Vertenza Fiat

I NODI POLITICI DELLA RIPRESA SINDACALE


La vertenza aziendale del gruppo Fiat ha visto ridiscendere in campo un settore decisivo di lavoratori. Scioperi riusciti in tutti gli stabilimenti (con punte oltre il 90% di adesione), al Sud e al Nord, grande presenza di giovani. Gli operai Fiat hanno dato un segnale di volontà di reazione a una condizione salariale e lavorativa sempre più insostenibile. Come comunisti non possiamo che registrare con soddisfazione questa disponibilità, e con soddisfazione ancora maggiore la reazione di massa, sull’onda di quella lotta, alla mancata riconferma di 147 giovani da parte dell’azienda. Sono tentativi di reagire alla passività e alla rassegnazione. Ma se si vuol fare di questa embrionale riattivizzazione un’occasione di crescita, capace di produrre una reale organizzazione di classe, bisogna fare fino in fondo i conti con i limiti e le illusioni che sono emerse in questa tornata di scioperi.

Innanzitutto tra i lavoratori la logica del minimo sforzo. La massa che è scesa in campo è sì disponibile a fare degli scioperi, ma così come li hanno organizzati i sindacati: senza la necessaria continuità e determinazione (anche se, nello stesso tempo, si approfondisce la sfiducia e la diffidenza verso il sindacato e la gestione delle lotte). Spera che tramite questi scioperi si possa arrivare ad un "buon compromesso" tra interessi operai e aziendali, e così chiudere presto e bene, cioè senza troppi costi, la vertenza.

Ma così non sarà. Senza una vera battaglia, che non consiste solo in alcuni scioperi "sapientemente" diluiti nel tempo, senza un generale movimento di lotta, non ci sarà nessun recupero salariale vero, se non con l’ennesimo scambio sulla flessibilità (come le richieste di nuove turnazioni chieste dall’azienda per le Meccaniche Mirafiori, tanto per iniziare…).

Quel che l’operaio Fiat si trova a dover fronteggiare non è solo un’azienda che respinge il confronto, ma è l’insieme del fronte padronale e del governo che fa della flessibilità (con le più svariate forme di turnazione), dell’utilizzo di tutte le forme di lavoro precario, del legame salario-redditività (per tenere bassi i salari e vincolare ancor più i lavoratori ai destini dell’azienda), e della cancellazione nei fatti di quel che resta della contrattazione collettiva i punti fondamentali della sua offensiva. Lo scontro non è con un singolo padrone (per quanto grande possa essere), ma con la generale offensiva borghese, dettata non da un qualsiasi Agnelli o D’Amato, ma imposta dalle esigenze via via più stringenti della competizione globale, dalla ricerca spasmodica di profitti a cui nessun padrone può sottrarsi. E neanche la classe operaia può eludere l’insieme delle questioni oggi sul tappeto, può solo o continuare a subire arretramenti e peggioramenti senza fine, o accettare lo scontro a tutto campo e attrezzarsi di conseguenza.

Non è un caso che nonostante le richieste sindacali siano estremamente "ragionevoli", la Fiat le abbia giudicate comunque incompatibili. Non si tratta, naturalmente, di un gioco delle parti. Il fatto è che i diktat posti dalla competizione globale del mercato dell’auto (ma il problema è chiaramente più generale) rendono impraticabile la stessa politica sindacale della "concertazione", del "sistema partecipativo". C’è sempre meno da "concertare" (anche con questi sindacati superdisponibili verso le esigenze aziendali), perché c’è sempre più da peggiorare a tutti i livelli la condizione dei lavoratori. Da qui, da quella che è percepita come arroganza padronale (condita con minacce, repressione, etc.) e di fronte alla quale non si può sempre piegare la testa, è scattata la molla della partecipazione agli scioperi.

Se questo è il quadro, è evidente che la battaglia non può essere affrontata esclusivamente a livello di gruppo Fiat, o, come sta effettivamente avvenendo, divisi stabilimento per stabilimento -e, sempre più spesso, spezzettati all’interno dello stesso stabilimento (lavoratori Fiat "fissi", giovani a tempo determinato, interinali, "atipici", operai terziarizzati, cooperative, dipendenti di altre aziende, ecc.)- senza lavorare per costruire una reale unità del fronte di classe proletario. La reazione, all’inizio di febbraio, al licenziamento dei 147 giovani è stata, finalmente!, un segnale in controtendenza a questa divisione, un segnale che deve essere coltivato e rafforzato. Ciò che serve è, sì, l’unità tra "vecchi" e giovani, tra regolari e le mille forme di "atipicità", ma non basta realizzare questa unità in un solo stabilimento, così come non basta realizzarla solo "dentro" lo stabilimento, per uscire davvero dallo stato di debolezza nei confronti dell’azienda e dello schieramento padronale.

Ad esempio la parificazione di trattamento tra i diversi stabilimenti richiesto con gli scioperi dagli operai di Melfi e Pratola Serra è stata accolta dal disinteresse del resto degli operai del gruppo; così come dopo il licenziamento di due giovani delegati di Pratola Serra il sindacato di Mirafiori non ha indetto alcuna azione di solidarietà. Si potrebbe continuare, ma tanto basta per indicare alcuni nodi che devono essere affrontati nella mobilitazione. La Fiat (e le forze borghesi a scala della società tutta) utilizza il divario economico e normativo tra i vari stabilimenti per estendere via via le condizioni peggiorative senza incontrare la resistenza dei lavoratori; utilizza le differenze materiali tra lavoratori per contrapporre gli uni contro gli altri e far passare peggioramenti, che –con modi e tempi diversi- alla fine colpiscono tutti.

Oggi siamo come classe più deboli perché siamo più divisi. Se si vuol portare a casa anche solo un minimo risultato "pulito", bisogna iniziare a ribaltare questo dato. Vanno abbattuti tutti quegli ostacoli -materiali e politici- che impediscono la costruzione di un unitario fronte di lotta. Per questo va battuta quella politica che fa dell’accettazione delle compatibilità capitalistiche il centro del suo programma, e con ciò impedisce la riunificazione delle forze proletarie.

Anche in quest’occasione Fiom-Fim-Uilm hanno ribadito la loro totale subalternità alle esigenze della competitività aziendale e del mercato. La piattaforma per il contratto integrativo, con la solita mediazione sindacale, è costruita sull’accettazione della logica della competizione internazionale ("il processo evolutivo del settore automobilistico vede oggi vincenti i gruppi industriali che hanno raggiunto posizioni di vertice sul piano dei volumi, della gamma di prodotti, della qualità, ma anche sul piano produttivo e commerciale a livello globale") e i sindacati si impegnano esplicitamente affinché il gruppo Fiat rientri tra i grandi, al massimo si chiede che venga "valorizzata la presenza in Italia". Con una tale impostazione di fondo, il risultato non può che essere quello dell’accettazione delle "logiche e coerenti" conseguenze: flessibilità a tutto campo. Per risolvere le inevitabili conflittualità si propone un "sistema partecipativo" incentrato su "commissioni paritetiche" di stabilimento. Gli aumenti salariali richiesti sono estremamente contenuti e legati a qualità e redditività aziendale (il Premio di Risultato dovrebbe raggiungere un milione il primo anno e, poi, a regime, 2 milioni e 200mila lire annue).

Intanto anche nella "protetta" Fiat si fanno sentire i problemi occupazionali e i primi effetti dell’accordo con la General Motors: continuo ricorso alla cassa integrazione per migliaia di operai, preludio di nuovi esuberi, la prevista chiusura della Mandelli o dell’Ilva, il lento smantellamento delle Meccaniche Mirafiori, i 1.000 esuberi previsti per gli impiegati degli Enti Centrali, fino all’annuncio di GM di 14.000 tagli occupazionali nel settore auto, di cui 5.000 in Europa (in particolare in Inghilterra e Germania).

È questa una preoccupazione sempre più sentita dall’insieme dei lavoratori: "solo" si pensa di poterla utilmente affrontare caso per caso. Chiudono lo stabilimento accanto al nostro? Non ci riguarda, perché "noi siamo all’avanguardia tecnologica e di qualità" (salvo poi "scoprire" sulla propria pelle che non esistono stabilimenti garantiti). Smantellano (per ora in modo soft) lo stabilimento dove lavoro? Ci terziarizzano? Proviamo a resistere con le nostre (isolate) forze, accettando, se proprio necessario, anche ridimensionamenti, peggioramento delle condizioni lavorative e nuove turnazioni. Al più si chiede l’intervento "risolutore" degli enti locali. Insomma, ognuno contratti la "propria" situazione in sede locale, con le "proprie" istituzioni, in una corsa illusoria a difesa dell’occupazione ognuno per sé… le inesorabili leggi del capitale per tutti!

Conseguenza inevitabile: non si difende il posto di lavoro e subentra sfiducia, passività e disorganizzazione, più che giustificate, perché ci si rende conto che da soli si è deboli e non si può che subire. Si tratta allora di mettersi decisamente su una strada diversa, quella di lavorare perché si determini sul tema occupazione (e sull’insieme delle questioni) un generale movimento di lotta che si batta non caso per caso, ma in quanto classe. Solo sulla base di obiettivi comuni (di classe) sarà possibile affasciare in un unico fronte le nostre forze: operai, la massa crescente di giovani con contratti "atipici", i disoccupati, gli immigrati e l’insieme degli oppressi. È solo a questo livello che si costruiscono le condizioni per affrontare in maniera efficace lo scontro che ci si presenta davanti.

Non solo oltre gli steccati aziendali, ma anche contro quelli nazionali: è lo stesso svolgersi degli eventi (un’economia sempre più globale che stringe strettamente i destini dei lavoratori dei vari paesi) a indicare come lo scontro non è affrontabile a scala solo italiana, ma internazionale. È pensabile, senza una battaglia comune, ottenere qui ciò che, ad esempio, si preparano a togliere ai lavoratori Opel in Germania, o che non hanno mai concesso a quelli della Fiat in Brasile o Argentina? Allo stesso modo può essere senza riflessi "in casa nostra" l’esito della lotta degli operai coreani della Daewoo, che si battono contro tagli occupazionali, riduzioni salariali e flessibilità? All’opposto, quale enorme forza potrebbe sprigionare un esercito di classe internazionale? E quali positive ricadute si avrebbero sulle stesse singole lotte? Qualcosa di irrealizzabile o qualcosa che matura dalle contraddizioni profonde di questa società e che la ripresa di una prospettiva di classe, rivoluzionaria, può rendere effettiva?

Allora, se non vogliamo che la globalizzazione renda più forte le forze borghesi, i proletari più coscienti devono dare battaglia tra i lavoratori perché si affermi una prospettiva di classe, devono volgere lo sguardo oltre il proprio ristretto ambito, guardare con rinnovato interesse le battaglie che si svolgono "altrove" e iniziare a ritessere in ogni occasione i legami internazionali.