La vertenza degli ospedalieri


Il comparto sanità è da tempo sotto il fuoco incrociato dei processi di ristrutturazione-privatizzazione delle strutture e di frantumazione dei rapporti di lavoro. Questi problemi sono stati al centro anche della recente vertenza contrattuale, che ha visto una significativa mobilitazione dei lavoratori, prima in alcune manifestazioni inter-regionali, poi in una grande manifestazione per lo sciopero nazionale a Roma con 100.000 lavoratori e una marcata presenza di donne e giovani (due infermieri su tre hanno meno di 35 anni). Un segnale di risveglio dal torpore degli oltre 500mila lavoratori del settore causato dal crescente malessere per il peggioramento delle condizioni di lavoro (ritmi sempre più intensi, allungamento e flessibilizzazione degli orari, tagli sul personale) e per la perdita in potere d’acquisto degli stipendi. La partecipazione alle assemblee è stata alta come l’adesione allo sciopero. Era dalle mobilitazioni che portarono alla manifestazione del 1° luglio ’94 per il riconoscimento dei profili professionali che il comparto non si mobilitava così unitariamente.

Le principali rivendicazioni presenti negli slogan, nei cartelli e negli striscioni del corteo nazionale, hanno riguardato gli aumenti salariali e la valorizzazione delle professioni. Meno sentiti, invece, l’attacco al contratto nazionale (che sta passando nei fatti attraverso la riforma federalista che trasferisce alle regioni -con il beneplacito del passato governo di centro-sinistra e la non opposizione del sindacato- tutti i poteri di gestione del comparto sanità) e la progressiva privatizzazione del settore, con tutto ciò che ne potrà conseguire (gabbie salariali, prestazioni sanitarie differenziate per capacità economica delle aziende sanitarie locali e relativo accesso differenziale alle cure da parte della popolazione). Non è un caso che la regione Lombardia (seguita da altre regioni, quelle "rosse" comprese) abbia già chiesto di avere un contratto "proprio" per il comparto. Nei prossimi anni avremmo, così, al posto del servizio sanitario nazionale venti servizi regionali con venti (o più) contratti regionali o locali (a parità di lavoro avremo regole, tutele e salari differenti, come accade alla Fiat o alla Fincantieri con le terziarizzazioni).

Ovviamente noi non siamo difensori dello stato nazionale unitario né del "pubblico" (presuntamente libero da criteri mercantili) contro il privato. Nelle spinte al federalismo (che stanno investendo tutti i settori della vita sociale, dalla scuola alla sanità) e nei processi di privatizzazione vediamo, però, un progressivo attacco a tutti quei meccanismi di difesa unitaria che i lavoratori hanno conquistato nel passato con dure lotte. Il sindacato continua ad affermare che la riforma federalista "non può essere utilizzata per mettere in discussione il contratto collettivo nazionale di lavoro che è e resta un presupposto intangibile e da difendere per garantire a tutti i lavoratori regole generali…", dando a intendere che il federalismo può avere un’altra valenza, non antagonista agli interessi dei lavoratori. In tal modo si smobilita il fronte di difesa e non si oppone resistenza ad una politica che sta ponendo tutte le premesse per un attacco ai contratti nazionali di tutte le categorie e che può essere contrastata solo ed esclusivamente se i lavoratori abbandonano la subordinazione alle esigenze delle imprese. Il sindacato questo non può e non vuole farlo, per cui a parole si fa portavoce della difesa del contratto collettivo, nei fatti non contrasta efficacemente le politiche di frantumazione dei rapporti di lavoro aprendo così la strada ai contratti individuali tanto acclamati da Confindustria.

Ne è riprova il fatto che la linea sindacale si è fatta promotrice, quanto al salario accessorio, di un’ulteriore gerarchizzazione e divisione all’interno dei lavoratori grazie a un nuovo strumento chiamato "pagella". Esso avrà la funzione di misurare, con criteri "oggettivi" (assenze, malattie, ritardi, tempi di svolgimento delle diverse mansioni, partecipazione a corsi di formazione), il livello di adesione del singolo lavoratore alla logica aziendale e alla sua disponibilità a competere per gli obiettivi dell’azienda. Uno strumento, dunque, per la spartizione di "briciole" previste dal contratto che sedimenterà una logica aziendalista a vantaggio dell’impresa e non certo della salute di chi lavora e di coloro cui il servizio è destinato.

Questi dunque i problemi sul tappeto per i lavoratori. È sacrosanta la pretesa di quei lavoratori che, come Barbara (v. riquadro), vogliono poter lavorare meglio e in modo più umano nell’interesse dei "pazienti". Ma perché ciò sia realizzabile è necessario comprendere sino in fondo che la tutela della salute della popolazione è la risultante della capacità, che i lavoratori conquistano con le proprie lotte, di tutela e salvaguardia delle condizioni di lavoro e che questa tutela, a sua volta, dipende dalla capacità di lottare contro una sanità sottomessa alle regole ferree del mercato, non solo alle sue compatibilità economiche, ma anche ai suoi criteri disumanizzanti. Negli ultimi decenni questa duplice tutela è stata sacrificata sull’altare della difesa dell’economia nazionale e le conseguenze di ciò si misurano in termini di peggioramento e delle condizioni di lavoro e della salute complessiva. La mobilitazione sfociata nella manifestazione nazionale di Roma non deve fermarsi, ma anzi arrivare ad aggredire i nodi sindacali e politici che sottendono a un attacco che è generale e riguarda tutti gli aspetti della vita dei lavoratori.


L’umanità è inconciliabile con il profitto.

Barbara Alfa infermiera professionale di Varese:

"Viviamo una situazione di tensione continua, siamo sommerse da richieste a cui dobbiamo comunque far fronte e in brevissimo tempo… E noi rischiamo di scoppiare!". La vita da infermiera di Barbara non ha nulla di eccezionale, è la normalità, uguale a quella di migliaia di altri suoi colleghi e colleghe. Lavoro su tre turni di otto ore l’uno, riposi che saltano frequentemente (come i pasti), un monte ferie che si accumula e che non si sa quando si potrà smaltire, a lavoro anche con 38 di febbre. Il tutto per uno stipendio mensile di 2.300.000 lire, notti e festivi compresi.

"Ed io ho la fortuna -aggiunge sorridendo Barbara- di non essere sposata. A casa ho una madre che provvede a tutto. Ma le mie colleghe sposate… Se a qualcuno di loro capita un turno di notte straordinario non vedono i loro figli per due-tre giorni. Molte sacrificano le ore di sonno al mattino per fare colazione con loro prima che vadano a scuola. È un continuo e faticosissimo ritagliarsi spazi minimi per la famiglia, i figli, il marito, le persone più care. E per se stesse rimane spesso pochissimo tempo o nulla…Ma noi tutte vorremmo lavorare meglio. E invece spesso ci viene chiesto solo di produrre, di fare tante prestazioni, quasi fossimo operai alla macchina e non persone che hanno a che fare con altre persone" (l’Unità, 30.3.2001).

Sul manifesto del giorno successivo V. Parlato commenta così quest’ultima battuta della lavoratrice della sanità: "Il personale paramedico e tecnico-amministrativo è fatto certamente di lavoratori dipendenti e come tali vanno difesi, ma le loro prestazioni esigono qualcosa di più di quel che si chiede a un normale metalmeccanico. Anche i metalmeccanici sono persone, ma non hanno a che fare con altre persone. Ricordo che, tanti anni fa, un operaio dell’auto mi diceva che quando uno sportello non entrava bene bastava dare qualche buona mazzata: con i malati questo non si può fare".

Parlato coglie un aspetto vero della questione: il malato è una persona, ergo non va trattata dai lavoratori della sanità come se fosse una merce. Qui sta il punto. Per far sì che sia realmente così, che non solo il malato non venga considerato alla stregua di un prodotto da recuperare per il mercato dopo un’aggiustatina alla carrozzeria, ma lo stesso personale sanitario non degradi se stesso degradando il suo "prendersi cura" di persone, è necessario lottare per abolire il lavoro salariato che facendo della forza-lavoro una merce mercifica tutto il mondo dell’uomo, compreso il suo simile quando "patisce".

Cosa comporta ciò per i lavoratori del settore? Aspettare (per chi ancora aspetta) il bel dì… e intanto tutelarsi come salariati senza preoccupazioni per la particolare "merce " trattata? No, non può essere questo. Anche solo per tutelare le conquiste e i diritti collettivi, infatti, è sì indispensabile resistere al ricatto ipocrita e interessato della "tutela del paziente" utilizzato dal sistema (il business, pubblico e privato, della sanità, del farmaceutico, ecc.) che macina profitti sulla pelle della gente. Ma è altrettanto indispensabile costruire solidarietà, trovare appoggio, condivisione tra la gente comune, nella stragrande maggioranza anch’essa salariata, che oltre a essere sottoposta alle delizie di tale condizione rovinosa per il fisico e per la mente, deve poi subire negli ospedali o negli ambulatori cure utili solo al ripristino delle funzioni lavorative immediate (e non a quella condizione integrale di benessere che dovrebbe chiamarsi salute) e un trattamento -spesso anche da parte del personale dipendente- da "estraneo", numero tra numeri. Per difendere sé stessi, i lavoratori della sanità devono lottare, allora, contro tutto il sistema del "profitto sanitario", le sue finalità anti-sociali, il trattamento dis-umano che riserva ai malati. In una lotta di tal genere comincerebbe a modificarsi anche l’atteggiamento nei riguardi del malato, non in nome di un’astratta umanità, ma del riconoscimento di trovarsi in un comune fronte di lotta contro i criteri di profitto delle direzioni sanitarie e dell’intero sistema. Significa tutto ciò che i lavoratori devono fare i conti, anche a partire dalle loro particolari condizioni, con la necessità di dotarsi di un piano di battaglia anticapitalistico per una vera difesa della salute? Sì, vuol dire questo, ed è l’unica risposta efficace a un attacco che non lascia nicchie garantite più a nessuno.