Sui morti "innocenti" di New York


Indice

Morti di una umanità minore


Dopo gli attentati al Pentagono e alle Twin Towers, unanime è stato lo sdegno da parte di tutti i massmedia occidentali. Televisioni e giornali hanno esibito i morti, i feriti, la gente in lacrime e le macerie di Manhattan per chiamare alle armi, sull’onda delle forti emozioni del momento, il "mondo civile" contro la nuova barbarie. Crimini contro l’umanità: così si è gridato in coro, da Bush a Ciampi, da Blair a Bertinotti, dal superfalco Rumsfeld alla colombella Agnoletto.

Noi ci siamo categoricamente rifiutati di unirci a questo coro, parlando, invece, di un legittimo atto di resistenza e di reazione del mondo islamico contro le centrali mondiali del terrorismo e dell’usura. In molti la nostra posizione ha prodotto scandalo, o quanto meno forti perplessità. In modo particolare ha suscitato sconcerto la nostra (presunta) insensibilità ai tanti morti innocenti delle Torri. Proviamo dunque a spiegarci, partendo da un elemento che -ci facciano caso i nostri più seri interlocutori- è stato sorprendentemente rimosso quasi da subito: il colpo inferto al Pentagono.

Cos’erano realmente le Torri

Il Pentagono non è esattamente quel che si dice un ufficetto "normale": per miliardi di sfruttati è il simbolo della violenza e del terrore militare dell’imperialismo yankee e dell’Occidente tutto. È la sede dalla quale sono state pianificate le peggiori stragi recenti contro l’umanità. Ne ricordiamo (anche a qualche smemorato "pacifista") qualcuna: i bombardamenti al napalm sul Vietnam e sul Laos, i massacri di migliaia di uomini e donne in America Latina, dal Guatemala all’Argentina, i bombardamenti sui quartieri civili di Beirut, Panama e Khartoum, l’utilizzo di armi nucleari in Iraq e Jugoslavia. Questo per citare solo alcune delle operazioni terroristiche "ufficiali", e non quelle coperte che la CIA, l’FBI e la DIA hanno compiuto in questi anni con i loro 90.630 "agenti segreti": assassinii di leaders sindacali e politici, militanti e preti cattolici inclusi; addestramento di squadroni della morte, operazioni di sabotaggio, sequestri, ecc. Un luogo tanto inviso a milioni, a miliardi, di uomini che neanche la propaganda borghese ha rivendicato quei morti, tant’è che le immagini sul Pentagono sono assai presto sparite dagli schermi televisivi. Difficile, assai difficile, spremere lacrime dal mondo sui bravi guys assassini professionali del Pentagono! Fuori uno.

Hanno detto

"Bisogna comprendere che questa forma di terrorismo non è altro che la collera dei poveri. L’Occidente ha sempre conquistato e saccheggiato i beni dei poveri nel Sud del mondo. Oggi i poveri si organizzano e si vendicano degli abusi…"

Mons. Nogaro, vescovo di Caserta (il manifesto, 24 settembre)

Dopo l’incontro della speranza tra Shimon Peres e Yasser Arafat, nei Territori si è ripreso a combattere e a morire, gli dice l’intervistatore. "E sarà sempre così -replica Avnery- fino a quando Israele non farà i conti con una verità storica ineludibile: in questa sporca guerra noi siamo gli oppressori e i palestinesi gli oppressi". Oppressi che però fanno uso del terrorismo, insinua il corrispondente de ‘L’Unità’. "Mi ascolti bene: il terrorismo è lo strumento in mano di chi non ha carri armati, cacciabombardieri, elicotteri da combattimento per contrapporsi ad un nemico che sembra conoscere solo il linguaggio della forza."

Uri Avnery, pacifista israeliano (L’Unità, 1 ottobre)

Ben altra campagna si è organizzata, invece, sulle Twin Towers dove a "simbolo delle morti innocenti" sono stati abilmente presentati i vigili del fuoco. Un "corpo" che, a differenza di polizia, finanza o vigili urbani, è guardato con generale, e motivata, simpatia dalla "gente comune" e dal proletariato, perché percepito come più utile alla comunità che alla "proprietà".

Ma bisogna essere un killer della carta stampata alla Guzzanti per descrivere l’attacco alle Twin Towers come se fosse stato un "omicidio di massa voluto e deliberato, anzi programmato con nibelungica perfezione, contro donne e bambini", contro comuni americani "di origine africana, pugliese, olandese, tedesca, siciliana", un colpo intenzionalmente diretto proprio contro "tutte le persone comuni, normali, gli operai, i commessi viaggiatori, i conducenti di autobus, le nonne, i bambini e i vecchi" (il giornale, 12 settembre). Forse questo brav’uomo ha scambiato le svettanti Torri del centro di Manhattan per le casupole delle favelas di Caracas o di Calcutta. Ma la realtà dei fatti è leggermente diversa.

Le Twin Towers erano la sede dell’altro terrorismo, quello economico e finanziario, attraverso il quale le grandi banche, le multinazionali, le grandi imprese, affamano milioni di persone. Il centro affari delle Torri Gemelle ospitava 430 società internazionali, commerciali, assicurative, immobiliari, multinazionali, etc. (Corriere della sera, 13 settembre). Nelle torri c’erano le sedi delle più grandi banche d’affari del mondo come la Morgan Stanley (i cui uffici occupavano 20 piani), la Merrill Lynch, l’American Express, il dipartimento delle Finanze di New York, il dipartimento tributario, grandi aziende di telecomunicazioni (CNN, At&T, Xerox, etc.), agenzie finanziarie come la Cantor Fitzgerald che controlla il 75% delle contrattazioni di buoni del tesoro statunitensi, banche del calibro di Deutsche Bank, First Commercial Bank, Fuji Bank, Bank of America, e fermiamoci qui lasciando perdere la Dow Jones & Co., la Wall Street Planning Association, l’Adecco e così via, cioè società che costituiscono il cervello della Borsa o il cervello dello sfruttamento del lavoro interinale. Aggiungiamo solo che le Torri erano abitualmente considerate la capitale mondiale dell’import-export.

Le Twin Towers erano dunque, come scrive la Repubblica del 13 settembre, "un pezzo fisico del capitalismo", o, come scrive il Corriere della sera del 24 settembre, "i due pilastri del capitalismo mondiale", il luogo, insomma, da cui sanguisughe e predatori della finanza internazionale telecomandavano la vita e la morte di milioni di affamati e anche l’impoverimento dei piccoli risparmiatori occidentali. Il luogo da cui, con un semplice clic del mouse di un computer, si decideva se mettere in ginocchio un paese deprezzandone le materie prime sui mercati internazionali, svalutandone la moneta, aumentando i tassi di interesse sul debito o semplicemente drenandone i capitali. Un luogo in cui si speculava e si estorceva il sangue e il sudore di milioni di lavoratori, contadini, immigrati. Del resto, non può essere un caso se, come registra La stampa del 23 settembre, "i caduti sono nella stragrande maggioranza agenti di borsa e impiegati, gente tranquilla che, finito di comprare e vendere azioni…". Questo per un semplice, elementare ristabilimento della verità.

Ben si capisce, perciò, il furore sanguinario che, davanti alla rovina delle due torri, s’è impadronito degli sfruttatori di tutto il mondo. Ma perché meravigliarsi se, e non solo nel mondo islamico, masse di diseredati e di sfruttati, a iniziare dalle masse palestinesi, hanno gioito nel vederle crollare? e perché anche un lavoratore occidentale dovrebbe identificarsi con quegli emblemi di sfruttamento e di rapina? con quei simboli di una civiltà, quella capitalista, che ha la sua ragion d’essere nello sfruttamento dell’uomo sull’uomo?

E gli innocenti?

Ma -ci è stato fatto notare- sotto le macerie delle Twin Towers non sono morti solo i brokers o qualche direttore di banca, le cui morti possono non suscitare particolari emozioni, sono morti anche lavoratori veri: addetti alle pulizie, facchini, postini, gente comune. E tanti, tra loro, erano per giunta immigrati. Perché anche loro? non è stata forse, almeno questa, una strage di innocenti? non abbiamo proprio nulla da dire in proposito, noi del che fare?

Osserviamo anzitutto che ci piacerebbe essere sottoposti a questo stesso interrogatorio ogni volta che muoiono nel mondo, di fame, 5.000 bambini di colore: cioè ogni 3 ore, 8 volte al giorno. E ci piacerebbe, anche, che si capisse quanti uomini e donne palestinesi o iracheni potrebbero fare, e ci fanno, un’analoga domanda (salvo che non ci degnamo neppure di ascoltarla per sbaglio una volta…). Di cosa sono colpevoli i bambini di Baghdad che il "civile occidente" continua a bombardare e affamare da dieci anni? Di cosa sono colpevoli miliardi di uomini e donne costretti a vivere con meno di un dollaro il giorno? Di cosa sono colpevoli i campesinos latino-americani, espropriati e affamati dalle multinazionali agro-alimentari? Di cosa sono colpevoli i popoli africani cui le multinazionali farmaceutiche occidentali si rifiutano non già di distribuire farmaci ma perfino di darne i brevetti in licenza?

Morti di un’umanità inferiore

"Se a voi non dispiace quello che succede in Iraq, in Palestina e in tutti i paesi del Sud del mondo, allora non provo dispiacere per quello che è successo a New York". "Se voi faceste un minuto di sciopero per il mondo arabo, questo minuto vi verrebbe ricambiato 10 volte tanto; noi abbiamo una grande generosità e teniamo alla vera definizione di umanità pulita". Così due lavoratori immigrati di Brescia hanno spiegato perché, assieme a molti altri lavoratori immigrati in tutta Italia, si sono rifiutati di partecipare allo sciopero "contro il terrorismo", e ai minuti di silenzio in commemorazione delle vittime dell’11 settembre in Usa. Una scelta non facile, che li ha esposti a critiche durissime, e, in più di un caso, violente. Questa coraggiosa scelta è stata dovuta a una semplice presa d’atto: voi, lavoratori italiani, non avete mai sentito il bisogno di commemorare i nostri morti, non avete indetto neppure un minuto di sciopero per il terribile terrorismo subito dal popolo irakeno o da quello palestinese. Provate pietà umana dinanzi ai morti in Usa ma non per gli altri. Perché? Forse perché gli altri non partecipano allo stesso titolo alla comune umanità? Sono esseri di un’umanità inferiore, la cui perdita non suscita la stessa compassione?

Non si può dare torto a questi lavoratori, essi puntano l’indice contro un problema vero: c’è tra i lavoratori bianchi un razzismo latente, spesso nascosto anche dietro gli atteggiamenti più "tolleranti" e "disponibili" verso gli immigrati. Neanche i sostenitori del "multi-etnicismo" o del "multi-culturalismo" ne sono immuni, allorchè consigliano agli immigrati che per "integrarsi" e "farsi accettare" dovrebbero rinunciare a esprimere il dissenso da questo tipo di commemorazioni razziali e razziste. L’indice è, però, inconsapevolmente puntato anche su un altro problema vero, che fa da fondamento al primo: i lavoratori bianchi non hanno soltanto commemorato i "propri" morti (nel senso di razza), ma hanno commemorato anche la distruzione di qualcosa che rappresenta una civiltà a cui essi sentono di appartenere. La distruzione dell’apparato industriale dell’Iraq e della Jugoslavia, la desertificazione della loro agricoltura a opera delle armi occidentali non ha suscitato in loro neanche un sospiro in confronto al panico che hanno avvertito nel vedere crollare uno dei simboli del potere economico-finanziario mondiale del capitalismo. Essi si sentono dentro questo sistema e sentono le proprie sorti intrecciate alle sue.

Può questo legame durare? Non, non lo può. Quei fili che lo sostenevano vengono a uno a uno recisi dallo stesso sistema capitalistico, che ci dà, così, un grande aiuto a infrangere quei pregiudizi che sono stati, finora, decisivi per conservare il suo dominio sul mondo tenendo separate e contrapposte in due diversi poli le forze proletarie. La loro unificazione politica e di lotta deve, però, diventare l’obiettivo esplicito di chiunque voglia combatterlo davvero. Perciò, i morti irakeni, serbi o palestinesi sono morti nostri, non per il colore della pelle, ma per l’appartenenza di classe. Sono vittime dell’oppressione imperialista. Commemoriamoli e combattiamo contro i loro carnefici, che sono proprio qui nel "civile" mondo occidentale. Commemoriamo su questa stessa base anche i morti di New York, non in quanto vittime di un cieco terrore "esterno", ma in quanto vittime di una guerra scatenata dal "loro" stato, dal "loro" imperialismo.

Diciamo poi: nessun compagno dell’OCI gioisce per le vittime dell’attentato di New York, è del tutto ovvio. I comunisti, in quanto portatori di un programma di liberazione di tutta l’umanità, sono talmente umani da provare pietà perfino dei loro nemici borghesi quali "persone" alienate nella, e dalla, presente società di cui si sono sostenitori e consapevoli strumenti (un ottimo campione di ciò erano proprio i finanzieri e i brokers delle Torri Gemelle). Ma questo non ci impedisce di provare contro di essi un giusto odio di classe e di mettere in conto una giusta violenza di classe per l’emancipazione di tutti e di ciascuno (nemici attuali compresi). Tanto meno proviamo piacere per le vittime "innocenti". Ma il fatto è che nella attuale società così com’è definita alla scala mondiale noi non possiamo considerare nessuno innocente rispetto al corso che essa ha. Chiediamoci, per esempio, se è stata forse innocente -in tutti questi anni- la cecità con la quale i lavoratori delle metropoli occidentali hanno fatto finta di non vedere la guerra ininterrotta che il nord ricco del mondo sta conducendo contro il sud povero del mondo; una cecità a causa della quale non si sono accorti che essa diventava sempre più infame, sanguinaria e insopportabile.

Perché stupirsi allora che l’eroica resistenza a questa guerra da parte degli oppressi islamici si esprima anche attraverso anonimi e micidiali atti di "terrorismo"? Quale altro segnale di lotta e di ribellione è riuscito a lanciare loro il proletariato metropolitano? Quale altra strada ha indicato per combattere questa guerra? Gli "innocenti" delle Torri Gemelle pagano la loro non innocenza rispetto alla guerra continua scatenata dal "proprio" stato contro le vittime, mille e mille volte di più di quelle di New York!, del "proprio" imperialismo. Il nemico è in casa propria, i morti degli attentati sono frutto di esso, non di un nemico "pazzo" esterno. Che diremmo, per esempio, di un attacco ad Aviano con vittime, magari anche italiane, "innocenti"? Non sarebbe immondo, dopo tutto il carico di morte e distruzione che è partito da Aviano-Italia, strepitare di "crimini contro l’umanità" solo perché un minimo frammento del dolore che abbiamo seminato -con la nostra complicità, poiché anche la sola passività è complicità- ci ritorna indietro?

C’è chi formula la stessa obiezione circa la morte di innocenti a New York da un altro punto di vista: "D’accordo, dite che è una guerra, una guerra di classe; ma cosa c’entrano i singoli? Cosa c’entra il singolo lavoratore, la singola casalinga che magari sono stati colpiti due volte: una prima volta come proletari, e la seconda come ‘bianchi’ finendo per essere anche loro coinvolti in questi attentati?". Ma anche in questo caso, attenti alla premessa. Perché nessuno di noi è un singolo individuo, una piccola monade separata dagli altri. Ognuno di noi -volente o nolente- fa parte di una comunità sociale e dentro questa comunità sociale fa parte di una specifica classe. Se si smarrisce il senso di appartenenza alla propria classe e ci si identifica con la "propria" comunità indistinta, e cioè con il proprio capitalismo predatore, il "proprio" stato, il "proprio" esercito, allora è fatale che l’odio degli sfruttati che quegli stati e quegli eserciti suscitano, colpisca anche i loro popoli. Ecco la risposta alla domanda che quella bambina americana ha rivolto a Bush, subito dopo l’11 settembre: "perché ci odiano tanto?".

Ci si convinca: nessuno può dirsi innocente, neanche il lavoratore bianco più sottopagato o precario. Perché finora anch’egli ha sperato che comunque da quella guerra poteva sottrarsi e guardarla con indifferenza, in un silenzio che non è mai neutrale. E che si è rivelato, per giunta, una terribile illusione. Da quell’indifferenza egli ha guadagnato, infatti, solo ulteriori peggioramenti delle sue condizioni di vita e di lavoro e l’annullamento della sua distinta identità di classe. Con quel silenzio egli ha finito per accondiscendere alle aggressioni militari e finanziarie dei propri governi e dei propri stati. E allora come stupirsi se per milioni di sfruttati del mondo, con gli occidentali, si potrebbe fare di "tutta l’erba un fascio"?

E se davvero nessuno è innocente, se le terribili ritorsioni che gli Usa e tutti gli stati occidentali hanno cominciato ad attuare faranno montagne di vittime e di distruzioni, e se soprattutto queste aggressioni continueranno ad essere consumate nel silenzio dei lavoratori bianchi, potremmo sorprenderci domani se gli oppressi del sud del mondo vi reagiranno con una violenza ancora più "indiscriminata", attuata magari contro un grande centro commerciale o una metropolitana?

Che fare

Non è dunque con la giustificata "collera dei poveri" che dobbiamo prendercela. A meno di non volerli per sempre schiavi, a essi va riconosciuto in pieno il diritto di rispondere alla violenza concentrata e globale del capitalismo con la violenza di classe, che semmai sarà sempre troppo poca rispetto alla potenza di fuoco dell’imperialismo. Siamo noi, proletari dell’Occidente, che dobbiamo scrollarci di dosso, al più presto e completamente, ogni forma di neutralità verso i due schieramenti in scontro. Ha ragione Bush: nessuna equidistanza è possibile tra gli sfruttatori e gli sfruttati! Lo tengano ben presente i giovani del movimento no global, i più vivi militanti del mondo cattolico, i lavoratori dei Cobas e della Fiom "scesi" a Genova e quant’altri. Il vero, grande, criminale terrorismo da combattere è quello del capitale, del capitalismo, dell’imperialismo, è quello ben radicato anche nelle strutture e nelle politiche del nostro stato. È contro di esso che dobbiamo concentrare la nostra denunzia, la nostra lotta, i nostri colpi. Ed è soltanto attraverso questo nostro incondizionato schieramento al fianco delle masse islamiche e terzomondiali martirizzate dall’Occidente che potremo aiutare i nostri fratelli di classe del Sud del mondo a potenziare la loro risposta di lotta e a indirizzarla al meglio così per far crollare, insieme, l’intera impalcatura del capitalismo mondiale.