LA RIVOLTA DEI SENZA TERRA DELLO ZIMBABWE
CONTRO L’IMPERIALISMO BIANCO E SFRUTTATORE

Indice

 


 

Riesplode con le occupazioni delle terre dei proprietari bianchi in Zimbabwe la questione mai risolta della proprietà della terra, della riforma agraria in tutta l’area dell’Africa australe e nel resto del continente. Viene alla luce con essa la dimensione della polarizzazione mondiale delle risorse agro alimentari, l’incapacità del sistema capitalistico internazionale di risolvere le necessità primarie dell’umanità e la sua opera di folle distruzione di risorse naturali e di uomini. Quest’opera si è risolta in Africa con la sistematica demolizione del tentativo dei giovani stati, usciti dalla rapina del primo colonialismo, di dare seguito alla propria indipendenza nazionale e di impiantare un proprio mercato interno. La dissoluzione economica di un intero continente voluta dall’imperialismo, però, nel celebrare la sua vittoria sulle ceneri delle "rivoluzioni nazionali incompiute" rende impellente la necessità per milioni di diseredati africani di re-indirizzare la propria ribellione contro chi in loco e dall’esterno è il diretto responsabile della propria condizione: l’imperialismo bianco e sfruttatore.

 


Un ruggito nero e violento…

Le occupazioni delle terre, che sono riprese all’inizio di quest’anno in Zimbabwe e poi anche in Kenya, non si sono limitate ad interessare le terre incolte dei "proprietari assenteisti", ma hanno puntato direttamente alle aziende dei farmers bianchi.

Le occupazioni, guidate dai veterani della lotta anticoloniale, sono state decise e violente ed hanno, perciò, scosso le anime pie della stampa occidentale. Il quadro reiterato e "tranquillizzante" (per profittatori e finanzieri occidentali) di un’Africa in decomposizione, brutalmente in lotta fratricida… ma "confortata" dall’intervento umanitario dei bianchi, è stato turbato quindi dalla violenza portata direttamente contro i proprietari terrieri eredi dei primi colonizzatori inglesi.

La brutalità questa volta ha colpito la razza neo-civilizzatrice dell’Africa "martoriata".
E qualcuno, distratto dai nuovi processi democratici africani e dalle pubblicità Telecom di Mandela, ha scoperto all’improvviso che in Africa esistono "ancora" latifondisti bianchi e senza terra neri… e che quest’ultimi, a volte, indirizzano "ancora" la propria "indole barbarica" contro il colono bianco e padrone.

Noi sappiamo che questo latifondismo è una diretta conseguenza del democratico sistema imperialista, e facciamo nostra la battaglia contro i vecchi e nuovi predoni bianchi e la sacrosanta brutalità dei senza terra africani. Facciamo nostre le invocazioni di una nuova "chimurenga" dei neri dello Zimbabwe, gli appelli ad una nuova rivolta dei "mau-mau" degli sfruttati del Kenya, che rientrano a tutto titolo nella battaglia internazionale del proletariato contro il capitalismo, oggi più che mai antistorico e devastatore.

Le vere cause della dissoluzione economica del ricco Zimbabwe

L’ennesimo "mostro africano", con tanto di feroci seguaci dotati di machete e di nazistici soprannomi, è questa volta il moderato Mugabe, presunto ed artificioso istigatore delle occupazioni delle terre, già additato ad esempio dalla borghesia occidentale per aver accettato negli anni ’80 una "linea" di indipendenza morbida, lasciando ai bianchi la proprietà delle terre ed evitando le soluzioni "radicali" di paesi come l’Angola ed il Mozambico legati all’ombrello russo.

Naturalmente, la stampa borghese, anche quella illuminata e di sinistra commossa dalla povertà africana allo stesso modo in cui è terrorizzata dalla violenza degli "squatters" ha definito come un rigurgito populista di un leader assetato di potere il rilancio della proposta di confisca senza indennizzo delle terre dei bianchi e le recenti dichiarazioni del leader moderato: "ora o mai più la terra deve andare al popolo". Non sono mancate le sinistre critiche all’impegno militare di Mugabe in Congo, al suo nepotismo dilapidatore delle risorse pubbliche; nonché ripetute sottolineature sulla natura popolare dell’opposizione democratica e sindacale. Si, cari signori, Mugabe non è uno stinco di santo; buona parte della popolazione stremata dalla fame e dalla crisi (e per questo ricattata ed utilizzata dalle organizzazioni politiche dei bianchi) ha da tempo perso la fiducia in lui e nel suo partito. Ciò che non dite, o perfidamente affermate a latere, è che questa fiducia è stata perduta per l’impossibilità di dare avvio a qualsiasi seria riforma agraria grazie alla rapina costante, il boicottaggio continuo da parte di chi detiene realmente il potere in Zimbabwe. Solo la faccia tosta, l’interesse di classe e l’indegnità morale può giustificare le analisi che sciorinano dati sul 50% di disoccupazione ed un inflazione superiore al 70% per attestarne le cause nelle ruberie ed inefficienze locali. I "rigurgiti populistici" di Mugabe sono solo il riflesso della sacrosanta rabbia degli sfruttati in un paese in cui il 75% delle terre coltivabili è in possesso di meno di 4000 bianchi su una popolazione di 12 milioni e mezzo di abitanti.

Lo Zimbabwe (ex Rhodesia) si è affacciato sulla scena dei movimenti anticoloniali in ritardo rispetto ad altri paesi Africani. La propria indipendenza formale risale al 1980, quando il movimento di liberazione nazionale guidato da Mugabe e dallo Zanu, in concorrenza con lo Zapu (partito legato all’Unione Sovietica), concorda con i proprietari terrieri e con l’imperialismo il nuovo "assetto democratico" che succederà al Governo razzista di Ian Smith e che lo vedrà vincitore delle elezioni. Trionfa la linea della "crescita nella giustizia" ovvero del tentativo di avviare un processo di costruzione del mercato interno e di redistribuzione delle terre attraverso un loro graduale riacquisto da parte dello Stato in accordo con gli ex padroni bianchi, le cui proprietà ed il cui potere restano nei fatti intatti dopo la caduta di Smith.

La borghesia occidentale plaude alla linea moderata di Mugabe e con gli accordi di Lancaster House e dello Zimcord (Salisburgo ‘81) un vasto schieramento di paesi e gli organismi della finanza internazionale si fanno padrini e finanziatori dei piani di ricostruzione del paese (tra gli umanitari sostenitori si distingue la finanza della Santa Sede).

In realtà questo sostegno, e tutto ciò che ne conseguirà, si rivelerà nient’altro che la continuazione con altri mezzi dell’espropriazione delle risorse del paese con caratteri sommamente distruttivi.

Dalla rapina coloniale… al regime segregazionista

La prima fase del colonialismo si era impossessata di un paese in cui le ricchissime risorse minerarie, la straordinaria fertilità della terra degli altopiani, l’abbondanza di acqua, l’eccezionale rigoglio di una natura, peraltro di particolare bellezza e addomesticabilità, passarono agli invasori bianchi attraverso l’espropriazione, lo sterminio degli autoctoni e la rapina diretta operata dall’onorevole Compagnia, concessionaria di sua Maestà Britannica, capeggiata da Sir Cecil Rhodes.

Il Governo dei coloni, resosi "indipendente" dalla madrepatria inglese, aveva continuato questa rapina attraverso la sanzione di un regime di segregazione che confermerà il possesso delle terre coltivabili nelle mani dei bianchi e confinerà la popolazione nera nelle Tribal Trusts Lands. Alla dissoluzione violenta della economia di sussistenza e di villaggio si sostituirà una scientifica segregazione della popolazione nera in terre aride ed inospitali per ottenere manodopera sottopagata nelle farms bianche. Al termine di questa opera la terra in possesso della gran parte delle famiglie nere sarà di una estensione pari alla metà di quella stimata, dati i livelli di produttività reali, per garantire la sopravvivenza.

…all’indipendenza formale

Il Governo Mugabe, eredita e conserva intatta nella sostanza la struttura dell’economia coloniale che permane nonostante l’abolizione nominale del segregazionismo.

La maggiore apertura alla finanza internazionale per guidare la "crescita nella giustizia" contribuisce a squilibrare e polarizzare ulteriormente le risorse del paese esponendolo ad una dipendenza totale ed inerme. Per apparente paradosso l’economia schiavistica dei farmers bianchi aveva nel passato e sulla pelle della popolazione nera accompagnato la produzione di tabacco e mais con una parziale indipendenza finanziaria, con una limitata differenziazione della produzione e con l’introduzione di industrie di trasformazione. I finanziamenti occidentali impongono un più stretto e rigoroso allineamento alle necessità del mercato agro-alimentare mondiale nel mentre le industrie estrattive rimangono sotto il totale controllo delle multinazionali; l’economia agricola di esportazione diviene totale e sempre più monocolturale (tabacco), la dipendenza finanziaria ed il pagamento delle rimesse sul debito e sui servizi inchiodano ulteriormente il paese al destino di produttore per le esigenze dei finanziatori occidentali, mentre l’apertura della "libera economia" -ovvero i consumi di lusso di merce occidentale dei bianchi, l’esportazione dei capitali e della valuta- determinano una inflazione crescente a cui lo schiavismo globalizzato e perfezionato della finanza mondiale risponde imponendo ulteriori limitazioni a salari e spesa pubblica.

Questa espropriazione delle risorse rende i piani di sviluppo, pure scritti sulla carta da Mugabe, totalmente inattuabili. Nonostante tutto nei primi anni 80 una serie di misure per il riacquisto delle terre, per un limitato supporto dello Stato ai reinsediamenti comunitari ed all’economia familiare, così come un piano di alfabetizzazione e di assistenza sanitaria, sollecitano le premesse infrastrutturali di un mercato interno reale tentando di svincolare la piccola produzione nera dal ruolo di semplice rimessa in prodotti ed uomini (il 40% delle famiglie aveva almeno un membro impiegato nelle farms bianche) in favore dei padroni bianchi e del mercato internazionale. La stessa politica di finanziamento delle farms bianche (imposta dai finanziatori occidentali) viene accompagnata da un graduale piano di aumento dei salari che si riprometteva l’obiettivo di raggiungere un salario minimo corrispondente al 90% della soglia di sussistenza.

attraverso il boicottaggio bianco dei tentativi di sviluppo

Tutti questi tentativi del Governo sono fatti saltare attraverso una mirata ed infame politica di boicottaggio comune del capitale occidentale e dei farmers bianchi. La Standard Bank (a capitale finanziario bianco, estero ed interno ) -in possesso delle reali leve finanziarie di un paese dove la Banca Centrale, nominalmente con compiti di puro controllo, non ha mai avuto alcun potere- svolge un sistematico boicottaggio della prudente politica di Mugabe per gli aumenti salariali, supporta la speculazione finanziaria dei "proprietari assenteisti" innalzando il prezzo della terra ed impedendo quindi, di fatto, al Governo perfino il riacquisto previsto nei primi programmi di sviluppo. Il Sud Africa, dietro impulso dell’imperialismo anglo-americano, boicotta, nel corso degli anni 80, la produzione del mais attraverso politiche di dumping che mandano in rovina le piccole aziende familiari nere. Quando Mugabe prova a disimpegnarsi dalla morsa congiunta della dipendenza dal capitale estero e dalle forniture sud africane, non si esita ad impiegare un terrorismo sistematico, per il sabotaggio dei mezzi di comunicazione, utilizzando finanziamenti e basi sud africane per operare tanto in Mozambico che in Zimbabwe. La stessa dipendenza dalle forniture e dai servizi esteri è opportunamente utilizzata come ricatto permanente; con il semplice ed artificioso aumento dei prezzi dei servizi si mette in ginocchio l’economia e si aumenta in maniera esponenziale la sottomissione alla finanza mondiale. Le pur concessive condizioni poste al capitale straniero (rimpatrio del capitale investito dopo 2 anni previa deduzione dei profitti realizzati e trasferimento dei benefici netti fino al 50% per un periodo di 6 anni) vengono di fatto scavalcate attraverso la sopra-fatturazione dei beni importati e la sotto-fatturazione delle esportazioni.

Lo Zimbabwe dei giorni nostri, dei senza terra, della fame e dell’AIDS è il frutto di questa sistematica opera di boicottaggio, sfruttamento e rapina

Lo Zimbabwe può essere un segnale per tutta l’Africa

La sua vicenda illustra come la dissoluzione dell’economia di tutto il continente Africano sia la conseguenza della generale spoliazione che a scala mondiale ha condotto l’imperialismo finanziario.

Il cosiddetto "disastro economico" di un intero continente, non è il prodotto di asettiche cause naturali o di "incontrollati incrementi demografici", poiché le risorse di questi paesi più che altrove sono in maniera evidente potenzialmente eccezionali. La siccità, la difficoltà di sfruttare la terra, la sua desertificazione, la debolezza e la dipendenza dell’apparato produttivo, l’impossibilità di sfamare la popolazione sono il portato diretto della continua opera di rapina e di espropriazione messa in atto dal grande capitale internazionale.

Le potenze occidentali, nonostante abbiano dovuto -sotto la spinta delle lotte di liberazione nazionale- rinunciare al dominio politico diretto di tipo coloniale, continuano a drenare risorse dallo Zimbabwe, come da altre nazioni del terzo mondo, aggravandone la condizione di dipendenza e di oppressione reale, attraverso le "semplici" leggi del mercato.

Non è un caso se oggi le crociate dell’imperialismo, attraverso l’intervento politico, economico e militare, sono condotte all’insegna dell’affermazione ovunque della massima apertura delle economie alla libera circolazione delle merci e dei capitali (ovvero per la fine di ogni tutela dell’economia locale, liberamente data in pasto all’imperialismo).

La peculiarità dello Zimbabwe e del Sudafrica rispetto ad altri paesi della stessa Africa, risiede nella consistente presenza in loco di proprietari -terrieri e non solo-, che non casualmente sono di razza bianca.
Il tipo di colonialismo subìto, le caratteristiche del processo di liberazione realizzatosi, hanno segnato profondamente la sorte di questi due stati, impedendo qualsiasi seria riforma agraria in grado di dare risposta alla fame di terra da parte dei contadini di colore.

Ecco perché in questi due paesi la questione contadina è particolarmente sentita e il movimento per la riappropriazione della terra estremamente combattivo. Qui, come ad esempio in Brasile o in India, il nemico non è costituito solo dalle inafferrabili multinazionali o dalle impersonali leggi del mercato che impoveriscono e proletarizzano il contadino, ma anche dai ben visibili e riconoscibili proprietari terrieri che impediscono ai contadini l’accesso alle terre coltivabili.

Un "pericoloso" esempio che può contagiare le masse contadine degli altri paesi e ridare fiato alla mobilitazione antimperialista in tutta la martoriata Africa. Un continente reduce da un decennio in cui l’imperialismo (in particolare quello USA, scalzando i concorrenti europei e utilizzando la dismissione russa per destabilizzare anche gli stati in cui la liberazione politica ha coinciso con provvedimenti relativamente "più radicali" di tutela dell’indipendenza reale), ha imposto un ritmo accelerato all’espropriazione totale delle sue risorse ed alla dissoluzione della sua economia.

Un esempio che potrebbe invertire la tendenza allo scontro fratricida, impulsato dalle potenze occidentali per mantenere il proprio controllo nell’area, che sembra ormai essere il dato prevalente in tutta l’Africa sub-Sahariana.

Ciò spiega il giustificato terrore dell’imperialismo per la ripresa delle occupazioni delle terre in Zimbabwe. Un terrore vieppiù aumentato dal carattere transnazionale di questa spinta e dalla vicinanza del Sud Africa, che condivide con lo Zimbabwe il problema della espropriazione pressoché totale della popolazione nera. La battaglia dei contadini senza terra si potrebbe saldare con la lotta della classe operaia delle fabbriche in una ripresa radicale e violenta del conflitto contro la dominazione "neo-coloniale".

La nostra soluzione alla inconseguenza delle borghesie nazionali

Esattamente per gli stessi motivi noi comunisti internazionalisti guardiamo con estremo interesse alla ripresa di queste lotte e denunciamo la campagna denigratoria che ne stanno facendo i partiti e la stampa borghese, per screditarle agli occhi dei proletari occidentali.

Esse sono la testimonianza, insieme all’attuale condizione dell’Africa, di come l’imperialismo abbia riguadagnato terreno, nonostante la conclusione vittoriosa dei moti anticoloniali della seconda metà del ‘900, ma anche di come il rafforzamento del suo dominio torni a suscitare rivolte e ribellioni.

Il generale rinculo delle rivoluzioni anticoloniali (e non solo in Africa) è l’inevitabile risultato del fatto che l’eroica lotta antimperialista dei popoli colorati è avvenuta nel contesto di una sostanziale cesura con la lotta del proletariato internazionale. Cesura a cui lo stalinismo trionfante ha dato il suo decisivo contributo, determinando il rafforzamento delle direzioni borghesi e piccolo borghesi del movimento antimperialista e del loro orizzonte programmatico. La raggiunta indipendenza formale nell’ambito della vigente divisione internazionale del lavoro, pur rappresentando quasi sempre una significativa battuta d’arresto per la prosecuzione della rapina imperialista, non poteva garantire un paritario ingresso nel mercato mondiale di questi paesi, esponendoli progressivamente a ritornare sotto le grinfie delle insaziabili idrovore imperialiste.

Anche quei paesi in cui la lotta è stata più radicale e ci si è illusi di porre degli argini giuridici e istituzionali alla sete di profitti del grande capitale finanziario internazionale, non hanno potuto sottrarsi al vortice del mercato mondiale dovendo subire la centralizzazione imposta dall’imperialismo.

Dobbiamo forse trarre da tale constatazione la conclusione della inutilità del ciclo di lotte anticoloniali che abbiamo alle spalle, ovvero il definitivo superamento di ogni "legittimità" della lotta contro il dominio imperialistico? Assolutamente NO! Ciò che dimostra l’esito delle precedenti lotte è la conferma della impossibilità di una vittoria definitiva contro l’imperialismo senza attaccarne i fondamenti, cioè i rapporti di produzione capitalistici a scala internazionale; la assoluta inconseguenza da parte delle direzioni borghesi e piccolo borghesi del movimento antimperialista a collocarsi su questo piano programmatico perché ciò significherebbe attaccare le basi stesse della loro esistenza in quanto classe.

Quanto al presunto superamento della lotta delle masse oppresse contro l’imperialismo, basta solo guardarsi intorno per vedere quanto, invece, essa si vada estendendo e radicalizzando sulla base materiale di un rafforzamento ed estensione della rapina e dello sfruttamento imperialista. Non si tratta quindi di disquisire se ci possano essere o meno lotte contro il dominio imperialistico, ma quale indirizzo debbano prendere, quale ruolo debba svolgevi al loro interno il proletariato locale ed internazionale.

La prospettiva segnata dalla Terza Internazionale e da Baku, che inseriva l’insorgenza delle masse sfruttate nel moto e nella battaglia internazionale del proletariato per il comunismo era ed è la soluzione del problema. Una prospettiva resa attuale dalla stessa opera demolitrice e centralizzatrice del capitale che ripropone in Africa, come in tutto il terzo mondo, la necessità di riprendere la lotta per la terra e contro il nuovo colonialismo; mentre, d’altro lato, fa esplodere le sue contraddizioni anche nelle metropoli (basti pensare, per restare in tema, alla stessa opera dissolutrice che la centralizzazione del mercato agro-alimentare ha prodotto anche in Occidente, con l’impoverimento di una intera classe di piccoli e medi produttori agricoli, ricacciati nelle fila proletarie).

Quello che i comunisti, le avanguardie di classe, possono e devono opporre alla inconseguenza delle soluzioni nazionali proposte dall’antimperialismo borghese, è la presa in carico in maniera rivoluzionaria della questione della lotta all’imperialismo, sostenendo il programma di una radicale riforma agraria, della organizzazione rivoluzionaria delle masse dei contadini e dei senza terra, del legame e dell’unificazione di area della lotta contro l’imperialismo; programma che va nella direzione di un’unificazione con la lotta del proletariato internazionale oggi ancora assente dalla scena.

Non si tratta di applicare ricette economiche o di transizione per raggiungere una impossibile "vera" indipendenza, ma di battersi per raccogliere la scesa in campo di milioni di diseredati nell’unitaria arena mondiale della lotta al capitalismo. Questa è una parte decisiva dei nostri compiti soggettivi che ci vedono, qui nelle metropoli, impegnati nella battaglia tra la classe operaia perché riprenda su tutti i terreni la propria autonomia di classe. Quanto prima essa riprenderà a battersi autonomamente, a lanciare i suoi messaggi di sostegno incondizionato all’insorgenza del terzo mondo, tanto prima l’aspirazione di quest’ultimo di sottrarsi al cappio imperialista si potrà coniugare con l’unica prospettiva che potrà sfamare il mondo: la rivoluzione comunista internazionale.