Il movimento no-global e la guerra


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I fatti dell’undici settembre hanno colto il movimento "no-global" nelle difficoltà seguite alle manifestazioni di Genova. Un fattore "nuovo" irrompe all’"improvviso": la rabbia degli oppressi del Terzo Mondo. Al movimento si pone un bruciante quesito: è un elemento che interrompe e ostacola lo sviluppo di questa lotta, oppure è una risorsa fondamentale della lotta contro il capitalismo globalizzato?


La repressione statale di Genova ha innescato nel movimento una discussione che apparentemente riguarda solo la questione della violenza, ma che, nella sostanza, pone il problema di fondo di come andare avanti. Le opzioni in campo sono sostanzialmente due. La prima è sostenuta da tutti i "capi", auto-nominati o nominati dal complesso politico e mediatico della borghesia e punta a un movimento che prema sugli stati e sulle loro organizzazioni transnazionali al fine di costringerli (o di convincerli, nelle versioni più moderate) a una globalizzazione dal volto più umano. La seconda si agita, spesso in modo magmatico, in una parte della massa e dei militanti dei gruppi più radicali e punta a un movimento d’opposizione dura, senza mediazioni. Questa spinta più combattiva non comporta necessariamente un’istanza rivoluzionaria, anzi si basa, per lo più, su un’aspirazione ugualmente riformista, con la differenza, non secondaria, però, di mettere le possibilità di riforma non nelle mani di pietistiche petizioni, ma in quelle di concreti rapporti di forza da costruire sul terreno anche dello scontro e della resistenza alla violenza statale.

Bambini morti di fame: 35.615 (stime Fao). Luogo: paesi poveri del mondo. Edizioni speciali dei tg: zero. Articoli sui giornali: zero. Messaggi di presidenti della repubblica: zero. Convocazioni di unità di crisi: zero. Manifestazioni di solidarietà: zero. Minuti di silenzio: zero. Social forum organizzati: zero. Messaggi del papa: zero. Le borse: non male. L’euro: in ripresa. Livello di allarme: zero. Mobilitazione di eserciti: zero. Ipotesi sull’identità dei criminali: nessuna...

G. Federico Jauch, sul manifesto del 16.9.2001

Nel cuore di questa discussione s’è fiondata l’azione di guerra di New York e Washington. Agnoletto, Casarini & C. hanno reagito all’unisono, gridando ai quattro venti l’ostilità al terrorismo e dichiarandosi equanimamente ostili anche alla risposta di guerra degli stati occidentali. Ciò che più li preoccupa è che il terrorismo chiuda gli spazi democratici ai movimenti contro la globalizzazione. D’un colpo sono scomparsi Seattle, Nizza, Praga, Goteborg, Napoli e Genova. D’un colpo è svanita la repressione crescentemente violenta con cui gli stati del G7 andavano accogliendo questo movimento, e la responsabilità del "restringimento degli spazi democratici" è caricata sulle spalle del "terrorismo". Complimenti per la mistificazione! L’inversione della realtà trova alimento in un pregiudizio radicato in detti "capi". Il pregiudizio è che qui si abbia a che fare con stati in fin dei conti democratici, che possono qualche volta sbagliare o esagerare, ma che, grazie alla democrazia, possono, prima o poi, correggersi, non foss’altro perché possiamo pur sempre eleggere al governo qualcuno di provata fede democratica.

Ora, questi stati pongono un esplicito ricatto: la democrazia è un bene comune, del capitalismo e di voi oppositori, uniamoci per difenderla dall’aggressione violenta che subisce, e, poi, potremo tornare a discutere "civilmente" (…come a Genova) tra di noi. Nel frattempo, sia chiaro, dovete sospendere ogni protesta, non disturbare il manovratore, impegnato anche per voi nella lotta cruenta contro il sommo male della violenza, e, a vostra volta, arruolarvi nella guerra per esportare in tutto il mondo la nostra comune democrazia. La logica conseguenza del pregiudizio anzidetto porta gli Agnoletto & C. a ritenere che questi stati, subendo un’aggressione "esterna", sono persino legittimati a restringere un po’ le "libertà democratiche". Quel che si contesta è solo che non si arrivi al totale soffocamento d’ogni forma di dissenso. La coerenza, come si vede, è assoluta: se lo scopo è di premere sui governi, è sufficiente garantirsi la possibilità di esprimere il dissenso, di conservare anche miseri spazietti in cui poter continuare a elaborare le ragionevoli proposte "alternative".

Sconfinata ipocrisia

Il tutto viene condito con accorati appelli al "rispetto della vita" e della "dignità della persona umana" per stigmatizzare le azioni di New York e Washington. Questi appelli contengono una sconfinata ipocrisia. Mille e una prove sono date per misurare quale rispetto della vita e della dignità della persona umana abbiano gli stati occidentali e il sistema di civiltà che difendono. L’ipocrisia è tanto più rivoltante in quanto è espressa da chi ha velocemente accantonato le proprie denunce contro la "violenza della globalizzazione" e strepita, ora, contro la violenza che quella ineluttabilmente richiama. Certo anch’essi sentono "le ragioni del Terzo Mondo", e vorrebbero mitigarne l’oppressione e la miseria, ma alla condizione che le sue masse stiano al gioco, si fidino delle arti di tali "capi", ne appoggino la politica, e ne mettano in pratica i consigli simili a quelli che gli hanno elargito in pompa magna a Porto Alegre. Se queste masse, però, stanche anche dell’impotenza e dell’inanità di queste politiche, dovessero incamminarsi su strade diverse dalla lacrimosa petizione di irrealizzabili "riforme" del sistema, optando, invece, su una lotta a fondo contro di esso (sia pure con bandiere illusorie come l’islamismo), allora ogni "aiuto" sarebbe troncato, e lo schieramento dalla "nostra parte" occidentale diverrebbe obbligato. Uno schieramento con intendimenti "critici", di chi implora l’Occidente di non esser troppo disumano, ma di selezionare bene gli obiettivi e le modalità di perseguirli. In linea con quanto richiedevano a proposito dell’Iraq, per il quale peroravano invece che la guerra un più "civile" embargo. Dopo 10 anni s’è ben visto come la loro soluzione abbia fatto persino più disastri: 300mila morti l’una, 1 milione e mezzo l’altro!

Dittatura mondiale e guerra permanente

Se si guarda alla "direzione" del movimento sembrano passati mille anni dalle giornate di Genova. Ma non è così, non può essere così, per la grande massa di chi ha partecipato o ha simpatizzato per questa lotta non per contestare la "legittimità" dei 7 grandi di ergersi a direttorio mondiale, ma per protestare contro la dittatura sul mondo che essi già esercitano. Questa dittatura non ha escluso e non esclude alcun mezzo. La storia della sua evoluzione è storia di guerre e di violenza cieca. Né si può rubricare sotto una voce diversa dalla violenza pura, tanto per dire, il ricatto del debito, la difesa dei profitti delle multinazionali del farmaco contro i malati di Aids, o l’aggressione all’ambiente naturale, che proprio nel Terzo Mondo manifesta in pieno la vera essenza di distruzione di vite umane.

Dal punto di vista occidentale tutto ciò semplicemente non esiste, oppure è l’esito ineluttabile dell’incapacità di quei popoli di elevarsi al nostro superiore grado di sviluppo e di civiltà, talché sarebbe meglio governarli direttamente "noi" con un nuovo colonialismo, affermato, se necessario, tramite la rimozione manu militari -puntualmente sancita dall’Onu- delle loro dirigenze "corrotte e dittatoriali" (c’è sempre un Khomeini, Gheddafi, Castro, Milosevic, Saddam o i talibani a impedire l’elevazione dei rispettivi popoli). Buona parte degli "oppositori" occidentali vede che qualcosa non quadra in questa gestione del mondo, e teme che andando avanti così prima o poi qualcosa di catastrofico possa accadere. Invece, però, di dare nome e cognome a quel che accade preferisce crogiolarsi nella convinzione che una "mobilitazione della società civile" occidentale possa riuscire a modificare taluni aspetti di "eccessiva" violenza lasciando, per il resto, tutto come prima o quasi.

Un nome preciso, invece, lo danno sempre più le masse sterminate dei paesi oppressi, quelle arabo-islamiche sopra tutte. Loro sanno con chiarezza di subire una vera e propria guerra il cui scopo è di rapinarle d’ogni bene, di precipitarle in condizioni di crescente miseria pur di rimpinguare le casse occidentali. Una guerra che finora le ha viste solo vittime e che oggi sembra loro possibile, finalmente, poter portare anche contro gli oppressori. Stiamo, con ciò, "appoggiando il terrorismo", oppure fornendogli una giustificazione morale? Qualunque leguleio (e anche nel "movimento" non mancano…) può sbizzarrirsi a ricercare se tutto ciò rientri nella fattispecie di un qualche reato codificato. Pur ammesso che la forza dello stato zittisca la voce di chi dà alla realtà il suo vero nome, le cose non cambierebbero in nulla. La guerra esisteva ben prima dell’11 settembre, e a chi la subiva come vittima -miliardi di esseri umani!- si era già rivelata nella sua cruda e cruenta realtà, che inevitabilmente richiama la necessità di rispondervi allo stesso livello (almeno intenzionalmente, perché quanto a mezzi e violenza la proporzione è… sproporzionata).

Può non piacere, e non piace, che migliaia di persone periscano sotto il crollo delle Twin Towers, ma si possono considerare vittime di una violenza cieca e misteriosa, messa in atto da un fanatico che aspira a un potere sommo in concorrenza con altrettanti fanatici (migliori, in ogni caso, del primo in quanto democratici!) collocati ai vertici del potere in Occidente? Chiudere gli occhi per non vedere le reali cause scatenanti di certe reazioni, porta naturalmente a schierarsi dalla parte di chi è responsabile principale di quelle cause, cioè proprio quella dittatura mondiale che si è andati a contestare a Genova. È contro di essa che si leva anche la lotta delle masse oppresse del Terzo Mondo, offrendo un apporto straordinario senza del quale nessuna seria battaglia si potrà dare contro la dittatura mondiale del profitto e del denaro.

Rimuovere le cause di fondo

C’è chi, spaventato dalla spirale di reazioni e contro-reazioni belliche, avverte che una vera soluzione consiste solo nel "risolvere i problemi alla radice". Ed è qui il punto principale. Cosa vuol dire risolvere i problemi alla radice? Una "pace" in Palestina che imponga agli uni e agli altri qualche amputazione dei rispettivi obiettivi? Un di più di "aiuti" occidentali per la fame e la miseria nel mondo? Una spuntatura agli artigli delle multinazionali che rapinano e sfruttano senza controllo in ogni dove? Queste "quadrature" del cerchio hanno, ormai, il decisivo inconveniente di dimostrarsi sempre più impossibili. Un capitalismo famelico braccato da una crisi permanente dell’accumulazione non può rinunciare neppure a una briciola di ciò che espropria al resto dell’umanità (fuori i confini occidentali, ma, ormai, sempre più anche dentro di essi). Le masse lavoratrici sfruttate cominciano a non poterne più di "compromessi" che quand’anche si concretizzano, si rivelano sulla propria pelle puntualmente peggiorativi delle condizioni date. Non possono continuare a piegarsi, a lasciarsi decimare dalla rapina crescente, a farsi deportare da un continente all’altro per trovare solo nuova oppressione e discriminazione, non possono continuare a rimanere vittime inermi di una guerra senza limiti. La soluzione alla radice dei problemi è, dunque, proprio in una lotta senza quartiere al sistema che li produce, una lotta che ne unifichi saldamente tutte le vittime, in qualunque continente abbiano la buona (o mala) sorte di vivere.

La resistenza delle masse oppresse dall’imperialismo è contro il capitalismo globalizzato più ancora di quanto dicano le loro parole, e di quanto dicano le parole e gli atti dei capi e delle tendenze politiche che se ne fanno, al momento, paladini. La loro lotta, la ripresa della loro organizzazione politica, è una risorsa straordinaria per chi sa che al capitalismo globalizzato non si può rispondere con le petizioni di riforme o le richieste di "buona volontà". Un legame strettissimo deve essere costruito tra i due poli mondiali in cui è tuttora divisa la classe proletaria, l’intera umanità lavoratrice. Un legame da cui può scaturire una forza assolutamente in grado di sbarazzare quella del capitalismo e dell’imperialismo. Stringere legami con chi segue l’islamismo, con chi esulta dinanzi a migliaia di morti? Sì stringere legami con le masse oppresse anche quando manifestano in questo modo il loro incontenibile e giustificatissimo odio. Perché solo una vera lotta mondiale contro il capitalismo, capace di delineare soluzioni vere e mobilitare forze ovunque, può costituire un’alternativa seria a ogni altro programma che non è, di per sé, in grado di abbattere davvero lo stato di cose presenti e che adotta metodi che creano "sconcerto". Per questo il nostro appoggio alla loro lotta deve essere incondizionato. Non può porre loro la condizione: liberatevi prima dei vostri capi e delle vostre ideologie reazionarie e costituiremo, dopo, un fronte unico con voi. Non potranno mai liberarsi né degli uni né degli altri fino a quando non vedranno emergere, nel cuore di quel mondo che bestialmente le opprime, una forza vera, un’organizzazione solida, che si batta per un programma credibile di soluzione di tutti i mali che le affliggono, capace di denunciare e di lottare contro la somma violenza dei propri stati, la totale disumanità del sistema economico e sociale che essi difendono, prima di poter fare la più piccola delle critiche alle ideologie e alle forme tramite le quali la lotta degli oppressi si esprime.

Contro l’imperialismo occidentale

Berlusconi ebbe a dire con grande franchezza a chi andava a Genova a manifestare: non ve ne rendete conto, ma la vostra lotta è contro l’Occidente, contro il suo sistema di mercato. Aveva ragione. Dinanzi all’opportunità di saldare le proprie forze con quelle emergenti dal Terzo Mondo, ora, quel movimento arretra, ed è tentato di rimettersi sotto le ali protettive di quel sistema che aveva cominciato a contestare. Ma nessuna delle ragioni che l’hanno partorito scompare o si attenua; al contrario, tutte crescono esponenzialmente. Si può rinunciare momentaneamente, ma non per sempre. È inevitabile riprendere la lotta. Ed è inevitabile riprenderla da un punto ancora più alto, perché proprio le azioni di guerra si incaricano di dimostrare che ciò che veramente difendono è unicamente il dominio dittatoriale del profitto contro cui il movimento ha cominciato a muovere i primi passi.

E, d’ora innanzi, non si potrà più fingere di lottare anche "per conto" delle masse diseredate dei paesi e dei continenti oppressi. Si potrà lottare davvero solo assieme a loro, cominciando fin d’ora a schierarci nella guerra che l’11 settembre non ha iniziato, ma solo rivelato anche agli occhi dei non-vedenti occidentali: o con gli sfruttati di tutto il mondo o con gli stati, e le loro istituzioni, che li sfruttano, li opprimono e li massacrano.