cgil può rappresentare un momento in cui i lavoratori della Zanussi dovranno far pesare questo risultato, trasmettendo agli altri lavoratori la propria esperienza, la propria determinazione, sì da poter organizzare insieme ad altre realtà un vero argine di resistenza.

Fiat di Melfi:
quando la "partecipazione"
è uguale a più sfruttamento!

Da un recente studio, riportato sulla rivista fine secolo, in cui si descrivono le condizioni di lavoro alla Fiat-Sata di Melfi, emerge un notevole scarto fra quanto teorizzato dalla Fiat e quanto realizzato a proposito di fabbrica "integrata" e modello "partecipativo". Anche se questa rivista non arriva alla, per noi ovvia, conclusione che il "modello partecipativo" è un modo per ingabbiare e fregare la classe operaia, evidenzia però il senso del fallimento di questo modello, riportando alcuni dati estremamente indicativi:

· È aumentato il numero di coloro che lasciano "spontaneamente" il posto di lavoro in Sata (1.200 lavoratori dall’inizio della produzione in una regione, la Basilicata, dove la disoccupazione ha uno dei tassi più alti).

· È aumentato il tasso di assenteismo. Si sopporta sempre più mal volentieri il carico di lavoro, a partire dai turni intensissimi.

· È aumentata la propensione verso il sindacato, i lavoratori hanno imparato a riconoscere le differenze fra Fiom e Fim (purtroppo non enormi) meglio rispetto allo studio analogo portato avanti nel ’98.

· È aumentato il numero dei livelli gerarchici in fabbrica, alla faccia dell’integrativo aziendale che ne prevedeva la diminuzione.

Già questi dati potrebbero bastare a mandare in frantumi tutta la mitologia esistente in materia; che parte da lontano dalla stessa costruzione del "socialismo" in un paese solo, passando per l’autogestione della fabbrica fino ai modelli partecipativi dell’oggi. Altrettanti modi per tenere insieme interessi e classi che sono antagonisti. Dalla nascita del capitalismo, ancora di più oggi, la contraddizione socialismo o barbarie è insanabile; per noi e la nostra classe questo, e non altro, è -al fondo- il livello dello scontro.

Noi non escludiamo che anche quella sede possa essere utilizzata a questo scopo. Ma non dobbiamo incamminarci su strade fuorvianti, come sarebbe il rincorrere lungo la loro strada i vertici sindacali alla ricerca di ricucire la loro unità a spese dei lavoratori, sciupando una prima reale unità dei lavoratori già esistente, nella pia illusione di convincerli che la loro posizione non è corretta.

Bisogna trarre un bilancio complessivo di tutta la politica sindacale degli ultimi decenni, e comprendere che le condizioni dell’oggi sono frutto non solo delle pretese dei padroni, ma anche di questa politica. Nessuna libertà può venire alla classe operaia dai modelli "partecipativi". Per chi vive del proprio lavoro, sempre più le condizioni di vita (da schiavi salariati) dipendono dalla capacità di auto-tutela, di auto-organizzazione, che la classe operaia in Italia, insieme alle altre sezioni del proletariato riuscirà a darsi, e dalla capacità d’instaurare momenti di comune difesa, superando i confini aziendali e nazionali, unendosi e organizzandosi con i lavoratori d’ogni angolo del mondo contro ogni forma di precarietà e flessibilità.

La capitalizzazione di questo bell’episodio di resistenza operaia si potrà avere solo quando cominceremo a contrapporre sistematicamente alla linea delle compatibilità con le aziende e con l’economia nazionale, i nostri interessi indipendenti di classe, raccogliendoci in un partito che si batta coerentemente per essi. Solo se riusciremo a sviluppare la consapevolezza della necessità di un vero programma di lotta, senza illuderci che a fermare l’attacco padronale basti una scheda nell’urna (sia detto senza per nulla svilire, con questo, la significativa risposta dei lavoratori), saremo in grado di difendere veramente le nostre condizioni di vita.

Viceversa, se non riusciremo a portare avanti conseguentemente lo scontro, questa stessa battaglia potrà ritorcersi contro di noi. Se il prevedibile contrattacco padronale non verrà respinto, non solo avremo sciupato il successo ottenuto, ma da subito il fronte padronale giocherà la carta ricattatoria per cui, a causa della bocciatura della piattaforma, non si potranno tenere tutti gli impianti Zanussi in Italia, e sia la Fim che la Uilm saranno prontissime a rivendicare la coerenza del loro SI (nel "nostro interesse", chiaramente!). Non avevamo neppure finito di scrivere, e già la Zanussi si è messa su questo terreno. Non facciamoci ricacciare indietro, compagni operai, diamo al padrone la risposta che merita!