Nere e neri in marcia nel cuore dell’impero


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Nell’ottobre scorso un nucleo di compagne e compagni ha seguito direttamente l’ultima iniziativa degli afro-americani raccolti attorno alla Nazione dell’Islam: la One Million Family March. Ne abbiamo accennato nel numero speciale Per la liberazione della donna. Qui vogliamo tornare più diffusamente sulla Marcia dei neri e delle nere e sul rapporto di essa con la Marcia delle Donne, nella prospettiva del superamento rivoluzionario di ogni oppressione di sesso e di razza.

Sarà necessario prenderla un po’ alla lontana con un inquadramento retrospettivo della lotta degli afro-americani, almeno dagli anni Sessanta (anche se le radici della situazione attuale rinviano ancor più lontano, al periodo della schiavitù). E sarà necessario altresì tenere presente che quello che successe negli anni Sessanta non fu il frutto soltanto della storia dei neri d’America. Dipese anche da una storia internazionale, dalla battaglia dei popoli "colorati" fuori dei confini Usa e dal nesso di tale battaglia con quella degli sfruttati bianchi dei paesi imperialisti. Un intreccio valido anche per l’oggi e per il futuro…

 


"Le mani dello Zio Sam grondano sangue, grondano del sangue  dei neri di questo paese. Egli è il più grande ipocrita del mondo: ha il coraggio e la sfacciataggine di atteggiarsi a leader del mondo libero. Il mondo libero!". Queste parole pronunciate da Malcolm X nell’aprile 1964 sono più vere che mai: la democrazia statunitense, che si incarica di portare in ogni parte del mondo la pace e la fratellanza tra le "etnie", è il paese in cui la razza nera continua ad essere oppressa.

Sì, è vero che da trent’anni non ci sono più leggi che discriminano e segregano i neri, e che essi godono addirittura della "tutela" dell’affirmative action. Ma cosa ne è venuto fuori? Il riconoscimento delle "pari opportunità" ha forse promosso l’integrazione dei trenta milioni di neri nei vari campi della società, come recita il credo democratico, o la fusione della nazione afro-americana e di quella bianca? È accaduto il contrario: l’abisso si è approfondito. Sì, è vero che nella classe dirigente del paese è giunto qualche Colin Powell o qualche Condoleeza Rice, che s’è affermata una (piccola) rampante middle class nera. E però l’ascesa di costoro non è stata certo accompagnata dall’ascesa della massa dei neri. La quale, invece, è stata vieppiù risospinta all’inferno.

Il degrado sociale

Per i quattro quinti urbanizzata, essa è stata investita dalle conseguenze della mondializzazione capitalistica. La delocalizzazione produttiva verso il Messico e le zone rurali (interne e internazionali), la nuova ondata di immigrati dall’America Latina e dall’Asia, le trasformazioni dell’apparato tecnologico capitalistico hanno "regalato" all’intero proletariato degli Stati Uniti la diffusione del lavoro precario, l’intensificazione dello sfruttamento e la diminuzione dei salari. Per i lavoratori neri l’arretramento è stato più vistoso che per gli altri sfruttati. Basti dire che nel 1995 il 39% dei neri si trovava con retribuzioni inferiori al livello di povertà contro il 26% dei bianchi.

All’azione "spontanea" del mercato capitalistico, s’è accompagnata quella sinergica dello stato. La popolazione afro-americana è quella che più sta soffrendo della marginalizzazione di 80 milioni di statunitensi in "riserve urbane" che assomigliano ai gironi danteschi:

"[A seguito dell’abbandono delle città da parte dei bianchi non poveri e delle aziende sulla strada della delocalizzazione], le amministrazioni locali si sono trovate a contare in modo spropositato sui contributi federali. Negli anni del reaganismo però su di essi si è abbattuta la scure (da 47,2 miliardi di dollari nel 1980 a 21,7 miliardi dieci anni dopo). La conseguenza diretta dei tagli è stata la riduzione drastica di tutti i servizi, da quelli di manutenzione e pulizia (per cui si è accelerato in modo impressionante il degrado fisico e ambientale delle zone povere), a quelli sanitari e assistenziali (che hanno facilitato la crescita delle malattie, fatto innalzare la mortalità infantile al di sopra dei livelli del Terzo Mondo, reso peggiore la vita di bambini, anziani e madri sole), a quelli di trasporto. I giovani poveri, abbandonati dalla scuola e dal lavoro, hanno poche altre possibilità di ‘essere vivi’ che entrare a far parte delle bande. (...) Quasi tutte hanno rapporti con il commercio della droga e il controllo delle aree di spaccio" (1).

"La situazione complessiva -è scritto in un altro saggio sugli Stati Uniti- indica che all’interno del ghetto si è verificato un vero e proprio crollo dell’organizzazione sociale [s. n.] intesa come ‘reti sociali’, ‘supervisione collettiva da parte dei residenti’ e ‘partecipazione in organizzazioni formali e volontarie’. (...) Dal punto di vista della salute, i neri vivono quasi 5 anni di meno rispetto ai 77 dei bianchi, la loro mortalità infantile è doppia e registrano quasi il 30% dei casi di aids. Un maschio nero ha più del doppio delle possibilità di un maschio bianco di morire per un eccesso di stupefacenti e di alcool e, per quanto possa sembrare incredibile, nove volte più possibilità di morire vittima di omicidio o della pena di morte"(2); un dato, quest’ultimo, connesso al fatto -di per se stesso emblematico- che i neri (il 12% della popolazione statunitense) rappresentano un terzo di tutti gli arrestati dalla polizia, e la metà del milione e ottocentomila detenuti nelle carceri del paese. Una sola occupazione è aumentata tra gli afro-americani: quella di militari nelle forze armate, cioè di carne da macello al servizio degli interessi delle corporations, della finanza e dello stato Usa. Un numero per tutti: il 20% dei soldati Usa nel Golfo erano neri...

Il bisogno di un risanamento morale

I neri statunitensi hanno subìto quest’attacco micidiale senza poter contare sulle organizzazioni e sulle direzioni del movimento di lotta cui essi avevano dato vita negli anni Sessanta, e che era riuscito a ridurre il divario economico e sociale tra le due nazioni. Quelle direzioni e quelle organizzazioni si sono dissolte sotto i colpi combinati della feroce repressione statale contro l’ala radicale del movimento nero e delle moine integrazioniste verso la middle class nera, verso cioè gli Zii Tom del Duemila. Isolati dal resto degli sfruttati e degli oppressi (dentro e fuori i confini Usa), penalizzati dal parallelo rinculo tri-continentale del moto antimperialista, gli sfruttati neri si sono trovati disarmati davanti all’offensiva lanciata da Nixon e continuata da Reagan e Clinton.

Dopo quasi un ventennio di smarrimento, essi hanno ripreso a reagire. Lo hanno fatto come hanno potuto, agendo su più piani. Con le rivolte, come quella fiammante di Los Angeles del 1992 e l’ultima di Cincinnati di qualche mese fa (v. riquadro). Con l’attiva partecipazione alla riorganizzazione del sindacato, un sindacato che è sempre più "multi-colore". Con la confluenza verso l’unico riferimento esistente attorno a cui potesse ricostituirsi un’organizzazione stabile dei neri: la Nazione dell’Islam, l’unica organizzazione che -a modo suo- ha saputo raccogliere il grido di dolore e di ribellione contro lo zio Sam che saliva dal profondo della comunità nera. Lo ha fatto forse la sinistra? o il movimento operaio? o il proletariato internazionale? Assolutamente no.

Come comunisti internazionalisti noi appoggiamo incondizionatamente questa complessiva, embrionale rinascita della mobilitazione degli afro-americani. Ci rivolgiamo ai lavoratori bianchi affinché salutino con gioia una mobilitazione contro cui la "sinistra" nostrana ha imbastito una vile e sciovinista campagna di stampa, e affinché sostengano come parte della propria battaglia una ripresa d’iniziativa che va ad incrinare l’odierna "pace sociale" metropolitana così favorevole alla macchina capitalistica che schiaccia (seppur in modo diverso) gli afro-americani e gli sfruttati bianchi. E questo appello rivolgiamo naturalmente anche alle masse femminili bianche e, come vedremo più oltre, alle partecipanti alla Marcia delle Donne.

Nello stesso tempo, e come parte del nostro appoggio incondizionato alla mobilitazione degli afro-americani, ci rivolgiamo ad essi per vedere come questi loro primi passi possano rafforzarsi e dare corso ad ulteriori avanzamenti. Da questo punto di vista concentriamoci sulla One Million Family March, e chiediamoci per cominciare se essa per caso non rappresenti una deviazione, o un passo falso, in questo cammino di ripresa con il suo indicare ai neri degli Stati Uniti l’obiettivo del risanamento del tessuto morale della "comunità nera". A nostro avviso, non lo è perché la disgregazione sociale, la miseria spirituale, la corruzione individuale in cui essi sono gettati, è uno degli aspetti fondamentali della loro oppressione, uno dei meccanismi di perpetuazione della loro apartheid.

La rivolta di Cincinnati

All’ennesimo omicidio della polizia di un giovane nero nella città (15 dal ’95, 4 in quest’ultimo anno) per infrazione al codice della strada (appena il caso di sottolineare che nessun bianco è stato mai ferito per il medesimo motivo), insorge l’insieme della comunità nera di Cincinnati, ghettizzata nel quartiere in rovina di Over-the-Rhine.

Una vera e propria rivolta, scontri violenti con la polizia, a cui il sindaco democratico risponde imponendo il coprifuoco per quasi una settimana, e minacciando l’intervento dell’esercito. Gruppi numerosi di neri non rispettano il coprifuoco nonostante gli appelli dei leaders moderati, che comunque denunciano la "polizia razzista" e le condizioni di vita della comunità. Oltre 200 gli arresti.

Queste esecuzioni a sangue freddo della polizia non sono gesti inconsulti, ma momenti della sistematica azione con cui la democrazia yankee cerca di incutere paura ai neri e stoppare la loro rivolta contro un’oppressione sempre più pesante: la popolazione afro-americana di Cincinnati ha per il 90% redditi sotto il livello di povertà, i più bassi livelli di scolarizzazione della città, uno dei più alti tassi di tossicodipendenza...

Di chi la violenza? Di chi il terrorismo?

Non a caso anche il movimento afro-americano del secondo dopoguerra trovò su questo terreno una delle sue spinte propulsive, ed anche allora essa si espresse attraverso la crescita "improvvisa" della Nazione dell’Islam. Questa organizzazione religiosa fondata nel 1931, che era rimasta di infime dimensioni per anni e anni, conobbe alla fine degli anni cinquanta un afflusso impetuoso soprattutto dei cats in the street dei ghetti, quelli che esprimevano e maturavano, attraverso la volontà di sollevarsi dal fango sociale in cui vivevano, lo slancio verso una battaglia radicale contro l’oppressione razziale. Paradigmatico, anche per quello che sta accadendo oggi, il percorso di Malcolm X, come da lui stesso raccontato nell’appassionante Autobiografia.

Per mettersi in grado di compiere la lotta titanica contro il razzismo bianco, la comunità nera doveva compiere uno sforzo tremendo su se stessa e rinnovare la sua anima. "Malcolm -ha scritto J. Boggs- era deciso a combattere l’atteggiamento liberal di giustificare gli oppressi, perché sapeva per esperienza quanto questo li indebolisca. Aveva capito che la gente oppressa ha soprattutto bisogno di superare le proprie debolezze interne, la tendenza a credersi inferiori e incapaci, la mancanza di fiducia in se stessi, la tendenza a identificarsi con gli oppressori e a cercare facili vie di scampo" (da Monthly Review, gennaio 1978). Proprio perché Malcolm "voleva combattere per la libertà della sua gente", egli rifuggiva dall’idealizzazione narcisistica di come era il negro: metteva sotto accusa i suoi modi d’essere da schiavo per spingerlo a sbarazzarsi di comportamenti e abiti mentali paralizzanti, a sottrarsi al controllo ipnotico della società capitalistica bianca.

Non è un caso che la democrazia statunitense, come tassello della controffensiva scagliata alla fine degli anni sessanta, abbia incoraggiato in vari modi la ripresa del consumo di droghe nei ghetti dopo la regressione che questa peste aveva conosciuto in conseguenza e come parte dello sviluppo del movimento di lotta di allora (3). E non è un caso che da qui si ricominci: "Attraverso la Nazione dell’Islam -ha confessato una donna- si impara un nuovo modo di vivere, che ci toglie dalla disgregazione e ci insegna a diventare migliori"(4). Lo dicemmo già nel n. 37, quando salutammo la Million Men March dell’ottobre 1995. Scrivemmo: è vero che si fa appello agli individui, ma in modo che, con responsabilità, lavorino nella comunità e per il bene della comunità. Lo ribadimmo in occasione della Million Women March dell’ottobre 1997, quando la denuncia del dominio razziale mise in campo la questione specifica della dignità della donna nera. Ne è emersa la conferma nell’ottobre scorso, quando la Nazione dell’Islam ha posto al centro della marcia il tema della famiglia, nella razza afro-americana e nell’umanità tutta, come momento fondamentale del risanamento morale di cui si è detto.

La forzata mancanza di una famiglia

Il senso (e la forza mobilitante) del richiamo alla costituzione di una sana famiglia nera non può essere compreso senza considerare la situazione concreta della vita famigliare tra i neri nella sua evoluzione storica. Già nel n. 45 del che fare accennammo al fatto che una famiglia nera non s’è mai formata neanche dopo l’abolizione della schiavitù, in conseguenza della stessa dominazione razziale e come meccanismo per la riproduzione di essa.

La subordinazione alla schiavitù, l’impotenza davanti al sistematico stupro delle donne nere da parte dei proprietari bianchi ha introiettato nel maschio nero quel disprezzo di sé che, nel quadro dell’esistenza misera e precaria vissuta sotto il segno della supremazia bianca dopo l’Abolitionist Act, lo ha portato a lasciarsi coinvolgere in attività che rendono estremamente labile una qualche vita famigliare: oggi la metà degli uomini neri caduti di morte violenta muore in scontri fratricidi per il controllo dello spaccio della droga, non pochi tra loro campano sulla prostituzione delle sorelle nere, ottocentomila sono detenuti, un milione è schedato come ‘delinquente’, due milioni non hanno domicilio fisso, un numero maggiore è debilitato dall’alcool e dalle malattie mentali... Come sorprendersi che molti uomini neri siano irresponsabili e violenti verso i figli e le donne con cui "stanno"?

Chi ha pagato e paga il prezzo maggiore di questo degrado e disgregazione famigliare è la donna nera. È stata costretta a soggiacere all’uomo bianco, s’è dovuta e si deve far carico dei figli, è condannata a un’esistenza povera e a fronteggiare la frequente brutalità dei maschi neri (5). Basti dire che nel 1990 il 56% delle donne portavano avanti la famiglia da sole e che esse, "messe a confronto con le donne-madri bianche, hanno il doppio di probabilità di soffrire di anemia nel corso della gravidanza, il doppio di probabilità di non ricevere cure prenatali e di far nascere bimbi sottopeso. E altresì il doppio di probabilità che i loro figli conosceranno seri problemi di salute ivi compresi l’asma, la sordità, lo sviluppo ritardato e i disturbi dell’apprendimento, oltre alle condizioni conseguenti l’uso da parte della madre di droghe e alcolici durante la gravidanza"(6). Negli ultimi anni la situazione è diventata ancor più penosa per lo sgretolamento dei circuiti di solidarietà parentale che tradizionalmente avvolgevano le donne-madri.

"Piccola" e "grande" famiglia

Il "bisogno di famiglia" che ha pulsato e pulsa nelle centinaia di migliaia di manifestanti confluiti a Washington per la One Million Family March esprime la vitale necessità dei neri e delle nere di reagire a questa situazione. È il sacrosanto bisogno di un’autentica socialità umana, di un sano rapporto tra i sessi e le generazioni. Che gli afro-americani, giustamente, sentono di poter realizzare nel piccolo della propria vita famigliare solo come conseguenza e come sprone della collettiva liberazione razziale, e della nascita di una vera grande famiglia umana. Se un nucleo dell’Oci fosse presente negli Stati Uniti tra gli afro-americani darebbe il suo pieno appoggio a questa spinta, e si preoccuperebbe di rivolgersi alle nere e ai neri per vedere come portarla realmente ad effetto. Ma nel farlo, pena la totale dimissione dai compiti propri di un’avanguardia comunista, non potrebbe non confrontarsi e scontrarsi con la specifica risposta che a questo "bisogno di famiglia" dà l’organizzazione del reverendo Farrakhan. E che si può riassumere nella costituzione di una famiglia d’impianto neo-patriarcale, con a suo capo il maschio e con la donna risospinta nel ruolo prevalente, se non esclusivo, di madre-moglie casalinga garante della possibilità di realizzazione del "proprio" maschio. Pienamente solidali con le nere ed i neri in marcia, ci rivolgeremmo (ci rivolgiamo) loro più o meno nei termini seguenti.

Alle donne nere diremmo:

"Avete ragione a pretendere per voi un’esistenza meno gravosa, che i vostri bambini non siano lasciati per strada alle lusinghe distruttive delle bande e della droga, che il rapporto col vostro compagno sia meno superficiale e brutale, che non siate considerate da lui semplicemente un oggetto di piacere... Avete ragione a credere che tutto ciò richiede che i maschi neri la smettano di fuggire, si scuotano di dosso il ruolo che il bianco ha plasmato per essi e si assumano le loro responsabilità verso di voi, verso i bambini, verso le collettive esigenze di difesa. Ma questo non può avvenire attraverso la vostra riduzione al ruolo di casalinghe e la loro "promozione" al ruolo di capi-famiglia incaricati di nutrirvi e di "proteggervi". Può avvenire solo se essi diventano i compagni di lotta con i quali affrontare insieme i comuni problemi: in modo da conquistare un lavoro migliore per tutti, una rete di servizi sociali che vi sgravino dai carichi domestici, un risanamento delle case e dei quartieri in cui abitate. La loro responsabilità verso di voi e i figli crescerà insieme alla loro responsabilità sociale di lotta, poiché la loro irresponsabilità nella vita "privata" è tutt’uno con la loro passività e nullità nella vita pubblica.

"Nessun problema delle masse nere, e tanto più delle donne nere, verrà risolto con il riportarvi indietro al solo ruolo di casalinghe. Se oggi siete sole, oberate da mille pesi, offese, ciò non avviene perché lavorate anche fuori di casa, o perché siete in prima fila a reggere la vita sociale dei quartieri, bensì perché tutto si svolge sulla base dei rapporti sociali di dominazione capitalistica e razziale. Ciò accade perché il vostro lavoro è troppo lungo e duro, perché non c’è un sistema di servizi pubblici per i bambini, gli anziani, ecc., perché le relazioni tra i sessi sono mediate dall’interesse mercantile, perché i neri dei due sessi sono sottoposti al dominio razziale. E tutto questo perché accade?

"Accade perché il capitalismo statunitense e mondiale ha avuto, ha e avrà bisogno dello schiacciamento degli afro-americani. Non perché sia imperfettamente sviluppato. Bensì perché funziona alla perfezione come capitalismo imperialista. Che trova nel dominio razziale dei neri una colonia interna da saccheggiare (come forza lavoro da super-sfruttare e come mercato di consumo da depredare) e un mezzo per ostacolare la formazione di una coscienza unitaria nelle masse proletarie statunitensi, quelle bianche in primo luogo. È dunque questa struttura imperialista che va da voi aggredita insieme ai vostri uomini, nel suo criminale intreccio di dominio classista, razzista e sessista, e nel suo riflesso agente costituito dall’ideologia della supremazia bianca."

"Questa lotta -diremmo dall’altra parte ai maschi neri- è l’unica via attraverso cui potete liberarvi dal disprezzo di voi stessi e dalla soggezione che vi ha imposto il bianco. La fiducia in voi stessi, la dignità umana a cui aspirate, per voi e per il riscatto degli afro-americani, li potrete conquistare solo con la battaglia frontale contro chi vi ha annichilito, il padrone bianco, il suo stato, le sue politiche, unita a quella contro i vostri stessi comportamenti sessisti, in solidarietà piena con le vostre donne. Potrete scrollarvi di dosso il degrado della vostra vita privata solo scrollandovi di dosso, insieme, il degrado della vostra vita pubblica. E per far questo molto avete da imparare anche dalle battaglie passate e presenti delle "vostre" donne…".

La costituzione di una "piccola comunità" di affetti e di vita solidale può quindi avanzare solo insieme alla costituzione di una nuova "grande famiglia", della "grande comunità" di razza oppressa finalmente libera dalla propria oppressione. Un processo che può darsi per davvero solo nella e colla lotta dispiegata contro l’imperialismo razzista statunitense, che nega ai neri da secoli sia l’una che l’altra possibilità. Una lotta che non può avere come prima protagonista altro che la componente più proletaria della "nazione nera" (sempre meno un tutto indistinto), a cui spetta -tra gli altri compiti- quello di rilanciare verso l’intero proletariato statunitense (e oltre) il tema del "risanamento morale e fisico dell’umanità lavoratrice" e della fine dell’oppressione e dello sfruttamento di razza, di sesso e di classe.

"Il potere bianco intende un’unica lingua."

Insomma, anche solo per portare realmente a termine il suo stesso obiettivo di risanamento "morale" e "familiare", la mobilitazione dei neri raccolti (al momento) intorno alla Nazione dell’Islam è chiamata a passare dal piano morale-religioso sul quale è nata in questi ultimi anni ad un piano di diretta lotta politica contro il nemico razzista-capitalista in alleanza con i popoli colorati degli altri continenti e il restante mondo sfruttato degli Stati Uniti (7). È questa la direzione in cui spinge la linea politica di Farrakhan? Certamente no.

Egli coglie senz’altro il fatto che la nascita di una nuova famiglia nera è legata a filo doppio con il riscatto razziale dei neri, con la rigenerazione degli Stati Uniti e con la liberazione dei popoli oppressi negli altri continenti dalla superpotenza Usa. Ma su quale piano e con quale finalità egli si propone di realizzare questo triplice legame? Vediamone alcune iniziative. Lo scorso anno ha avviato i contatti con la lobby sionista statunitense, attraverso un suo importante esponente, quel Lieberman che era il candidato di Gore alla vice-presidenza. Ha fatto appello alle forze di polizia affinché compiano quello che non potranno mai compiere, e cioè "interrompere gli scontri tra neri e il consumo di droga che ammorba i ghetti". Ha invitato Clinton a fare quello che nessuna volpe democratica, al pari dei lupi-repubblicani à la Bush jr., può fare, e cioè cancellare il debito estero dei paesi africani, porre fine all’embargo all’Iraq e aiutare il popolo palestinese. Ha fatto balenare ai neri la speranza di poter realizzare le loro aspirazioni semplicemente con il voto ai democratici.

Insomma tutto viene proposto da Farrakhan fuorché l’unico mezzo in grado di "far paura alla supremazia bianca", il mezzo della forza, della mobilitazione diretta, della lotta auto-organizzata per il risanamento dei ghetti e la difesa militante della popolazione dalla polizia, della proiezione verso gli immigrati e gli sfruttati bianchi, verso coloro con cui nella rivolta di Los Angeles si appiccarono insieme le fiamme e a cui va data la sveglia, verso coloro con cui accade talvolta di ritrovarsi insieme nelle lotte sindacali che si stanno sviluppando negli Usa. Non c’è altro modo che questo per imporsi a "un governo -è lui stesso a denunciarlo- che non conosce quello di cui abbiamo bisogno e che vogliamo", "un governo dei ricchi per i ricchi", un governo "che lascia la massa del popolo nero, giallo, rosso, bianco e scuro nella condizione di Lazzaro che si nutre delle briciole che cadono dal tavolo del ricco Epulone". Ebbene, nei confronti di un simile governo, tutto propone Farrakhan per fermare gli infami crimini che gli Usa -lo denuncia lui stesso- compiono nel mondo fuorché l’unico mezzo efficace a tal fine: la scesa in piazza contro gli interventi degli Usa in Medio Oriente o nel Congo (o nei Balcani...); l’invito agli afro-americani arruolati affinché vedano il loro nemico non nei popoli colorati o slavi contro cui sono mandati ma nei capitalisti e nei generali bianchi (e neri!) che li comandano e ne sfruttano in patria i fratelli e le sorelle.

Non è casuale che Farrakhan stia ben attento a mantenere lontana la massa dei neri da questa lotta dispiegata contro l’imperialismo razzista Usa. Ciò discende dalla prospettiva politica con cui egli si propone di realizzare il riscatto degli afro-americani. "I don’t want destroy the American flag", precisa Farrakhan. "Io non voglio distruggere la bandiera americana", cioè la potenza del capitalismo americano. Contro la corrosione delle basi del potere imperialista degli Usa, che Farrakhan percepisce e denuncia, egli chiama gli "schiavi neri" a riparare la nave americana. Esige sì che essi vengano ammessi nella cabina di comando a fianco dei bianchi, ma per seguire una rotta che, dietro il sogno di far convivere interessi dei popoli del Sud del Mondo ed economia di mercato, si "limiterà" a portare avanti -su nuovi basi- la tradizionale sporca supremazia degli Stati Uniti sui dannati della Terra. La riorganizzazione della comunità nera intorno ad una famiglia neo-patriarcale che Farrakhan prospetta per salvare i neri e metterli in grado di arrivare a dirigere la Nazione Americana, è coerente e funzioanale a questo disegno: non scalzare la Nazione Americana, bensì riconfermarla nel suo ruolo (arci-reazionario) di grande patriarca dell’ordine capitalistico mondiale.

Le conseguenze della prospettiva neo-patriarcale di Farrakhan

Per portare avanti la lotta che sono chiamati a ingaggiare, gli afro-americani raccolti al momento attorno a Farrakhan sono costretti a fare i conti con questa prospettiva. Perché essa è troppo compromessa con i responsabili delle loro sofferenze, cioè col capitale imperialista e le sue istituzioni statali, la sua polizia, le sue forze armate, il suo Dio-profitto. Perché essa -con i ruoli assegnati al maschio e alla donna neri- imbriglia il potenziale di lotta della "nazione" afro-americana e sabota al contempo -altra faccia della stessa medaglia- le aspirazioni a una ritrovata dignità per l’uno e per l’altro sesso. È vero che oggi la donna nera subisce una socializzazione forzata e degradata, con tutto ciò che tale condizione significa per l’oppressione della donna e della razza nera: ma potrà esserle di aiuto la de-socializzazione verso cui spinge Farrakhan?

Se nel corso della loro mobilitazione gli afro-americani proveranno a costituire una vita famigliare fondata sulla separatezza delle sfere di azione per l’uomo e la donna e sulla parcellizzazione dell’economia domestica, ciò diventerà per essi e la loro battaglia un soffocante cappio. Perché un simile ménage non incoraggia ma trattiene i suoi membri, e soprattutto la donna, dalla lotta collettiva. Perché esso è l’inevitabile terreno di coltura di una vita atomizzata, in cui ognuno cerca di salvarsi a danno del suo simile e della collettività lavoratrice cui appartiene. Perché riproduce inevitabilmente il dominio dell’uomo sulla donna, senza riscattare né l’uno e né l’altro, e "insegna" esattamente quello che Farrakhan dice di voler spazzar via, esattamente ciò che contribuisce a rinsaldare l’oppressione dei moderni schiavi neri, e cioè che "la donna serve solo al piacere e alla procreazione".

La situazione in cui vivono le masse afro-americane nei ghetti e la necessità di sviluppare la battaglia a cui esse sono chiamate, le costringono a impostare in ben altro modo la lotta contro la disgregazione morale e famigliare che le soffoca. Lungo una via analoga a quella tentata nella seconda metà degli anni Sessanta dal Black Panther Party con l’iniziativa "Colazioni per bambini". Essa costituiva un inizio di assolvimento in chiave sociale delle esigenze dell’economia domestica, una forma di auto-difesa dal dominio razzista, di organizzazione della comunità, e soprattutto della nuova generazione, per la lotta anti-imperialista, un modo per farsi carico dell’oppressione supplementare subìta dalla donna e favorirne al contempo l’attivizzazione politica.

Solo su queste basi materiali più, e non meno, rettamente socializzate di quelle attuali, si poteva (e si potrà!) affermare quella nuova moralità di cui parla (astrattamente, e con trasparenti connotazioni reazionarie) Farrakhan come necessità per il riscatto dei neri; una nuova moralità di lotta capace di unire l’uomo e la donna da "liberi ed eguali" contro tutti i rapporti e i poteri che li rendono schiavi e diseguali, e che non si può certo conseguire con la prospettiva famigliare (e sociale-politica più complessiva) da lui stesso proposta. Solo così si poteva (e si potrà) impostare la battaglia contro la riduzione della donna a oggetto, pure denunciata da Farrakhan: solo con la sua trasformazione in donna che lotta, e che -in virtù di ciò- riplasma la sua personalità e impone, richiede ed offre un rapporto più elevato, più ricco al suo uomo, ad un uomo ugualmente impegnato nella comune battaglia, e "ugualmente" risplamato da essa. Solo così il maschio nero poteva (e potrà) conquistare per davvero la dignità umana che il dominio razzista gli ha negato.

Più indietro, ma più avanti

Oggi la mobilitazione degli afro-americani raccolti attorno alla Nazione dell’Islam soffre dei limiti combinati delle due fondamentali tendenze dominanti nei primi anni Sessanta: da un lato la ritrosia all’impegno politico della stessa Nazione dell’Islam, dall’altra l’illusione integrazionista della direzione del movimento per i diritti civili. Essa riparte, dunque, da un livello soggettivamente più arretrato. Ma in un contesto più esplosivo, in quanto la realtà delle cose ha mostrato che la struttura sociale e politica degli Stati Uniti e del capitalismo mondiale non può offrire altro che una manciata di briciole a qualche moderno "negro da cortile". Più fertile dunque a far maturare nella massa degli afro-americani la consapevolezza che -come denunciò Malcolm- "non esiste un problema negro [isolabile, a sè stante, n.], ma solo il problema della società tutta, razzista e sfruttatrice", con tutto ciò che ne consegue verso una battaglia a morte contro l’imperialismo Usa che vada oltre lo stesso Malcolm, verso la costruzione di un’unità di lotta con le altre comunità di colore interne al paese e con le masse oppresse del resto del mondo, verso lo sviluppo mondiale di quello che abbiamo chiamato il secondo tempo della rivoluzione antimperialista e l’integrazione di esso nella guerra internazionale per il socialismo.

Sappiamo che un esito del genere non può essere chiesto ai soli neri e non dipenderà dai soli neri. È legato alla ripresa del moto degli sfruttati contro l’imperialismo a scala internazionale, secondo una dinamica non dissimile da quella che iniziò a innescarsi negli anni sessanta e che oggi, sotto la sferza della mondializzazione capitalistica, sta tornando a far capolino. È legato innanzitutto al risveglio politico del proletariato metropolitano, alla ripresa a modo proprio della "scuola di John Brown", al suo appoggio incondizionato al moto degli afro-americani (e dei moderni schiavi arrivati negli Usa e nella "diversa" Europa nella seconda metà del Novecento).

Colazioni per bambini

L’iniziativa forse più significativa sul piano dell’intervento sociale e politico nel ghetto fu quella delle “Colazioni per bambini”, intrapresa nel gennaio 1969 dal Black Panther Party (Bpp) con lo slogan: “Nutriamo i giovani, i giovani nutriranno la rivoluzione”.

“Le Pantere che si occupano del programma di Colazioni si alzano dal letto verso le sei di ogni giorno. Preparano i tavoli, fanno le pulizie, cucinano i cibi, dirigono il traffico per far sì che i bambini attraversino le strade senza correre pericoli. Una volta ultimata la colazione di una giornata, un altro lavoro attende le Pantere: fare il giro dei commercianti che lavorano nella comunità per procurarsi (sotto forma di sottoscrizioni) i generi alimentari per la mattina seguente (in The Black Panther, organo del Bpp, riportato nel libro di A. Martinelli e A. Cavalli (a cura di), Il Black Panther Party, Einaudi, Torino, , pp. 330-331).

Le colazioni gratuite furono accompagnate da altre iniziative politiche, dalle Scuole di Liberazione (“per dare alla nostra gente un’istruzione che smascheri la vera natura di questa decadente società americana, che insegni la nostra vera storia e parli del nostro ruolo nella società attuale”!), ai Centri Sanitari Popolari, alle Colonie Estive, alle serate ricreative, tutti momenti in cui i giovani si imbevevano della e crescevano nella consapevolezza di “se stessi come parte di una grande famiglia che lavora, si diverte e vive unita nella lotta” (ancora da un articolo del The Black Panther del 5 luglio 1969).

Gli interventi sociali del Bpp furono sistematicamente sabotati dall’Fbi. In un documento del 15 maggio ‘69 diretto a 27 uffici, Hoover, il direttore dell’Fbi, scriveva: “Il programma di colazioni per bambini rappresenta l’attività migliore, la più efficace, messa in atto dal Bpp e, come tale, è potenzialmente la più grande minaccia per gli sforzi intrapresi dalle autorità.” “Fra l’altro gli agenti [dell’Fbi, n.] sabotarono il programma di colazioni nel famigerato quartiere Haight-Ashbury diffondendo la voce che ‘vario personale del quartier generale nazionale del Bpp è affetto da malattie veneree’. L’agente responsabile di Newark propose di mandare un falso telegramma, costruito in modo da sembrare mandato dalla dirigenza del Bpp, avvisando che i ‘sostenitori’ bianchi stavano mandando cibo avvelenato ai programmi sociali delle Pantere. Per provarlo il laboratorio del Bureau avrebbe potuto ‘trattare frutta come le arance con una medicina lassativa e mandare la frutta come una donazione da parte di una persona fittizia’. Il piano fu giudicato buono e scartato solo per motivi tecnici. A volte si interveniva per scoraggiare i proprietari a fornire locali per il breakfast o si faceva pressione sulla gerarchia ecclesiastica per trasferire un prete che aveva collaborato ai programmi sociali delle Pantere” (da Bertella Farnetti P., Pantere nere. Storia e mito del Black Panther Party, Shake, Truccazzano, 1995, pp. 117-118).

Mentre reprimeva l’avanguardia, tagliava gli stanziamenti per l’assistenza, cancellava i programmi (frutto delle lotte degli anni Sessanta) per l’addestramento e l’occupazione dei neri, l’amministrazione Nixon fece leva su ciò che restava dei programmmi di intervento sociale nel ghetto per incanalarlo verso lo sviluppo di un business nero, d’accordo con una parte del grande capitale: “la crescita del black capitalism era vista come passo necessario per la crescita di una gerarchia economico-politica nelle comunità nere analoga e parallela a quella con cui si cercava di riprendere il comando sul resto della società” (nel libro di Cartosio citato, pp. 34-35).

Allora l’azione del Bpp fu neutralizzata e sconfitta, oggi l’esigenza e la possibilità di una politica analoga si ripresentano in condizioni oggettivamente più favorevoli al superamento delle sue stesse debolezze interne. Che non sia dimenticata a tal fine la preziosa lezione riconsegnata dall’esperienza di ieri: l’intervento sociale nel ghetto o prosegue nella direzione di un’organizzazione sovietica che viene a confliggere contro il potere imperialista, oppure regredisce, si spappola e viene integrato da quest’ultimo per rinsaldare se stesso.
                        

 


Note

(1) In B. Cartosio (a cura di), Senza illusioni. I neri negli Stati Uniti dagli anni Sessanta alla rivolta di Los Angeles, Shake, Cesena, 1995, pp. 190-191.

(2) Sylvers M., Gli Stati Uniti tra dominio e declino, Editori Riuniti, Roma, 1999, pp. 142-143.

(3) Vedi ad es., agli inizi degli anni ’80, l’incoraggiamento della Cia all’invenzione del crack e alla diffusione di esso a Los Angeles col duplice fine di distruggere una generazione afro-americana e di raccogliere fondi per finanziare i Contras nicaraguensi. Chi voglia documentarsi su questo autentico crimine di pace può vedere il manifesto del 25 settembre ’96.

(4) Il nuovo decollo della Nazione dell’Islam, dopo un’eclisse di oltre trent’anni, è legato anche al fatto che l’Islam è nel frattempo diventata la bandiera dietro cui è stato messo in discussione in Medio Oriente e in Africa il potere imperiale degli Stati Uniti sui coloured, a partire dalla rivoluzione iraniana del 1979.

(5) Negli Usa, già nel 1979, la metà delle morti violente fra neri si verificavano in liti fra moglie e marito. Su centomila donne bianche d’età compresa tra 20 e 34 anni, ben 139 erano vittime di stupri: il numero saliva a 292 per le nere. A colpirle erano soprattutto neri.

(6) Hacker A., Due nazioni. Nera e bianca: separate, ostili, ineguali, Anabasi, Milano, 1993, p. 125.

(7) È il nodo che, in un contesto diverso, si trovò davanti Malcolm X nel 1963 e che egli cercò febbrilmente di affrontare negli ultimi mesi della sua vita.